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La banda della Magliana e non solo. Dialogo con Teresa Agovino

 Teresa Agovino si è addottorata in Letterature Romanze presso l’Università ‘Orientale’ di Napoli con una tesi incentrata sulle riprese manzoniane nel romanzo storico del Novecento. Attualmente insegna Letteratura italiana presso l’Università Mercatorum e Modelli di scritture e letture dei testi digitali presso l’Università Europea di Roma. Ha pubblicato da pochissimo il libro «Sotto gli occhi benevoli dello stato». La banda della Magliana da Romanzo criminale a Suburra (La scuola di Pitagora, 2024 – qui in open access). Il volume – l’unico, ad oggi, totalmente incentrato sul romanzo di Giancarlo De Cataldo e sui suoi personaggi al di fuori della finzione filmica – analizza insieme a Romanzo criminale, anche i romanzi a esso collegati (Io sono il Libanese, Nelle mani giuste, Suburra), senza dimenticare un importante saggio dello stesso scrittore tarantino, intitolato In giustizia. Agovino ne coglie a fondo le simbologie e, soprattutto, vi identifica due modelli letterari fondamentali: Alessandro Manzoni e Leonardo Sciascia. All’interno del testo si trova, infine, un’intervista proprio a Giancarlo De Cataldo che affronta in maniera diretta tutti i principali temi analizzati dall’autrice.

Parto dalla fine, prendendo libera ispirazione dall’ultimo capitolo del volume che significativamente intitoli “Perché oggi?”: che significato ha scrivere oggi una monografia di questo tipo, soprattutto considerando che non esistono lavori che affrontano con approccio scientifico il contenuto di Romanzo criminale?

Dalla pubblicazione di Romanzo criminale (2002) sono trascorsi 22 anni ed effettivamente mancava, ancora, un testo critico che si occupasse a tutto tondo del romanzo. A fronte di una discreta quantità di saggi dedicati al film o alla serie Sky (o, al più, al confronto tra questi e il libro), oppure a testi che confrontavano la scrittura decataldiana con altri autori a lui coevi, ben pochi critici si sono occupati unicamente del testo letterario. Si rischiava, così, di trasmettere l’idea di un De Cataldo molto “cinematografico” e poco “letterario”, togliendo, di fatto, al romanzo il potenziale che invece possiede. Oggi più che mai, poi, si parla – anche e soprattutto per merito di Giancarlo De Cataldo e del suo romanzo – degli Anni di Piombo, un periodo della nostra storia recente troppo a lungo taciuto o semplicemente dimenticato. Era, quindi, il momento giusto anche per restituire qualcosa a chi tanta voce aveva dato, anni fa, a un’epoca troppo a lungo passata sotto silenzio.

In più occasioni ritorni sul grado di verità della narrazione di Romanzo criminale, sottolineando prima come “storia e invenzione non necessariamente debbano entrare in contraddizione tra loro” (p. 69) e poi ribadendo la natura di “(non-)finzione romanzesca” (p. 90) del lavoro di De Cataldo. Sono state queste oscillazioni di forma che hanno reso necessario il primo capitolo in cui esponi una panoramica di generi letterari ai quali aderisce il lavoro di De Cataldo? O si è trattato della necessità di dover ridimensionare una certa atipicità dello scritto del magistrato tarantino?

Credo dipenda tutto dal perfetto mix di generi ibridi che questo romanzo va a incarnare. Il collettivo Wu Ming aveva già parlato tempo fa del New Italian Epic (e utilizzava come esempio un altro romanzo di Giancarlo De Cataldo, Nelle mani giuste, cui pure accenno nella mia analisi) come di un “UNO” (Oggetto Narrativo Non Identificato), come parte cioè di una sorta di “filone letterario” nato dopo i fatti dell’11 settembre (e del G8 di Genova, aggiungerei) del 2001. Non si tratta di una corrente vera e propria, dicono dal collettivo, ma di un insieme di scrittori italiani che avverte quasi contemporaneamente le medesime necessità sul piano narrativo. Credo che, in parte, Romanzo criminale rientri anche in questo “genere-non-genere”, tanto quanto va a toccare, però, anche la non-fiction, il romanzo inchiesta, lo storico, il noir … Insomma, è molto complesso riuscire a etichettare il testo in maniera definitiva, non solo ma certamente anche per questa saldissima fusione tra realtà e finzione, che tanto ha turbato i lettori e gli spettatori medi e che già diede, tra l’altro, parecchio da pensare allo stesso Manzoni in tempi non sospetti.

