In primo piano · Interventi

La presenza del Futurismo

La data dell’uscita del manifesto di Filippo Tommaso Marinetti su Le Futurisme nella prima pagina de «Le Figaro» di sabato 20 febbraio 1909 è ricorsa in questi giorni. Per l’occasione ripropongo una mia riflessione (basata soprattutto su POLI 2013, 2017, 2018a, 2019) riguardo ad alcune delle prospettive aperte dalla emancipazione dell’energia dall’ermeneutica sottesa al complesso dei “testi” generati dagli intrecci turbinanti di linguaggi tesi a muovere nel creato l’essere verso il sentire.

Dopo aver pensato a “Elettricismo” e poi a “Dinamismo” ecco, infine, la rivelazione del nome di “Futurismo”, insorta in Tommaso Marinetti l’11 ottobre del 1908, giorno che sarà ritenuto fausto, tant’è che si cercherà di far uscire molti dei manifesti tecnici riguardanti i punti programmatici “di rottura” delle singole arti in tali, oramai divenuti scaramantici, giorno e mese.

Si tratta di realizzare il non facile compito di attendere a quella missione ideale e a quell’ipotesi estrema che si trovano identificate nella “Ricostruzione futurista dell’universo” (manifesto dell’11 marzo del 1915 di Fortunato Depero e Giacomo Balla), tramite cui si immaginava di riuscire a pervenire alla «fusione totale per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente».

Le novità che sollecitano la nuova sensibilità risiedono nel telegrafo, telefono, grammofono, treno, bicicletta, motocicletta, auto (un auto!), transatlantico, dirigibile, aeroplano, cinematografo e nel grande quotidiano «sintesi di una giornata del mondo» (MARINETTI, “Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà”, manifesto dell’11 maggio 1913).

Il dinamismo della realtà, che spinge alla prassi dell’azione, porta inevitabilmente alla modifica dei parametri e dei limiti delle facoltà percettive e della sensibilità. La pulsione al turbinio che ne deriva muove l’intimo delle relazioni antitetiche, come nei dualismi tra vita-morte, luce-oscurità, stasi-movimento, presente-passato, pieno-vuoto, interno-esterno, coeso-scomposto, spingendo verso la caratterizzazione cinetica e metamorfica in cui si realizzano modalità alternative di estraniamento convulsivo prossimo all’espressione estatica.

La temporalità e la spazialità, quindi la stabilità stessa, delle forme sono proiettate nell’oltranza della immaginazione per pervenire alla possibilità del miglioramento. All’opposto di questa esaltazione rimane sempre, nell’impresa di tradurre in immagini la sensazione fisica, il rischio della stasi che, «determinata dalla lentezza, dal ricordo, dall’analisi, dal riposo e dall’abitudine», porta alla «decomposizione» (MARINETTI, “La nuova religione-morale della velocità”, manifesto dell’11 maggio 1916).

La parabola del Futurismo ascende fin tanto che riesce a far corrispondere l’arte con il dominio della tecno-scienza, rendendo concretezza l’utopia di un mondo perfettibile di cui si attua il rinnovamento.

«Voi tutti, futuristi senza saperlo, o futuristi dichiarati, unite dunque i vostri sforzi ai nostri!». Questa è la chiusura del proclama sull’internazionalismo solidale degli intellettuali che esprime il dettato di Marinetti nel manifesto “Le Futurisme mondial – Manifeste à Paris” (conferenza tenuta, su invito della Sorbona, all’Amphithéâtre Turgot il 10 maggio 1924 – pubblicata ne «L’Impero», del 24 maggio 1924).

Nella rottura tutta d’avanguardia della continuità, il Futurismo impone l’idea di progresso, proponendo soluzioni alternative a quelle che le ideologie politiche e, già in precedenza, l’impegno delle Chiese cristiane erano andate prefissando. Il liberalismo, il socialismo e il cristianesimo sono ritenuti superati da questo movimento di avanguardia, emancipatore e planetario, che non si arresta innanzi ai limiti della tradizione metafisica da cui le sfere d’azione degli altri sono circoscritti.

Nell’“Introibo” firmato da Giovanni Papini sul numero primo di «Lacerba», dell’1 gennaio 1913, si esplicita, al punto 14, che la rivista «Sarà uno sfogo per nostro beneficio e per quelli che non sono del tutto rimbecilliti dagli odierni idealismi, riformismi, umanitarismi, cristianismi e moralismi».

Nemmeno alla filosofia di Nietzsche è riconosciuta la capacità di comprendere il nuovo perché, nonostante tutto, egli resta: «un passatista che cammina sulle cime dei monti tessalici, coi piedi disgraziatamente impacciati da lunghi testi greci» (MARINETTI 1915). Lo slancio del Futurismo supera la “museificazione” che sembra avvolgere il pensiero nitzscheano e, come appare evidente nel romanzo africano “Mafarka le futuriste” (MARINETTI 1909), la Volontà di potenza è, nell’èra iniziatasi con Marinetti, consustanziale alla centralità dell’uomo superumano e disumano. Questi, esaltato dall’afflato prometeico, raccoglie nell’intelletto la realtà che diviene per atti: a partire dall’impeto della corsa, per mezzo della quale si disvela la natura di vettura-velivolo antropizzata che si innalza dagli abissi e si proietta nell’era della tecnica.

È oramai giunto il tempo di accogliere l’invito espresso da Rimbaud in “Adieu”, «il faut être absolument moderne» (RIMBAUD 1873), per dissociarsi dalla società costituita e acquisire la libertà di contestarla. Il profilo della nuova condizione è delineato già da Baudelaire ne “Le peintre de la vie moderne”, una raccolta di saggi uscita nel 1863 su «Le Figaro» (26, 29 novembre, 3 dicembre e successivamente radunati in una pubblicazione, BAUDELAIRE 1869). Qui l’io narrante, il poeta-critico Charles Baudelaire, che si identifica con il disegnatore-documentarista Constantin Guys, è l’osservatore. Questi, comportandosi da ‘perfetto’ «dandy» e «flâneur», assume il ruolo di un antagonista, rivelatosi al tempo stesso divino e diabolico, di tutto ciò che dimostra essere banale e retrogrado. Mallarmé si isola dall’indifferenza che avverte attorno a sé, dichiarandosi con sarcasmo provocatorio ‘in sciopero’ («en grève») come poeta.

Nel ritmo del pensiero avviatosi nell’andatura crescente di una marcia esaltata dall’ebbrezza e dallo stupore, i futuristi si presentano all’opinione pubblica come una comunità coesa e organizzata, unificata dal medesimo linguaggio, contraddistinto sul piano morfosintattico dalla ripetizione martellante del pronome “inclusivo” «noi». Gli obiettivi da cogliere sono troppo importanti perché la distanza fra le singole posizioni arresti il contributo che si realizza per via di compromesso e si concretizza nella collegialità autoriale dei manifesti tecnici oltre che nella composizione di opere in comune.

Si giunge al romanzo allostorico di fantapolitica realizzato dal collettivo capeggiato da Marinetti “Lo Zar non è morto. Grande romanzo d’avventure” (GRUPPO DEI DIECI 1929). Nel confronto portato oltre le specificità per cogliere un’attitudine comune, ogni manifesto contiene i principi teorici su cui gli affiliati dovranno far convergere le premesse divisioniste, impressioniste, simboliste, espressioniste, cubiste. Anzi, le prime recensioni francesi accostano il Futurismo al Cubismo e, da lì a breve, l’uscita del “Manifesto del Surrealismo”, del 1924, mostrerà un ulteriore prolungamento della duttilità negli scambi con le avanguardie.

Questo «nostro manifesto» di fondazione, lanciato dai Futuristi da Parigi «pel mondo», a significare la «nostra sfida alle stelle», è un rincorrersi del pronome soggetto «noi» e del rispettivo aggettivo possessivo. Dopo aver specificato con l’incipitario «i miei amici ed io» la pluralità sottostante al monopolio della ideazione, il testo riprende gli agenti con «le nostre anime», rispetto alle quali l’«io» di Marinetti ritorna come calibrato contrappunto che diviene un sapiente impiego retorico nella scena dell’incidente-«prodigio» automobilistico, fino ad assumere un tono profetico nella enunciazione degli undici punti programmatici («noi vogliamo», cinque volte, «noi affermiamo», «noi siamo», «noi viviamo», «noi canteremo»).

L’espressione «Compagni!» del “Manifesto dei pittori futuristi”, del 1910, vuole già sottolineare il senso di appartenenza identitaria volto alla realizzazione di progetti dipendenti dalla stessa visione poetica; si parte con «Noi», che è il titolo della rivista d’arte futurista diretta da Enrico Prampolini, e si prosegue con lo stilema marinettiano ricorrente nella letteratura di ispirazione futurista. Lo si ritrova nel titolo del volume, annunciato nel 1910, del luciniano Enrico Cardile, “Noi, sinceri e liberi”, nella intestazione del volantino “Noi futuristi”, diffuso alla Scala di Milano il 2 marzo 1911, nel titolo del libro di Marinetti et al., del 1917 “Noi futuristi – Teorie essenziali e chiarificazioni”.

