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Fiction no-fiction: “Storia della colonna infame”

Ha goduto (e gode) di largo (e immeritato) successo il pamphlet della Storia della colonna infame, per presunte sue qualità storiche, nell’impianto complessivo e nello sviluppo strutturale, soprattutto, se letto in rapporto al romanzo, I promessi sposi, del quale costituirebbe un unicum narrativo. In realtà, quest’opera era nata come già collegata con il Fermo e Lucia, prima stesura del romanzo, per poi espandersi e vivere, nelle intenzioni dello stesso Alessandro Manzoni, di vita (editoriale) autonoma. Nel 1842, infatti, Manzoni pubblicò in forma autonoma questo suo pamphlet. In tempi recenti, la Storia della colonna infame viene, quasi sempre, pubblicata in appendice al romanzo.
Com’è noto, l’opera racconta la storia di un celeberrimo processo milanese, quello intentato nel 1630 a danno del malcapitato Guglielmo Piazza, ispettore della sanità, che, sulla base della testimonianza di una popolana, tale Caterina Rosa, che Manzoni definisce «donnicciola», venne accusato di essere stato uno degli untori responsabile della diffusione del contagio di peste in città. Arrestato e torturato, all’oscuro degli stessi capi di imputazione, Piazza, con la speranza di porre fine ai suoi tormenti, sotto tortura, tirò in ballo (come suo complice) il barbiere Gian Giacomo Mora (ovviamente, estraneo ai fatti contestati, come lo stesso Piazza, del resto, e come altri malcapitati in quel processo). Nel capitolo XXXI de I promessi sposi, il lettore trova rinvii e riferimenti a queste azioni di stregoneria, o, comunque, a queste azioni di arti e operazioni venefiche e diaboliche, messe in atto da parte di persone, evidentemente, malvage (e senza Dio), dando credito alla pubblica opinione e agli stessi convincimenti dei magistrati inquirenti. I due attori principali di questa triste vicenda, Piazza e Mora, verranno torturati, condannati e uccisi (l’abitazione di Gian Giacomo Mora, inoltre, verrà rasa al suolo, e al suo posto verrà innalzata, appunto, una colonna dell’infamia, a perenne memoria).
Per impostare questo suo lavoro di approfondimento storico (o pseudo tale), sulla peste di Milano del XVII secolo, Manzoni si avvalse sia degli studi storici (su quella pestilenza) di Giuseppe Ripamonti (1573-1643), sia, anche, del pamphlet del nonno materno, Cesare Beccaria, giurista, filosofo, economista e letterato, autore del libro Dei delitti e delle pene (1764), contro i metodi inquisitori dell’epoca, contro la pena di morte, e contro il ricorso alla tortura come strumento per estorcere confessioni. Fonte non secondaria, inoltre, per la Storia della colonna infame di Manzoni, fu pure un pamphlet di Pietro Verri, amico di Cesare Beccaria, tra gli intellettuali illuministi di primissimo rango dell’ambiente culturale milanese (e lombardo), e zio di Alessandro stesso (visto che, com’è noto,  Alessandro nacque da una relazione extraconiugale tra Giulia Beccaria, sua madre, e Giovanni Verri, fratello minore di Pietro), che nel 1777, in redazione definitiva, pubblicava le sue Osservazioni sulla tortura. Fu Benedetto Croce (1866-1952), filosofo, storico, critico letterario e scrittore, a contestare la storicità dell’impianto della Colonna infame manzoniana. A giudizio di Croce, infatti, Manzoni, nella sua Storia della colonna infame, si lasciò guidare da un’impostazione etica, nient’affatto storica. La prospettiva morale, sempre a giudizio di Croce, finisce per far travisare la valutazione dei fatti storici raccontati. Ora, al di là del dibattito storico-filosofico, e della collocazione di genere di quest’opera manzoniana, che, mi piace ricordare, fosse nata, nelle intenzioni iniziali dello scrittore, come un tutt’uno con il romanzo; al di là del ricchissimo dibattito fiorito, dunque, nei decenni successivi alla sua prima pubblicazione, e che dura ancora oggi, dalla mia prospettiva critica, ritengo che il pregio di quest’opera di Manzoni stia nello stile, e nient’affatto nel contenuto. Nel senso che, essa è, a mio giudizio, testo fondativo di un genere letterario del tutto nuovo, per la nostra tradizione letteraria, e che, oggi, con espressione inglese, siamo soliti definire come «fiction no-fiction». Lungo questo percorso creativo, infatti, troviamo, decenni dopo, testi come L’affaire Moro di Leonardo Sciascia (1921-1989), scrittore italiano del Novecento, tra i maggiori, significativamente, scrittore manzoniano, nel senso di scrittore illuminista, che cioè avesse preso dal Manzoni illuminista la lezione per le analisi e per le interpretazione della realtà, pubblicato nel 1978, come narrazione “a caldo” del rapimento e dell’uccisione dell’onorevole Aldo Moro (1916-1978), per mano dei brigatisti. Oppure, in epoca più recente, a noi contemporanea, Gomorra di Roberto Saviano (1979), edito in prima edizione nel 2006, «fiction no-fiction» che racconta il mondo affaristico della camorra napoletana (anche se inizialmente, da un punto di vista editoriale, Gomorra fu rubricato come romanzo).