La confluenza tra finzione e realtà incide poi particolarmente sui personaggi, rispetto ai quali mostri bene come De Cataldo abbia approntato una serie di espedienti tecnici (la costruzione anaforica di passaggi chiave o lo spostamento del punto di vista dei personaggi) con cui esaltare, a discapito dell’oggettività storica, la psiche dei soggetti ritratti. È forse esagerato dire che la possibilità di portare avanti un’introspezione emotiva libera da una totale aderenza alla realtà sia una delle basi su cui poggia Romanzo criminale?

Non credo proprio sia esagerato. Prendiamo il caso del Libanese, che muore in poche righe, sul colpo, nello stesso istante in cui viene colpito dai proiettili a lui destinati. La morte di Franco Giuseppucci, quello vero, fu per contro incredibilmente scenica: colpito dagli spari a San Cosimato, guidò da solo fino al più vicino ospedale, riuscì a farsi soccorrere perfino e morì, poi, sotto i ferri, alimentando anche il sospetto che chi gli prestava cure lo avesse riconosciuto e forse addirittura lasciato morire. De Cataldo avrebbe potuto raccontare (e romanzare) questa storia – come le moltissime altre di simile portata scenica – eppure non lo fa. Scrive, però, dieci anni dopo Romanzo criminale, un prequel dedicato unicamente alle origini del boss della Magliana, al giovane Libano, ancora troppo piccolo (e povero) per potersi prendere Roma (Io sono il Libanese). Mi sembra un indizio incredibilmente rivelatore di come allo scrittore importassero i suoi personaggi da vivi, ritratti cioè nella loro psicologia e azione criminale, più che da morti. Non di rado De Cataldo è stato accusato da qualche critico di aderire a idee complottisticamente orientate in merito agli Anni di Piombo (e penso alla Strage di Bologna per cui, tra l’altro, la storia giudiziaria gli ha dato anche ragione, ma a distanza di vent’anni) ma bisogna sempre ricordare che, anche se lo scrittore è un magistrato di professione, qui di un romanzo si tratta, non certo di una prova saggistica o cronachistica sul tema. E se non si è liberi di inventare e creare all’interno degli spazi sconfinati del romanzo, dove altro mai si potrà? Aggiungo anche che lo stesso autore avvalora questa mia teoria, poiché, intervistato in merito, afferma di aver notato anche lui quanto eccessivo peso sia stato dato alla “ricerca della verità” sui suoi personaggi, che di fatto sono e restano quello che un romanzo pretende: personaggi, tipi, caratteri. Nulla di più (né di meno).

Nel secondo capitolo del lavoro, quello che più di tutti tenta un’incursione innovativa nell’analisi di Romanzo criminale, ricostruisci un interessante confronto tra Manzoni e De Cataldo incentrato sul tema della giustizia. In sintesi, metti in evidenza come “in Manzoni la delazione mendace di un innocenteconduce alla cattura di un altro innocente [mentre] in De Cataldo la confessione veritiera di un colpevole non porta all’arresto dei correi” (p. 50). Poiché ci sono anche altre dinamiche coinvolte – dalla “riparazione divina” (p. 52) alla “speranza di risanamento” (p. 56) – puoi dirci qualcosa in più su questa forma di intertestualità palesemente presente ma che di fatto sembra abbia stupito lo stesso De Cataldo?

Stupito non direi. Quando ho avuto modo di sentirlo, a mezzo mail, dopo la pubblicazione del libro mi ha confermato di accettare ben volentieri la derivazione dalla Colonna infame – il rischio di lavorare su autori viventi è sempre quello che essi non si riconoscano nelle parole del critico, quindi ammetto di esserne stata particolarmente felice – e che, al tempo della stesura, forse, intuiva solo questa vicinanza che oggi, invece, gli è più chiara. Di fatto, almeno a quanto ne ho letto io, il problema di Manzoni e di De Cataldo è il medesimo, solo che si sviluppa a parti invertite: insomma, che si condannino innocenti o si assolvano colpevoli non conta, il problema è la connivenza dei giudici in queste sentenze di assoluzione/condanna, che rendono costantemente la giustizia (terrena) non una realtà ma piuttosto un’aspirazione. È chiaro che Manzoni confidava nella Provvidenza, nella divina giustizia che avrebbe riparato al Male terreno, ma è altrettanto evidente che, dopo Darwin, Freud, Marx e tutto ciò che intercorre tra Manzoni e noi (guerre mondiali comprese) non è più possibile una tale sconfinata fiducia (che pur parve eccessiva a tanti contemporanei dello stesso lombardo); oggi si apre semmai la possibilità al dubbio, ma di questo De Cataldo non parla mai, egli resta sul piano squisitamente terreno, quello fallace, ingiusto, violento, aspirando sempre alla Giustizia umana con la maiuscola.