Lo stilema è onnipresente:

Noi futuristi (ripetuto nel manifesto elettorale, marzo 1909);

Noi ci occupavamo allora delle relazioni che esistono fra noi e la società […]  La nostra brama […] Il gesto per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale […] Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro […] Noi proclamiamo (“La pittura futurista”, 1910);

Noi ripudiamo l’antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico (“Contro Venezia passatista,” 1910);

Noi inventeremo insieme ciò che io chiamo l’immaginazione senza fili. […] Noi ne abbiamo fatto a meno (“Manifesto tecnico della letteratura futurista”, 1912);

Noi affermiamo invece come principio assoluto del Futurismo […] (“Guerra sola igiene del mondo”, 1915).

Il medesimo stilema si ritrova in Portogallo come in Russia e in Germania. In «Orpheu» nós è martellante. António Joaquim Tavares Ferro è il redattore del manifesto “Nós” che viene pubblicato nella rivista «Klaxon», attiva a São Paulo fra il 1922 e il ’23 su iniziativa di Mario de Andrade. Nel manifesto di rottura del Futurismo russo, del 1912, si afferma che: «soltanto noi (my) siamo il volto del nostro Tempo. Nell’arte verbale, noi siamo il suono del corno del tempo» (“Poščëčina obščestvennomu vkusu” / “Schiaffo al gusto del pubblico” – cfr. DE MICHELIS 2009: 263-264).

Nel 1919 Johannes Molzahn esprime il superamento dell’individualismo all’interno degli espressionisti: «man wollte Uns gleich Euch mit der Trägheit betrügen […] Es gibt kein ICH – und kein DU mehr» / “ci volevano, trarre in inganno con la passività, a Noi come a Voi […] Non esiste né un IO né un TU” (MOLZAHN 1919: 90).

L’aspirazione cosmopolita del Futurismo è veicolata dalla martellante pubblicità operata da Marinetti per renderlo noto in Europa, in Russia (con la importante propaggine georgiana), in Egitto, nell’America Latina, in Giappone. Il nesso fra le Avanguardie d’Italia e di Russia si articola nel complesso di linee derivazioniste o parallele che trovano una sana interpretazione nella prospettiva che considera le tendenze comuni al Modernismo europeo (DE MICHELIS 2009).

In dura reazione al giolittismo che, nell’evidenziare l’impotenza del parlamentarismo, sta inconsapevolmente ponendo le premesse al suo tramonto, i futuristi si dichiarano pronti a esaltare «le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere e dalla sommossa […] perché non v’è più bellezza se non nella lotta». Essa è l’affermazione dell’energia, lo sbocco della conflittualità naturale che permea il mondo nella rivolta contro l’abbrutimento; è il disimpegno dal torpore della rassegnazione e da altri atteggiamenti di passività entro cui Marinetti colloca anche il livellamento egualitario e sociale.

Viene a realizzarsi un caleidoscopio di posizioni in cui il libertarismo, il repubblicanesimo, le molteplici anime socialiste e le fazioni comuniste, da quelle francesi a quelle scientifiche di Marx-Engels si trovano a essere accomunati per la facilità con cui si disseminano in percorsi divergenti e per la repentinità nelle svolte.

Nel suo furore contro la tradizione, il Futurismo guarda con simpatia al «gesto distruttore dei libertari», ossia degli anarchici, bestie nere di quei benpensanti che, indifferentemente se liberali o cattolici, vanno condannati in quanto non riconoscono la portata dal patriottismo. La violenza, quasi come se fosse una legge di lotta per la sopravvivenza naturale darwinianamente intesa, è teorizzata in un pensiero polemologico condiviso con il rivoluzionarismo antiborghese, con l’arditismo e con il nazionalismo aggressivo dei sansepolcristi e dei garibaldini futuristi, prodromi dell’imminente impresa di Fiume e della formazione dello squadrismo.

Si ricordi in proposito la valutazione positiva che della Prima Guerra Mondiale ebbe a fare Lenin e già, prima di lui, Marx in merito al conflitto franco-prussiano del 1870-71, in quanto gli avvenimenti bellici sono tasselli del progresso della lotta del proletariato.

Da parte sua, Marinetti, in Al di là del comunismo (La testa di ferro, Milano 1920), apprezza l’apertura mostrata dalla Russia bolscevica verso le avanguardie, e Antonio Gramsci plaude allo smantellamento dei capisaldi della cultura borghese operato dal Futurismo scrivendo un articolo dal titolo Marinetti il rivoluzionario?, apparso in L’ordine nuovo del 5 gennaio 1922. Vi si afferma che i futuristi «hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita densa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio»; essi, nel distruggere i pregiudizi, gli idoli tradizionali e le gerarchie di valori, dimostrano di essere nel loro campo, quello della cultura, «rivoluzionari», mentre invece i socialisti non osano attaccare la macchina del potere.

Anche in Russia si esprime la medesima opinione nei confronti del Futurismo italiano. Il ministro della educazione Anatolij V. Lunačarskij, egli stesso artista, studioso e critico, afferma nel 1920 di riconoscere in Marinetti l’unico e vero intellettuale rivoluzionario presente in Italia. Trotzkij definirà Marinetti «l’intellettuale più rivoluzionario dell’Italia contemporanea» (AGNESE 2008: 151, no. 7). Marinetti aveva visitato la Russia nel gennaio-febbraio 1914 e Roman Jakobson, allora diciassettenne, gli ha servito da interprete.

Il linguaggio poetico viene distolto dall’orizzonte del sublime, con le sue specialità nella esaltazione, nel memorabile, nel sentimentale, nel fantastico, per essere, a cominciare da Hölderlin, ridotto in frantumi e affidato alla ricerca del nuovo Poeta che, fattosi veggente, sensitivo o sciamano, indaga nell’inconscio come sul fondo dell’ignoto, osando immergersi in abissi inesplorati.

Il soggetto poetico opera una dilatazione verso la duplicità quando “l’altro ego” affiora dal profondo, come incognito o come stato subliminale. Rimbaud, nel 1871, nella “Seconde lettre du Voyant”, del 15 maggio, indirizzata a Paul Demeny, riconosce la necessità che la poesia s’identifichi con la conoscenza: «il poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi».

Il vitalismo che deriva da questa esperienza è la cifra di tutto il Modernismo. I “Canti orfici”, del 1913, di Dino Campana descrivono un viaggio “onirico” intrapreso per abbandonare il noto fino a smarrirsi, lasciandosi guidare dalla pulsione verso il dissolvimento nell’“infinito” (DEL SERRA 1973). A questa ossessione corrisponde in Rilke l’“aperto” al cui raggiungimento egli si sente votato. L’intero ciclo poetico dei cinquantacinque componimenti costitutivi de “Die Sonette an Orpheus”, dedicati nel sottotitolo alla giovane ballerina prematuramente scomparsa Wera Ouckama Knoop (“Ein Grabmal für Wera Ouckama Knoop”), sono scritti di getto («das Diktat») nel febbraio del 1922 in ubbidienza a un irrefrenabile impulso interno («dieses inneren Andrangs» – così nella lettera del 12 aprile 1923 alla contessa Sizzo, cfr. SCHNACK 1977: 60).

In parallelo con il pungolo avvertito da Rilke, Dino Campana, dopo il trauma procurato dalla perdita del manoscritto, consegnato a Papini nel 1913, delle sue liriche raccolte ne “Il più lungo giorno”, è indotto alla coraggiosa decisione di ricomporle estraendole dal profondo della mente. Riuscito nell’impresa, l’anno successivo Campana editerà i “Canti orfici”, il cui sottotitolo in tedesco, “Die Tragödie des letzten Germanen in Italien”, rimanda con ‘l’ultimo Germanico’ alla purezza ideale del barbaro, come naturale e mistico, quale è descritta da Édouard Schuré nel capitolo “L’individualisme et l’anarchie en littérature” (SCHURÉ 1904). Il riferimento dottrinario in Schuré dipende dalla concezione di Nietzsche secondo cui la dimensione barbarica è l’attuazione degli aspetti del dionisiaco e del titanico della poesia che avviene quando, nel relazionarsi con la misura apollinea, i frammenti del mondo, nel ricomporsi nell’unità, comportano lo scioglimento degli enigmi.