 

Capostipite, dunque, di un genere letterario a metà tra l’opera di invenzione narrativa, e il documentario, il giornalismo d’inchiesta: «fiction no-fiction» o «docu-fiction», la Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni può vantare questo primato. Non altro. Il paradigma ideologico cui, infatti, fa ricorso Manzoni, per analizzare e per commentare i fatti di quel processo milanese del 1630, resta identico al paradigma ideologico del romanzo: il popolo (specie quello cittadino) è canaglia, è superstizioso, sedizioso e cattivo. Nel romanzo, accade la stessa cosa: appena Renzo giunge in città, e si lascia trascinare dal popolo cittadino, per lui iniziano i problemi, perché crede, con quella turba, di poter fare da solo, di poter fare a meno della Provvidenza divina, e finisce male. Non così il popolo del contado, che invece è popolo rassegnato e quindi buono. Nella Storia della colonna infame l’atteggiamento ideologico di Manzoni, anche in modo difforme da Beccaria e da Verri, come fra un po’ chiarirò, resta identico a quello tenuto nelle pagine del romanzo (dal Fermo e Lucia, del 1823, ai Promessi sposi, del 1840).
Manzoni, con la sua lettura etica (nient’affatto storica) delle vicende del processo milanese (a Guglielmo Piazza, a Gian Giacomo Mora, e ad altri malcapitati), assolve i potenti, i magistrati inquirenti, e i rappresentanti delle Istituzioni, che, tutti, nella gestione di quella pestilenza avevano sbagliato di grosso, e condanna, invece, la vile canaglia popolare, ignorante, superstiziosa (e sediziosa). Nella prospettiva di Manzoni, infatti, e a differenza di quanto, invece, avevano sostenuto in precedenza sia Beccaria, che Verri, la responsabilità di quanto accaduto, con tutte le efferatezze giuridiche (le condanne, le accuse, le torture), non è della cultura dominante del tempo, né degli errori clamorosi commessi, e della totale inadeguatezza delle Istituzioni (e dei magistrati), nell’affrontare la gestione della pestilenza, ma del popolo canaglia (del singolo individuo). Il contagio come frutto di un’azione stregonesca (messa in atto da parte di fantomatici untori). Responsabilità individuale, dunque, non collettiva, o culturale, o di contesto sociale e storico, a cominciare dalla responsabilità di quella della popolana, ignorante, la «donnicciola» Caterina Rosa, che, per prima, mette in moto la «macchina del fango», nei confronti dell’innocente ispettore di sanità Guglielmo Piazza, sostenendo di averlo visto, dalla finestra di casa sua, aggirarsi per le vie di Milano, con una misteriosa boccettina in mano. Responsabilità del singolo untore, non dell’intera società e della sua cultura, dei suoi metodi giudiziari, e così via. Manzoni, anche nella Storia della colonna infame, assolve i potenti magistrati, e condanna il popolino (specie quello cittadino), superstizioso, ignorante e cattivo:

Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva, furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace.