Come Marcello Verdenelli ha segnalato servendosi di una ripresa modulare che riattualizza una procedura stilistica tipica di Campana, la lezione poetica del Marradese fa progredire “i connotati di una forza tutta barbarica e primitiva” (VERDENELLI 2003: xxi) in un poeta che si segnala per essere “barbaro e primitivo” (VERDENELLI 2003: xxiii).

Se “primitivo” può da noi essere senz’altro accettato come sinonimico di “barbaro”, “primitivo”, come tecnicismo lessicale dei Canti Orfici, compare quale attributo di Leonardo (“o divino primitivo!” La Verna 3,15-16) in quanto egli è autore di un’arte tesa a scoprire le connessioni sottese al mondo reale e a svelarne le componenti primarie, quelle stesse che il contatto fisiologico permesso dalla rivelazione iniziatica de La Verna mettono in grado Campana d’interpretare quali elementi “barbarici”: “La sanità delle prime cose” (cfr. “Ritorno” ne La Verna 8,2).

Lo stesso cambiamento apportato da Campana al titolo è motivato dall’adesione alla corrente di pensiero esoterico della matrice teo-antroposofica di Rudolf Steiner che sempre Schuré aveva contribuito a far conoscere (SCHURÉ 1889). Il libro ha goduto di diffusione mondiale e conobbe la traduzione in italiano nel 1906 contribuendo alla divulgazione della fenomenologia del paranormale che lo psichiatra Enrico Morselli stava affrontando sugli studi sulla medietà e sulla mente. Il capitolo “Orphée (Les mystères de Dyonysos)” delinea la figura di un Maestro nel quale si conciliano le esperienze culturali con quelle naturali necessarie per la costruzione di una soggettività occulta che, attraverso la discesa nel sottosuolo e il ritorno, comprende il bisogno del recupero dell’oltranza.

Tale interpretazione di Orfismo indica al Modernismo uno schema di procedure cui attenersi e fornisce ai suoi linguaggi un repertorio di simboli. La scissione che Robert Delaunay opera nel 1912 dal Cubismo riceve da Apollinaire la denominazione di “Orfismo”. Ancora Apollinaire compone, nel 1911, la raccolta poetica “Bestiaire ou le cortège d’Orphée” e due anni dopo pubblicherà “L’antitradizione futurista” su «Lacerba»; a marzo e a giugno del 1915 escono i numeri della rivista chiamata, appunto, «Orpheu».

Non possono che essere valutate in tale prospettiva alcune affermazioni che Luis de Montalvôr inserisce nella introduzione al primo fascicolo, quale “piano dell’opera”. Al Bello (come Assoluto), non percepibile nei particolari finché si resta calati in questo esilio, gli iniziati, aristocratici del pensiero, pervengono se si fanno comprendere dall’ideale esoterico:

Puras e raras suas intenções come seu destino de Beleza é o do: – Exílio! Bem propriamente, ORPHEU, é um exílio de temperamentos de arte que a querem como a um segrêdo ou tormento… Nossa pretençao é formar, em grupo ou ideia, um numero escolhido de revelaçoes em pensamento ou arte, que sobre este principio aristocratico tenham em ORPHEU o seu ideal esotérico e bem nosso de nos sentirmos e conhecermo-nos («Orpheu» I).

Lo sfondo enucleato da Luis de Montalvôr trova poi compimento nei lavori inseriti in questo numero e ancor più nel successivo che si mostra maggiormente funzionale alla prospettiva di volta in volta «vertígica», «interseccionista» e «futurista» (GORI 2015: 19-43). Raul Leal appare il profeta (“Henoch”) di una “Chiesa di Paracelso” ispirata dall’irrazionale. Con i cinque frammenti di Além-Deus, del 1913, Pessoa contempla l’oltranza in una entità indefinita di Assoluto in equilibrio fra l’Essere e il Nulla, come vuoto di un Abisso posto alla fine di tutto (ANTUNES 1960: 171; POLI 2019).

Con l’abbandono del pensiero come mezzo di conoscenza, uscito dalla realtà delimitata dallo spazio e dal tempo, il soggetto è pervaso dalla dimensione dell’occulto (PELOSO 1997).

Perdutasi la Parola, la ricerca del linguaggio inedito della natura, in grado di esprimere in simultanea i contenuti più profondi, si pone come una necessità di rigenerazione iniziatica, tanto metafisica quanto gnoseologica.

Il confine estremo di questo percorso si palesa allorquando Pessoa, il 21 novembre del 1914, avverte di aver ricevuto l’illuminazione: «um raio hoje deslumbrou-me de lucidez. Nasci» / “Un lampo oggi mi ha abbagliato di lucidità. Sono nato” (TABUCCHI 1979: 79; PESSOA 1966: 64). Se ne ha un’amplificazione in “Ulysses” (da “Os castellos”, in “Mensagem”, Lisboa 1934), dove si arriva a comprendere che la totalità negativa si oppone a quella positiva e il fisico al metafisico: «o mytho é o nada que é tudo. […] Assim a lenda se escorre / a entrar na realidade, / e a fecundal-a decorre. / Em baixo, a vida, metade / de nada, morre» / “il mito è il nulla che è tutto. […] Così la leggenda scorre / entrando nella realtà, / e a fecondarla scende. / In fondo, la vita, metà / di nulla, muore.” (STEGAGNO PICCHIO 2004: 39-60).

Pessoa ha continuato nel corso della vita a rincorrere la rigenerazione. L’incontro, nel 1930, con l’occultista Aleister Crowley presenta aspetti paradossali che tuttavia inscrivono questa relazione sempre nel quadro interpretativo esoterico. Pessoa traduce l’inno che Crowley aveva dedicato a Pan (“Hino a Pã”) e interviene con alcune correzioni sull’oroscopo da questi diffuso. Si tratta di episodi che hanno un riscontro nelle argomentazioni sul significato della trascendenza da Pessoa esposte nella celebre missiva scritta ad Adolfo Casais Monteiro, fra il 13 e il 14 gennaio 1935 (POLI 2018).

All’Assoluto si perviene per livelli scalari collegati all’affinamento spirituale per il tramite magico, mistico e alchemico e pertanto ogni esperienza di spiritualità ha la sua collocazione. In questo universo di soggetti, gli eteronimi sono ritratti di persone che, per quanto possano essere più o meno vaghi, posseggono una precisa genesi («a génese»), sicché è possibile stabilire l’ora di nascita e predire l’oroscopo («é verdade, pois, feito o horóscopo para essa hora, está certo»).

La riflessione di Pessoa tenta di rendere coerente un sistema di pensiero che parrebbe trovare il suo posto ‘in mezzo a un manicomio’ («em meio de um manicómio»). Nel 1912 Fernando Pessoa pubblica, nella successione di numeri fra aprile e dicembre de «A Águia» (seconda serie), tre lavori di vasto spessore teorico che possono rientrare nel quadro estetico bakhtiniano riguardante le relazioni fra la alterità, il dialogismo e la pluridiscorsività (VILA MAIOR 2023).

Il complesso conoscitivo espresso dalla eteronimia riesce a dare senso alle procedure di estraniamento che sono, per altro, anche interlinguistiche, essendosi iniziate, nel 1894, con la figura dell’Autore francese Chevalier de Pas ed essendo proseguite con gli inglesi Charles Robert Anon e Charles James e Alexander Search, del 1904.

Se la simulazione implica la spersonalizzazione, essa produce tuttavia anche l’invenzione dissociata rispetto a «ele próprio», arrivando a inventarsi oltre venti Autori, ciascuno dotato di un dettagliato profilo anagrafico così come di una precisa storia culturale.

La considerazione teorica di Pessoa parte dal piano sociologico della interazione linguistica (aprile, I/4, pp. 101-107), considera la produttività testuale (maggio, I/6, pp. 137-144), perviene alla dimensione psicologica della soggettività (settembre, II/9, pp. 86-94; novembre II/11, pp. 153-157; dicembre II/12, pp. 188-192).

Il preannunciato e non realizzato “Manifesto da nova literatura”, la cui comparsa era prevista nel secondo numero di «Orpheu», avrebbe fissato, nel 1915, i principi della progettazione, secondo il genere del manifesto, proiettata verso la nova literatura in cui si rispecchia a nova poesia portuguesa già dibattuta ne «A Águia». Intanto, nel medesimo lasso di tempo fra il 1914 e il ’15, Pessoa lavora attorno al problema dell’avvicendamento delle immagini nella linearità, per amplificare la prospettiva a un dinamismo che venga ad accordare la sensorialità con il fluire della coscienza (CABRAL MARTINS 2015: 97-106).

Per stare al passo con questo rapido susseguirsi di rivolgimenti, dopo la comparsa della teoresi delineata in “Impressões do crepúsculo” e “Hora absurda”, entrambe del 1913, ancora intrisa di simbolismo del Paulismo, l’aggiornamento si realizza con l’Interseccionismo e il Sensacionismo, su cui si sofferma Álvaro de Campos in “Ode triunfal” (in «Orpheu» 1) e viene esposta, sempre da de Campos, in “Ultimatum” in cui la poetica emerge sotto al tono aggressivo “alla Marinetti”.

Nell’architettura del linguaggio di una estetica ecumenica, l’immagine è la saldatura della memoria con la lirica insita nella materia che si trova a essere omologata all’energia del soggetto in ogni segmento dell’esistente, secondo una processualità in cui la durata e la simultaneità sovvertono la successione basata sulla contiguità.

Il processo progressivo corrisponde all’idea sequenziale e meccanicistica che, dopo Tommaso d’Aquino, è stata affermata da Galileo, Cartesio, Newton, per essere ripresa dall’Illuminismo. Questo ordinamento si scontra nel Novecento con la teoria della modulazione reticolare dell’intero sistema vivente che tuttavia la cultura conformata alla logica lineare tenta di ricondurre alla linearizzazione per approssimazione e per sviluppo ed espansioni in serie.

Il rilievo sperimentale e il bisogno di spontaneità portano a cogliere, piuttosto, l’articolarsi dei fenomeni su modalità di disposizioni sovrapposte. Lo sta mostrando la speculazione di Bergson e lo sta realizzando «il cinematografo futurista [che] acutizzerà, svilupperà la sensibilità, velocizzerà l’immaginazione creatrice, darà all’intelligenza un prodigioso senso di simultaneità e di onnipresenza» (manifesto de “La cinematografia futurista”, 11 settembre 1916).

Al passato appartiene «il libro, statico» e ancora il «caractère linéaire du signifiant» ipotizzato da de Saussure nei suoi tre corsi ginevrini, professati fra il 1906 e l’11, supponendo che il significante, realizzandosi in segmenti fonici in concatenazione, è percepito in una distesa quantificabili nello spazio (SAUSSURE, de, 1921: 103). A fronte della consequenzialità logica si fa dirompente l’istanza all’analogia fra immagini distanti e apparentemente diverse e avanza la compressione dello spazio e lo scardinamento del tempo.

Il manifesto “La cinematografia futurista”, dell’11 settembre 1916, nell’affermarne l’autonomia sottolinea la naturale predisposizione futurista di quest’arte per mezzo della quale, sia perché recenziore rispetto alle altre, e priva quasi del carico della storia, sia perché in grado di raffigurare la “poliespressività” dei movimenti della materia, è possibile realizzare in «films cinematografiche» anche «i luoghi abitati dal divino» (“La nuova religione-morale della velocità”, manifesto del 1916).

Dichiarazioni di principio assai importanti di fronte alle quali assume scarso rilievo il fatto che pochi siano i prodotti effettivamente realizzati. Il medesimo anno esce la Vita futurista per la direzione di Arnaldo Ginna (pseudonimo di Ginanni-Corradini) su un soggetto di Marinetti. Della pellicola sono conservati soltanto alcuni fotogrammi fra i quali quello della “cazzottatura futurista” con Marinetti stesso (VERDONE 1990).

L’anno successivo, il ’17, vede Thais, noto anche come Perfido incanto, di Anton Giulio Bragaglia, con le scenografie a spirali, losanghe e scacchiere di Enrico Prampolini. Luigi Russolo collabora alla costruzione della colonna sonora del cinema muto per rendere immaginifico il dialogo attraverso catene analogiche realizzate nella compenetrazione spazio-temporale raggiunta per mezzo di dissolvenze, accordi, rumori (FIORENTINO 2008).

Proprio perché si è di fronte a un linguaggio inedito, le speranze sono di riuscire a estirpare le radici stesse del retaggio narrativo “passatissimo” intriso di sentimentalismo, cercando di realizzare, invece, un cinema movimentato da “viaggi, cacce e guerre”, per offrire uno spettacolo “antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero”. Per Depero il cinema è il «vero maestro suggeritore del dinamismo pittorico che oggi impera in tutta l’arte moderna» (DEPERO 1932).

Nel disequilibrio degli atteggiamenti da avanguardia, la propensione esasperata all’anti-spiritualismo del Futurismo acquieta il vitalismo in un esito misticheggiante. Alla perfezione del Tutto si perviene pur sempre se si è capaci di calibrare la meccanicità alla umanità.

La sperimentazione incessante nella ricerca mira a cogliere il modello di un universo da “matematizzare” in costrutti descrittivi dei fenomeni osservati, semplificandone la varietà e il peso di informazioni. La visione “orfica” mette in grado di cogliere le strutture profonde, significative della psiche come della materia, e di pervenire al primo livello del nuovo Assoluto.

Nella scala dell’infinitamente piccolo all’infinitamente grande si comincia a cogliere il mondo atomico e a intravedere quello subatomico, con i principi riguardanti lo spazio-tempo, i vettori, le perturbabilità, le particelle. La relatività, la geometria non-euclidea, i possibili sistemi delineati, nel 1902, da Henry Poincaré, i raggi Röntgen, le onde hertziane, la suggestione della possibilità di mondi multidimensionali, le illusioni di simultaneità indotte dalla tecnologia offrono le condizioni necessarie per una interpretazione continuativa e “futurista” dei diversi linguaggi.

La scomposizione dei volumi e dei colori, l’analisi dei movimenti, la geometrizzazione, la meccanica convergono nella costituzione di un linguaggio dell’arte che sia tale da rendere le sue espressioni valide ai fini universali che mirano a tendere all’assoluto del contemporaneo. In “Zang Tumb Tuum” (MARINETTI 1914), Marinetti vuole rappresentare la «turbinosa poetica e geometrica meccanica di un bombardamento». Il “bombardamento” è metafora dello sconvolgimento dei linguaggi del passato (POLI 2013); fra questi, il primo a soccombere è quello del bello (POLI 2024).

Nel frattempo, si assiste al furore dell’iconoclastia sulla lingua che, nella prospettiva di renderla speculare all’energia emanata dalla civiltà delle macchine e soggiogata alla casualità indotta dal probabilismo relativistico, ha portato il Futurismo a infrangere gli schemi delle costruzioni sintattiche e delle composizioni nominali, rendendo il discorso testuale il dominio delle “parole in libertà”.

Alla lingua e alla sua rappresentazione nella scrittura è infatti attribuito l’impulso di penetrare e di sensibilizzare la materia, con l’obiettivo di dissociare i contenuti per modificare i libri-oggetto in libri paroliberi.

Dopo che Cézanne aveva reso gli oggetti indipendenti nello spazio della sua pittura fondata su una prospettiva che stabilisce nel colore la sintesi della visione ottica e della coscienza e prima che il Cubismo rompa definitivamente con il naturalismo, Jean Metzinger comincia a considerare la possibilità di trasmettere sensazioni attraverso un linguaggio pittorico parallelo alla letteratura, concependo ogni pennellata di colore come l’equivalente di una sillaba e ogni cubo di pigmento come una frase.

Metzinger cerca le spiegazioni nel colore, mentre i cubisti annunciano che, nell’inventario lessicale, “Cubismo” non possiede un significato e, da lì a breve, il “Papillon Dada”, del 1919, attribuito a Tristan Tzara, avrebbe affermato che «Dada ne signifie rien».

Nella negazione e nella contraddizione rispetto a questa volontà di scindere radicalmente il mondo della rappresentazione da quello della lingua, riguardo a “cubo” qualche antecedente può essere indicato. Jakobson (JAKOBSON 1971: 126) discute del «signans con signatum zero» a proposito della parola kuboå proposta nel romanzo “Fame” dal norvegese Knut Hamsun (POLI 2018b), nell’episodio in cui si viene a riflettere sulla irrazionalità del pensiero (HAMSUN 1890). Questa esperienza di mancanza di significato produce la sconvolgente presa d’atto di un significante dimediato o azzerato, e quindi destinato a fluttuare:

I imagined I had discovered a new word. I rise up in bed and say, “It is not in the language; I have discovered it. ‘Kuboa’. It has letters as a word has. By the benign God, Man you have discovered a word!… ‘Kuboa’… a word of profound import. […] I had fully formed an opinion as to what it should not signify, but had come to no conclusion as to what it should signify [dalla traduz. inglese di George Egerton, 1889].

A questo punto, l’intervento avviene in tutti i campi dei linguaggi, per scardinare, in ognuno di essi, le architetture compositive e riportarle alla disaggregazione degli elementi essenziali e poter accedere alla unica condizione a tutti sottesa, individuata nel turbinio della compenetrazione degli opposti.

I due Americani, trapiantati in Europa, Eliot e Pound infrangono l’unità e la compostezza della forma, inseriscono la dissonanza e introducono la eterogeneità dei linguaggi. “The waste land” esce nel 1922 nella revisione di Pound («Il miglior fabbro») il quale, anche attraverso l’esperienza del Vorticismo, aveva mostrato il Modernismo con The cantos iniziatisi nel 1917.