Leonardo Sciascia, in un passaggio del suo commento al testo della Storia della colonna infame, per le edizioni Sellerio (1981), non riesce a cogliere proprio questo paradigma ideologico del Manzoni, ritenendo, al contrario, che l’assunzione della prospettiva individuale, nella ricerca delle responsabilità del contagio, fosse la cifra positiva di quel pamphlet manzoniano, rispetto alle severe critiche illuministe precedenti (di Beccaria e di Verri, che, invece, avevano messo sotto accusa l’intera società del XVII secolo, la sua cultura, il suo perbenismo, le sue complessive storture in materia di sanità pubblica, di giustizia, ecc.):

Ma su quella di Milano [sulla peste] si abbatteva […] lo sdegno di Pietro Verri, illuminista; e ancora un secolo dopo, nel XIX, la non meno sdegnata ma più dolorosa e inquieta e acuta meditazione di Alessandro Manzoni, cattolico. Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico. Pietro Verri guarda all’oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsabilità individuali.

Tutto preso dal bisogno di collegare la Storia della colonna infame ad analoghe sue considerazioni e riflessioni sui processi di mafia degli anni Ottanta del secolo scorso, sul dibattito politico di quegli anni (accesissimo e asperrimo), intorno alla gestione dei «pentiti» di mafia, dei collaboratori di giustizia, intorno alle polemiche legate ai così detti «professionisti dell’antimafia», per citare la stessa espressione coniata da Leonardo Sciascia, egli, dunque, in queste sue considerazioni intorno al testo manzoniano della Colonna infame, proprio non riuscì a cogliere il passo indietro che Manzoni aveva fatto, rispetto a Beccaria e a Verri, spostando la responsabilità della diffusione del contagio pestilenziale dagli errori della cultura del tempo, dal contesto largo storico-politico, alla sfera delle responsabilità personali, individuali (dei singoli esponenti del popolino superstizioso e malvagio). Sciascia cioè fu distratto, nell’interpretazione del testo manzoniano dalla polemica politico-culturale del suo tempo, dal suo presente storico, e quindi proprio non riuscì a cogliere il paradigma ideologico manzoniano, con il quale, il Gran Lombardo, tra romanzo e pamphlet, continuava a mettere sotto accusa solo e sempre il popolo canaglia (ignorante, superstizioso e sedizioso):

Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla opinion di contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. [dal cap. XXXI]

trifone.gargano@uniba.it

[estratto da Trifone Gargano, Dimenticare Manzoni, Bari, Edizioni Radici Future, 2023]

L'autore

Trifone Gargano
Trifone Gargano
Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura» (Corso di Studio SAMS). Ha insegnato «Didattica della lingua italiana» per l’Università di Foggia, e «Storia della lingua italiana» presso l’Università di Stettino (Polonia). Docente al liceo «don Milani» di Acquaviva delle Fonti (Ba), è autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani.

Con gli Editori Laterza, ha pubblicato Virtute e c@noscenza. Antologia della Commedia di Dante (2010), e il manuale di storia della letteratura italiana Costellazioni letterarie (2012). Con Progedit: La letteratur@ al tempo di Facebook (20162); Geo-Storia della lingua italiana (2016); Dante. La Commedia divina (2017); I come italiano (2017); Infinito pop (2019); Dante pop e rock (2021); La Divina Commedia, edizione integrale, con parafrasi (2021). Con le Edizioni del Rosone: La Divina Commedia di Dante stickers (2017); A scuola (non) si legge (2017); A scuola con Collodi stickers (2018); Dante & Harry Potter (2018); Avanguardie educative e Didattiche della letteratura (2019); Odio Petrarca (e anche Manzoni e tutti gli indifferenti), 2020; Raccontami Gianni Rodari (2020). Con Les Flâneurs Edizioni: L’amoroso canto. Disegni di parole e canzoni (2019). Con Cacucci, Letteratura e Sport (2021).