Con “Forme uniche nella continuità dello spazio”, del 1913, Boccioni prosegue il percorso della riflessione poetica portandolo sul lavoro scultoreo, cercando di sovrapporre le forze vitali sulle artistiche. Riesce a rappresentare la deformazione plastica che si contrae in un corpo stilizzato, in movimento nello spazio verso cui si dilata, ottenuto nel mentre, accogliendo la spinta delle linee vettoriali aerodinamiche, amplifica al massimo la propria potenza.

Alla medesima soluzione conducono le esperienze derivate dalla ebbrezza della velocità esaltata dai veicoli, terrestri, acquatici, aerei, e sottesa dalla cinematografia, dalla radio, dal telegrafo senza fili, in grado di produrre il «lirismo rapidissimo […] antipoetico […] lirismo telegrafico» (“Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà”, 11 maggio 1913).

Affermatasi in tutti gli ambiti della modernità, la velocità si configura come il secondo livello dell’Assoluto che è, a questo stadio, in grado di sostituirsi all’universale: «Noi viviamo già nell’assoluto, perché abbiamo creato la velocità onnipresente».

Il netto cambiamento nelle modalità di percezione portato dal Futurismo esige la decodifica interpretativa degli eventi collegati all’evoluzione veicolati dal tramite di quei linguaggi adatti a cogliere il rilievo sperimentale dei fenomeni, rielaborandoli in una ampia architettura comunicativa in grado di processare i dati sinestetici. L’obiettivo è la realizzazione del linguaggio sensibile alla materia di ogni particolarismo dell’esistente, in cui le modalità espressive si trovino a essere unificate in una estetica ecumenica all’interno di una intesa culturale fondata sui principi della potenza, del rischio, dell’eroismo, della competitività.

Sul piano letterario la dimensione della simultaneità era stata lanciata esplicitamente da Marinetti già nel manifesto “Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà”. La “rivoluzione tipografica” da lui ideata deve permettere appunto di cogliere in modo anche visivo, e non solo uditivo o mentale, la valenza espressiva verbale, per realizzare una forma di rappresentazione che insiste su registri diversi e superi il linearismo per introdurre al terzo livello dell’Assoluto.

Ne “La pittura futurista – Manifesto tecnico”, datato 11 aprile 1910, la simultaneità è presentata come compenetrazione dinamica di spazi e oggetti interferenti tra loro nella percezione dell’osservatore. Boccioni le dedica il sedicesimo capitolo del suo “Pittura scultura futuriste – Dinamismo plastico” (Milano 1914):

La simultaneità è per noi l’esaltazione lirica, la plastica manifestazione di un nuovo assoluto: la velocità; di un nuovo e meraviglioso spettacolo: la vita moderna; di una nuova febbre: la scoperta scientifica. […] Simultaneità è la condizione nella quale appaiono i diversi elementi che costituiscono il dinamismo. E dunque l’effetto di quella grande causa che è il dinamismo universale.

Tale prospettiva introduce alle considerazioni che Jakobson era andato elaborando sin dagli anni moscoviti, dopo la “maturazione” avvenuta nel periodo 1912-14: «In those years it seemed absolutely clear that we were experiencing a period of cataclysms in the visual arts, in poetry, and in science, or rather, in the sciences». In quel contesto, la sua formazione si stava improntando proprio su questa apertura globale: «what we today wisely call interdisciplinary cooperation has played a very great role in my life» (JAKOBSON 1992: 3, 26). La Russia stava vivendo la meravigliosa esperienza di fondare la vita culturale su un fronte unitario in cui le scienze potessero collegarsi alle arti e alla letteratura.

Jakobson ricorda di essersi immedesimato in Chlebnikov, così come più tardi si sentirà vicino a Nikolaj Trubeckoj. Da lì a breve, avrebbe trovato l’elemento unificante della sua speculazione nell’analisi del fenomeno della lingua. Nel frattempo, si era accostato allo sperimentalismo russo nell’alveo delle riflessioni sui temi dello spazio e del tempo e della rispondenza fra poesia e scienze, riuscendo a collegare la teoria della relatività ristretta di Einstein (dell’annus mirabilis 1905) con la pittura di Cézanne, Matisse, Braque, Picasso.

La “conversione” della realtà per mezzo delle arti visive è fondata sulla forma, trovando un ulteriore sostegno nelle poetiche francesi e ancora nell’incontro-scontro con il Futurismo italiano. La percezione basata sull’arte mostra a Jakobson che la staticità è illusoria, perché tutto è in rapida trasformazione; e Jakobson cita in proposito il manifesto della pittura futurista italiana del 1910.

La fonologia praghese che stava per divenire la prima realizzazione di un pensiero strutturalista è fortemente dipendente da questa concezione. Il linguaggio, in quanto è depositario dei modi sociali di concettualizzazione dell’esperienza, assume in sé gli a priori del mondo originario e afferma il primato della intuizione di fenomeni non riconducibili alla correlazione noetico-noematica, come le autopercezioni corporali, la percezione dell’altro e quella soggettiva del tempo.

L’attenta osservazione delle corrispondenze formali fra poesia e pittura convince Jakobson circa la transizione dalla linearità alla simultaneità, cosicché la sua sensibilità alla poesia e alla poetica lo spinge a operare la distinzione del continuum secondo la modalità per cui le forme si relazionano in una linearità/non-linearità collegata a una continuità/discontinuità. Con l’acquisizione di questa modulazione reticolare può dirsi iniziata la retrospettiva partita dallo sperimentalismo delle scienze esatte e dalle impressioni visive riportate dalle arti futuriste-cubiste-dadaiste (POLI 2018b).

La convinzione riposa sull’autonomia della lingua dalla referenzialità e quindi sulla non coincidenza del segno con l’oggetto. I particolari visti nell’ottica dell’universale assurgono all’Assoluto, perché sono collegati con le rivoluzioni scientifiche. Soprattutto la possibilità che le cose possano assumere aspetti fenomenici del tutto diversi introduce il reale al dominio dell’astrazione, spostando l’attenzione dal canale della percezione sensoriale al cervello.

Il tema della percezione porta il Futurismo ad affronta ancora l’impopolarità con un programma audace di rinnovamento totale dei linguaggi della gastronomia: essendosi scagliato contro la pastasciutta, il Futurismo è stato accusato di “misticismo nell’azione” e di “antistoricismo”, ma “da noi” questo è stato preso come un atto di orgoglio italiano novatore (da MARINETTI, FILLÌA,Manifesto della cucina futurista”, 28 dicembre 1930).

Se, per dirla con Roland Barthes, il cibo è un sistema di significazioni, esso non poteva non essere preso in considerazione dalla riforma semiologica operata dal Futurismo. Bisognerà tuttavia attendere gli anni ’30 perché anche all’arte culinaria sia attribuito un ruolo autonomo e di rilievo e si colmi il vuoto nella riproposta futurista dei linguaggi (PAUTASSO 2015).

Il primo gennaio del 1913 Guillaume Apollinaire scrisse, nella rivista satirica parigina «Fantasio», Le cubisme culinarie in difesa d’un gastroastronomisme aperto ad accettare le trasformazioni apportate dalla sperimentazione contemporanea. Nel numero del primo settembre, il medesimo periodico pubblicherà La cuisine futuriste, un saggio-intervista dello chef Jules Maincave in cui si affermava l’esigenza di novità (vraiment nouveau) che risultasse «adeguata alla comodità della vita moderna e alle ultime concezioni della scienza», e in cui si proclamavano le istanze di una “cucina rivoluzionaria”: «noi proietteremo i raggi del nostro sole nell’antro delle vostre cucine, e le tenebre saranno dissipate. Noi metteremo sottosopra i vostri buffet, noi rovesceremo i vostri fornelli».

La ribellione di Maincave nasceva da un senso d’estraniamento originato dalla ripetitività della cucina classica codificata: egli, pertanto, si riproponeva di risalire agli elementi essenziali per esaminarli nelle loro proprietà aggregative. Aderisce pertanto nel 1914 al Futurismo, annoiato dai metodi tradizionali delle mescolanze, monotoni sino alla stupidità, per proporre di avvicinare elementi separati da prevenzioni e non da un serio fondamento.

Questo primo interesse delle Avanguardie per la cucina viene a essere sviluppato dal Futurismo marinettiano, caratterizzato dall’essere tutto proteso nello sforzo di ribaltare la concezione dell’arte, per trasformarla in vitalismo (CAROLLO 2002), e di modificare il significato della vita, per valorizzarla in artificio (SALARIS 2000).

La cucina, una volta interpretata come linguaggio, è concettualmente abilitata a divenire arte nella prospettiva di coinvolgere nella percezione visiva anche gli altri sensi, fino a concepire la poesia nella dimensione sonoro-visivo-tattile-olfattiva, e a sintetizzarla con gli altri linguaggi e fra questi, appunto, quello della gastronomia.

Immersa, quindi, nella globalità dell’arte, l’assunzione del cibo si identifica con l’evento teatrale in cui le portate si tramutano nei personaggi d’una trama conviviale. La scenografia diviene una componente essenziale che ha bisogno di un contesto ambientale. Si hanno pertanto l’architettura e l’arredamento nel ristorante, l’atmosfera nel caffè concerto o nel club; ma si crea inoltre una intesa programmatica nell’autodisciplina nella conversazione, da cui erano esclusi argomenti di politica, e nell’intervallo fra le portate, che è segnalato dallo spargimento di profumi ed è scandito dall’accompagnamento di musica alternata alla lettura di brani letterari o di estratti scelti da uno dei numerosi manifesti.

Allo scopo di rendere animata la serata, sono distribuiti fra i commensali bigliettini contenenti asserzioni memorabili («La pastasciutta è fatta di silenziosi lunghi vermi archeologici», «L’uomo moderno deve avere il ventre piatto per avere dei pensieri chiari», «Per uomini di affari verrà confezionato un pranzo simultaneo», «La parola Italia deve dominare sulla parola genio», «Ricordatevi sempre questo capolavoro italiano che supera la Divina Commedia: “Vittorio Veneto”»); oltre a ciò vengono sollecitate riflessioni estemporanee che abituino ad associare il godimento concesso dal cibo alla percezione in simultanea di altri stimoli. I banchetti ufficiali e di gala prevedono anche l’intervento di un affabulatore, denominato sganasciatore.

Per accrescere la curiosità e la fantasia dei convitati, il tattilismo dell’impegno manuale è esaltato dalla restrizione delle posate al solo cucchiaio o, più precisamente, al cucchiaforchetello in funzione di antiposata. Essa autorizza, in sostituzione, l’impiego prensile delle dita di una mano, mentre, nel frattempo, l’altra viene impegnata nell’accarezzare una tavoletta su cui sono inseriti tessuti da sfiorare, di velluto nero, seta rossa, damasco, uniti a carta vetrata.

L’estetica dei cibi presentati, le particolarità delle suppellettili, l’abolizione del bianco porcellanato a favore della policromia costituivano principi di importanza pari alla simbologia culturale-ideologica espressa dalla singola vivanda e alla cottura a temperature basse utilizzata per preservare le sostanze attive del prodotto.

Il minimalismo è raggiunto con la miniaturizzazione delle porzioni e con la rarefazione del cibo disposto sul piatto in una composizione artistica che privilegia l’alternanza di spazi pieni e vuoti in armonia con l’avvicendamento dei colori. La ricetta rimane un testo in costruzione che, privo di prescrizioni assolute, è composto dalle mani competenti dei singoli cuochi-autori che su di essa si cimentano per imprimerle un marchio di creatività o di originalità.

Insomma, lo stomaco doveva essere “dilettato” e non “dilatato” da un nutrimento che transitava per gli occhi, seduceva la fantasia, tentava le labbra.

In questa simbiosi di cucina-arte-scienza, l’irritualità comincia dall’esaltazione di tutti gli impulsi sensoriali, si concretizza con l’immissione dei contrasti, di salato-zuccherato, agro-dolce, caldo-freddo, solido-liquefatto, naturale-inorganico, e degli abbinamenti, permessi fino a venti sapori da gustare contemporaneamente in “bocconi simultanei e cangianti”, e si pianifica nell’ordine delle pietanze che può anche essere invertito rispetto alla consuetudine, iniziando dal caffè e concludendo con gli antipasti e gli aperitivi. La miscela di ingredienti apparentemente inconciliabili stimola il gusto alla ricerca sinestetica, per specializzarlo nel cogliere l’inusuale nelle combinazioni e per appassionarlo per gli accostamenti insoliti.

Il molteplice è ricondotto alle componenti di base che, reinterpretate dal cuoco-autore del futuro, sono portate al banchetto come un insieme multisensoriale di cui si è indotti a immaginare la raffinatezza per gradi successivi. La pietanza è proposta come materia tangibile, olfattiva, visiva e finalmente degustativa, liberata «dalla vecchia ossessione del volume e del peso» (MARINETTI, FILLÌA 2007: 24-25).

In cucina, come avviene nella lingua, il linguaggio riconduce alle “cose”: «acciaio: parola fatta di lame. / Parola fatta di rotondità celesti. / Vocabolo elastico» (DEPERO 1934: 19).

Quanto ai locali, nel 1921, a Roma, Balla avvia il Bal Tic-Tac (dove recentemente sono state portate a giorno le sue pitture). L’anno seguente Depero inaugura il Cabaret Diavolo destinato a diventare il ritrovo della società bene che veniva strabiliata dalle proposte presentate dalla ricca lista delle polibibite, ovvero dei ‘cocktail’, in cui figuravano composizioni quali: Infuso sintetico digrignatorio, Melma bruna, Disastro ferroviario, Solitudine concentrata, Fuoco liquido, Affettuoso tira a Campari, Umor nero ri-tira a Campari, Critica della ragion pura.

Successivamente si apriranno, a Perugia nel ’23, l’Altro Mondo di Gerardo Dottori e, a Torino nel ’27, il Novatore di Fillìa (pseudonimo di Luigi Colombo), al quale sempre Fillìa, con la collaborazione di Nicolaj Diulgheroff, affiancherà, nel ’31, la fucina sperimentale della Taverna del Santopalato, un ritrovo totalmente improntato all’estetica futurista, il cui scopo è di portare la polemica “dalla teoria alla pratica”. La sua struttura consisteva di due grandi stanze a forma di scatole cubiche, sorrette da colonne luminose e rivestite con lastre d’alluminio sabbiato; l’atmosfera risultava dall’insieme di luci soffuse filtrate da grandi oblò, dal sottofondo sonoro del rombo dell’aereo e dalla vaporizzazione di spruzzi di acqua di colonia.

In parallelo ferve l’attività pubblicistica (PAUTASSO 2010). Nel 1920 fa la sua comparsa “Culinaria futurista: Manifesto” (in «Roma futurista» 9 maggio, a firma di Irba Futurista, pseudonimo attribuito a Irene Bazzi), da cui si originerà nel ’30 il “Manifesto della cucina futurista” (nella «Gazzetta del popolo» Torino 28 dicembre) e nel ’32 apparirà di Marinetti e Fillìa La cucina futurista (MARINETTI, FILLÌA 2007), il libro nel quale, mentre ancora regnava l’autorità dell’Artusi, si avanza la sfida a illustrare «la rivoluzione culinaria futurista […] in cui l’esperienza, l’intelligenza e la fantasia sostituiscano economicamente la quantità, la banalità, la ripetizione e il costo».

Nella proposta di cambiamento totale della tradizione, diviene un punto essenziale l’invito a concepire la strumentazione come tecnologia atta a tritare, polverizzare, emulsionare. L’attrezzatura va regolata fino a renderla «il motore di un idrovolante per alte velocità», in modo da «finalmente creare un’armonia tra il palato degli uomini e la loro vita di oggi e di domani». Fra i dispositivi erano previsti anche ventilatori, con i quali diffondere l’ozono sulle vivande, gli elettrolizzatori, per scomporre succhi ed estratti, i mulini colloidali, per polverizzare farine, frutta secca, spezie.

Attraverso il congiungimento della scienza con l’arte, si coglie l’obiettivo di differenziare in maniera netta l’appagamento nutritivo della persona dalla voracità dettata dall’istinto animalesco, per produrre la «prima cucina umana, cioè l’arte di alimentarsi» da cui si «esclude il plagio» e si «esige l’originalità creativa», portando finalmente «l’ottimismo in tavola» (MARINETTI, FILLÌA 2007: 5-6).

Le 172 formule (= ‘ricette’) di vivande, di peralzarsi (= ‘dessert’) e di polibibite, ad uso dei privati, dei ristoranti e dei quisibeve (= ‘bar’) sono inserite in un contesto narrativo pervasivo e seducente.

Nel clima di assoluta destabilizzazione dei principi, se Maincave aveva affermato che era preferibile mangiare «quando non c’è fame», Marinetti arriverà a bandire, come si è detto, la più «assurda religione gastronomica italiana», la pastasciutta, in ragione degli elevati contenuti di idrocarburi che lo rendono un «alimento amidaceo», «che si ingozza, non si mastica», colpevole d’indurre «fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo» (MARINETTI, FILLÌA 2007: 28-29).

I paradossi gastronomici, al pari di quelli estetici, miravano all’evoluzione: per scuotere la materia, è ammessa la chimica nella preparazione degli alimenti, sono ricercati i prodotti industriali per creare schiume e gelatine, sono sostituiti gli aromi con prodotti artificiali e anche con coloranti e additivi. La chimica alimentare risponde al laboratorio della chimica gastrica costituito dalle secrezioni.

Ogni interdizione organolettica viene infranta pur di risvegliare lo spirito. Del resto, parafrasando Ludwig Feuerbach («der Mensch ist, was er isst / l’uomo è ciò che mangia») e Jean Anthelm Brillat-Savarin («dis-moi ce que tu manges, je te dirai ce que tu es / dimmi quel che mangi e ti dirò chi sei»), Marinetti, già nel “Manifesto della cucina futurista”, aveva affermato che «si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia» (MARINETTI, FILLÌA 2007: 27). Sia detto, come mero accenno al problema delle fonti, che fra i numerosi precedenti ripresi da Marinetti merita una particolare menzione proprio la Physiologie du goût, Parigi 1825, di Brillat-Savarin.

L’avviso impresso sulla fascetta tipografica della prima edizione, quella del 1932, de La cucina futurista, merita di essere riportato per evidenziare la strategia pubblicitaria ideata dalla capacità comunicativa di Marinetti:

Questo libro è più drammatico e più piccante di un romanzo poliziesco e di un romanzo erotico. La più grande agitazione polemica: 2000 articoli in tre mesi su tutti i giornali del mondo. Risposta ai difensori della pastasciutta, 200 formule di cucina futurista per ristoranti e quisibeve. I pranzi meno costosi e più rallegranti.

Se si cercava di abbinare il pranzo a qualche manifestazione mondana, in modo da attirare l’attenzione dei giornalisti e farne un caso, l’organizzazione conviviale si allacciava anche ad altre occasioni, sia celebrative sia private. Marinetti ci narra, nel primo capitolo de La cucina futurista, di un pranzo che «evitò un suicidio» causato da una pena d’amore, grazie alla preparazione di una portata di tale presentazione scultorea e di tale fomento sensoriale da far gridare all’aeropittore Enrico Prampolini, intervenuto in questa circostanza come cuoco, di essere persuaso di tenerla serrata «fra le braccia […] bella, affascinante, carnale, tale da guarire qualsiasi desiderio di suicidio» (MARINETTI, FILLÌA 2007: 12).

L’inventiva e la singolarità devono soppiantare il quotidiano e la monotonia, la convivialità e l’appagamento del gusto sono sostituiti dall’interagire dei sensi coinvolti nella complessa funzione dell’assaporare.

L’inestricabile rapporto fra tavola e alcova richiama l’istintività della voluttà del palato e del piacere del desiderio, raffigurata nei movimenti ascensionali e abissali (SALEMI 2003). Anche nella (ri)lessicalizzazione dei tecnicismi della gastronomia s’intravedono metafore allusive della progressione dal sensuale al sessuale: la denominazione futurista per il ‘sandwich’ è fraidue, una pietanza composta da un insaccato è il Porcoeccitato, la cotoletta impiattata su un letto di crema di piselli si chiama Compenetrazione, un tipo di dessert (pardon! Un tipo di peralzarsi) prende il nome di Uomodonnamezzanotte e un’altra varietà è il Fragolamammella.

A tale proposito, fra i programmi-proposte del capitolo “I pranzi futuristi determinanti”, Marinetti, che appare qui nelle vesti di un nuovo Ovidio dell’Ars amatoria e degli Amores e di un novello Casanova delle Memorie, inserisce una formula “afrodisiaca”, la Guerrainletto, in un brano di vita edonista titolato “Pranzo notturno d’amore” (MARINETTI, FILLÌA 2007: 152-153):

Terrazza di Capri. Agosto. La luna a picco scodella abbondante latte cagliato sulla tovaglia. La bruna mammelluta e naticuta cuoca caprese entra recando un enorme prosciutto sopra un vassoio e dice ai due amanti […] I due amanti divorano metà del prosciutto. Seguono le grandi ostriche, ognuna con undici gocce di Moscato di Siracusa nella sua acqua marina. Poi un bicchiere di Asti Spumante. Poi il Guerrainletto. Il letto, vasto e già pieno di luna, affascinato, viene loro incontro dal fondo della stanza aperta. Entreranno quindi in letto alzando nel piccolo bicchiere il centellinato Guerrainletto composto di sugo di ananas, uova, cacao, caviale, pasta di mandorle, un pizzico di pepe rosso, un pizzico di noce moscata e un chiodo di garofano: il tutto liquidato nel liquore Strega.

Fra le denominazioni di alcuni altri programmi-proposte spiccano: “Pranzo parolibero primaverile”, “Pranzo di scapolo”, “Pranzo oltranzista”, “Pranzo aeroscultoreo in carlinga”, “Pranzo tattile”, “Pranzo dichiarazione d’amore”, “Pranzo desiderio bianco”.

Il grande evento internazionale che ebbe una importante partecipazione del Futurismo gastronomico fu l’apertura del padiglione-ristorante italiano, curato dall’architetto Guido Fiorini, in coincidenza con l’Esposizione coloniale di Parigi del 1931.

La cucina futurista dedica una dettagliata cronaca alla serata dell’inaugurazione. Il resoconto fornitone prende l’avvio ricordando le apprensioni iniziali circa l’esito dell’avvenimento conviviale, passa a elencare gli ospiti di riguardo convenuti, si sofferma sulla descrizione degli aperitivi e delle pietanze, accenna agli intermezzi sonori durante le pause e rammenta le esecuzioni di jazz nel crescendo di allegria che si accompagnava al succedersi delle vivande.

All’Antipasto simultaneo (a base di mela, salame, acciughe) fanno sèguito: il Tuttoriso Fillìa (impasto di riso, uova, parmigiano, birra, vino), le Isole alimentari (composizione di pesce, uova, pomodoro, spinaci, frutti estivi), l’Aerovivanda (misto di verdure e frutta da assumere senza posate mentre l’orchestra intona un pezzo jazz di tale violenza da superare il rombo di un motore d’aereo), il Carneplastico (polpetta cilindrica di vitello arrosto, ripiena di undici qualità di verdure cotte, disposta al centro del piatto incoronata con uno strato di miele e sostenuta da un anello di salsiccia che a sua volta giace su tre sfere dorate di carne di pollo), il Pollo d’acciaio (volatile arrostito liberato dell’interno e riempito di zabaione e di confetti d’argento), il Porcoeccitato (salame crudo e spellato, deposto a mo’ di fallo in un piatto contenente caffè caldissimo mescolato con acqua di colonia), e ancora altro.

Giunta la serata al culmine, mentre si rinnovano gli applausi al breve ma, come al solito, brillante discorso tenuto da Marinetti, fa il suo trionfale ingresso in sala l’ospite d’onore, Joséphine Baker, con la quale ebbero inizio «danze animatissime» (MARINETTI, FILLÌA 2007: 116-124).

Al termine della riflessione su questo intrigante aspetto del Futurismo, valga da auspicio per noi il messaggio vòlto al rinnovamento dell’alimentazione, contro quel “passatismo” che nella ripetitività, mascherata sotto il nome di tradizione, aveva ritenuto di fondare la stabilità e di giustificare l’immobilismo. Il Futurismo vuole evitare che la cucina italiana «resti un museo» e, per cogliere questo traguardo, fa appello «alla mutata sensibilità e ai mutati bisogni della generazione contemporanea», dal momento che «la genialità italiana è capace di inventare altri tremila piatti» (MARINETTI, FILLÌA 2007: 136).

diego.poli@tiscali.it 

Bibliografia

AGNESE, Gino (2008). Boccioni da vicino. Pensieri e passioni del grande futurista Napoli: Liguori.
ANTUNES, Manuel (1960). Do Espírito e do Tempo. Lisboa: Ática.
BAUDELAIRE, Charles Pierre (1869). L’art romantique. Paris: Calmann Lévy.
CABRAL MARTINS, Fernando (2015). Introdução ao estudo de Fernando Pessoa. Lisboa: Assírio e Alvim.
CAROLLO, Sabrina (2002). Futurismo. L’estetica della velocità, il mito del progresso. Firenze: Giunti.
CIGLIANA, Simona (2002). Futurismo esoterico. Contributo per una storia dell’irrazionalismo italiano tra Otto e Novecento. Napoli, Liguori.
DEL SERRA, Maura (1973). L’immagine aperta. Poetica e stilistica dei “Canti orfici”. Firenze: La Nuova Italia.
DE MICHELIS, Cesare G. (2009). L’avanguardia trasversale. Il Futurismo tra Italia e Russia. Venezia: Marsilio.
DEPERO, Fortunato (1932). Il cinematografo e la pittura dinamica. In: Il Futurismo di F. Depero – S.E. Marinetti nel Trentino, in «Dinamo», nr. unico, Rovereto: Mercurio, pp. 67-68.
DEPERO, Fortunato (1934). Liriche radiofoniche. Milano: Morreale.
FIORENTINO, Caterina C. (2008). Immagini sonore. In: A. Cirafici, C.C. Fiorentino, G. Lagnese, a c. di, La messa in scena. Spazi della narrazione/rappresentazione. Foggia: Grenzi, pp. 68-81.
GORI, Barbara (2015). Una letteratura da manicomio. “Orpheu” nei giornali e nelle riviste portoghesi del 1915. Perugia: Urogallo.
GRUPPO DEI DIECI (1929). Lo zar non è morto. Grande romanzo d’avventure. Roma: Sapientia.
HAMSUN, Knut (1890). Sult. København: Philipsen [Hunger, prima traduz. inglese, di George Egerton (1899): London: Leonard Smithers; Fame, prima traduz. italiana di Frederico Verdinois (1921). Milano: Giannini].
JAKOBSON, Roman (1971). Glosse linguistiche al “Wortbegriff” di Goldstein. In R. Jakobson, Il farsi e il disfarsi del linguaggio. Torino: Einaudi, pp. 123-128.
JAKOBSON, Roman (1992). My futurist years, a c. di B. Beng Jangfeldt, S. Rudy. New York: Marsilio.
MARINETTI, Filippo Tommaso (1909). Mafarka le futuriste. Paris: Sansot [traduz. italiana di Decio Cinti (1910). Milano: Edizioni futuriste di «Poesia»].
MARINETTI, Filippo Tommaso (1914). Zang Tumb Tuum. Adrianopoli ottobre 1912. Parole in libertà. Milano: Edizioni futuriste di «Poesia».
MARINETTI, Filippo Tommaso (1915). “Contro i professori”. In F.T. Marinetti, Guerra sola igiene del mondo. Milano: Edizioni futuriste di «Poesia».
MARINETTI, Filippo Tommaso (2007) [orig. 1932]. La cucina futurista. Introduzione di Pietro Frassica. Milano: Viennepierre.
MOLZAHN, Johannes (1919). Das Manifest des absoluten Expresionismus. In «Der Sturm» 10/6, pp. 80-92.
PAUTASSO Guido A. (2010). Mangiare con arte per agire con arte. Epopea della cucina futurista. Cremona: Ediz. Galleria Daniela Rallo.
PAUTASSO, Guido A. (2015). Cucina futurista: manifesti teorici, menu e documenti. Milano: Abscondita.
PELOSO, Silvano (1997), a c. di. Ferdinando Pessoa. Pagine esoteriche. Milano: Adelphi.
PESSOA, Fernando (1966). Páginas íntimas e de auto-interpretação, a c. di G. Rudolf Lind, J. Do Prado Coelho. Lisboa: Ática.
POLI, Diego (2013). Il Futurismo, ovvero il dinamismo nei linguaggi. In D. Poli, L. Melosi, a c. di, I linguaggi del Futurismo. Macerata: eum, pp. 15-68.
POLI, Diego (2017). Cucina futurista. In S. Papetti, a c. di, Venti futuristi, Catalogo della mostra, Senigallia 13 aprile – 2 luglio 2017. Cinisello Balsamo/MI: SilvanaEditoriale, pp. 89-97.
POLI, Diego (2018a). Línguas e linguagens para o século XX: em direção do absoluto, contra a estática do universalismo e o regresso dos particularismos. In D. Vila Maior, A. Rita, a c. di, 100 Futurismo. Lisboa: Edições Esgotadas, pp. 543-558.
POLI, Diego (2018b). Modellizzazioni lineari’ in de Saussure? Una ‘retrospettiva’ sollecitata da Roman Jakobson. In S. Sini, M. Castagneto, E. Esposito, a c. di, Roman Jakobson: linguistica e poetica. Milano: Ledizioni, pp. 295-311.
POLI, Diego (2019). Il tema dell’“abisso” nel paradigma di Giuseppe Vannicola e del Futurismo. In B. Gori, a c. di, Futurismo Futurismos. Roma: Aracne, pp. 383-395.
POLI, Diego (2024). Bello. Venezia: Marcianum Press.
RIMBAUD, Arthur (1873). Une saison en enfer. Bruxelles: Alliance typographique (M.-J- Poot et Compagnie).
SALARIS, Claudia (2000). Cibo futurista. Dalla cucina nell’arte all’arte in cucina. Roma: Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri.
SALEMI, M. Concetta (2003). La cucina futurista – La cucina Liberty. Firenze: LibriLiberi.
SAUSSURE, Ferdinand, de (1922) [1a ediz. 1916]. Cours de linguistique générale. Paris: Payot.
SCHNACK, Ingeborg (1977). Die Briefe an Gräfin Sizzo, 1921-1926. Frankfurt/Main: Insel.
SCHURÉ, Édouard (1889). Les grands initiés. Esquisse de l’histoire secrète des religions. Paris: Perrin et Cie.
SCHURÉ, Édouard (1904). Précurseurs et révoltés. Parigi: Perrin et Cie.
STEGAGNO PICCHIO, Luciana (2004). Nel segno di Orfeo. Fernando Pessoa e l’Avanguardia portoghese. Genova: il Melangolo.
TABUCCHI, Antonio (1979), a c. di. Fernando Pessoa, Una sola moltitudine, I. Milano: Adelphi.
VERDENELLI, Marcello (2003). Campana: una “fantasia qualunque”. In Marcello Verdenelli, a c. di, O poesia tu più non tornerai. Campana moderno. Macerata: Quodlibet, pp. xv-xxvi.
VERDONE, Mario (1990) [orig. 1967]. Cinema e letteratura del Futurismo. Rovereto/TN: Manfrini.
VILA MAIOR, Dionísio (2023). Fernando Pessoa: heteronímia e dialogismo. Coimbra: Almedina. Fernando Pessoa – O ser verbal. Lisboa: INCM.

L'autore

Diego Poli
Diego Poli, professore Emerito, è stato professore ordinario presso l'Università di Macerata di Glottologia e linguistica. Negli anni 1990-96  ha ricoperto la carica di Preside della Facoltà di Lettere e filosofia per due mandati consecutivi. È stato dapprima Segretario e successivamente Presidente della Società italiana di glottologia (SIG) in carica per il biennio 2001-2002. È attualmente Direttore della Collana “Episteme” (Editrice il Calamo di Roma) e della “Rivista italiana di linguistica e di dialettologia” (Fabrizio Serra Editore, già I.E.P.I., di Roma - Pisa). Ha organizzato numerosi convegni, tra i quali si segnalano fra i più recenti: “Cristina di Svezia e la  cultura delle accademie” (2003), “La lingua del teatro fra d’Annunzio e Pirandello” (2004, in collaborazione con L. Melosi), “L’Oriente nella cultura dell’Occidente” (2004, in collaborazione con D. Maggi e M. Pucciarelli), “Lessicologia e metalinguaggio” (2005), “Annibal Caro a cinquecento anni dalla nascita” (2007), “I linguaggi del Futurismo” (2010), “Le Marche terra di elezione di G.G. Belli” (2015, in collaborazione con M. Baleani), “In limine - Frontiere e integrazioni” (2018), “Gli universali in linguistica” (2018). Si occupa di linguistica storica (in particolare classica, celtica e germanica), etimologia, dialettologia, retorica, storia della lingua latina, storia della lingua inglese, antico nordico, fonetica e fonologia, storia della linguistica, storia della grammatica nel Medioevo, etnolinguistica. Ha inoltre studiato la speculazione linguistica in Dante, Annibal Caro, Leopardi, Belli, nel Futurismo e ha approfondito le istanze linguistiche nel pensiero della Compagnia di Gesù dei secoli XVI-XVIII, in particolar modo in riferimento alle figure di Matteo Ricci e di José de Acosta. È membre d’honneur della “Société belge d’études celtiques” dal 1995. È eletto, nell’adunanza del 24 marzo 2012, socio corrispondente non residente dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti per la Classe di scienze morali, lettere e arti. È dichiarato socio honorario della “Asociación de docentes e investigadores de lengua y literatura italiana” dell’Argentina (ADILLI) nel settembre 2012. Il 25 ottobre 2013 è insignito dal Cardinale di Milano, S.E. Angelo Scola, del titolo di Accademico ambrosiano. Nel maggio del 2021 è cooptato nella Accademia degli Agiati di Rovereto. Gli è conferito il titolo di “professore Emerito” dal Ministro dell’Università e della ricerca, prof.ssa Maria C. Messa, con Decreto 0000071 del 18 gennaio 2022.