Con Sciascia, invece, De Cataldo condivide “l’ironia tristementesarcastica che già aveva fatto capolino nel libriccino sciasciano [L’affaire Moro]” (p. 56) e il peso della memoria. Al di là del contatto tra i due, quanto ha pesato in Romanzo criminale l’ironia come mezzo per filtrare la crudezza delle tematiche affrontate? L’ironia potrebbe, cioè, essere parte di quegli accorgimenti tecnici chehanno permesso una rappresentazione “discreta” (p. 64) dei fatti proposti?

L’ironia moralizzatrice è, anch’essa, tutta di derivazione manzoniana, prima ancora che sciasciana (che piaccia o meno, a Manzoni tutti gli scrittori nazionali devono molto). In De Cataldo c’è, ne ho riportato diversi esempi, quella medesima ironia che si manifesta in entrambi gli scrittori a lui precedenti: mai fine a sé stessa, volta sempre a dar da pensare al lettore, a far riflettere. Romanzo criminale non è un libro divertente, è un testo solo a volte ironico, né più né meno de l’Affaire, specie quando vi si accosta in relazione al sequestro Moro. C’è poi la Memoria anche questa, con la maiuscola; anche questa, sciascianamente intesa come l’unico luogo possibile per provare a riscattare ciò che ancora non ha storicamente avuto giustizia; altro perno centrale della narrazione. D’altro canto, è proprio la memoria che porta Scialoja a Bologna per il primo controverso anniversario della strage (“Era stata la memoria a riportarlo a Bologna, un anno dopo”, si legge a p. 314 del romanzo). Mi sembra un’indicazione estremamente chiara.

Come ha inciso concretamente il romanzo sulle vite reali dei personaggi trasposti narrativamente da De Cataldo (emblematici sono i casi di Sabrina Minardi e Massimo Carminati)?

Più che il romanzo, che è stato l’evento scatenante ma non il dirimente, l’eco della popolarità della serie tv e del film che gli sono seguiti hanno impattato sulle esistenze dei personaggi ancora in vita che giudiziariamente, almeno, potevano riconoscersi nei vari soggetti narrati da De Cataldo. Con il successo, insomma, è arrivata anche la “Magliana-manìa”, una morbosa attenzione del lettore/spettatore medio (quello che, dicevo, ha spesso confuso la realtà con la finzione). Tutto questo ha incrementato non solo la produzione saggistica (prima del 2002 c’era quasi solo il bellissimo resoconto di Bianconi sui misfatti dei “bravi ragazzi”) ma anche una serie di riprese giornalistiche, video YouTube amatoriali sulle tracce della banda e dei luoghi in cui si incontrava … . Carminati, a processo, si è detto molto risentito – anche per il successivo Suburra – di una tale esposizione mediatica, tutta a suo svantaggio, oltre che offeso dalle battute divertite che nel suo ambiente gli venivano spesso rivolte. Sabrina Minardi ha persino tentato il suicidio, non a causa del romanzo o della fiction, si badi, ma per tutta l’eco mediatica che ne è seguita, perché tutti pensavano, ingannandosi, dice lei, di sapere tutto su di loro. Va, però, specificato che nessuno dei due ce l’ha con lo scrittore tarantino, mai lo nominano o se la prendono direttamente con lui, mai gli attribuiscono in maniera diretta colpe che, effettivamente, egli non ha; essi ce l’hanno, semmai, con tutto ciò che è successo dopo …

Un tratto particolare che hai notato in punti chiave della narrazione di Romanzo criminale è la dimensione simbolica che accompagna la presenza di determinati personaggi. Trovo che questa sia un’osservazione molto acuta perché utile a dimostrare come un repertorio segnico possa ampliare il significato di alcune delle azioni di svolta del romanzo. Penso soprattutto alla convergenza Luna-Libanese.

All’improvviso mi sono accorta, per puro caso – confesso, con un “that’s funny!” alla Fleming – che la luna letteralmente spariva dal romanzo più o meno alla morte del Libanese, molto presto a dire il vero, in un testo di oltre seicento pagine. A quel punto ho iniziato a indagare su quanto il satellite fosse legato a lui, alla sua lealtà e al senso di vera amicizia che egli incarna. Insomma, senza Libano non c’è luna e senza luna non c’è amicizia: con la morte del boss della Magliana, cosa che effettivamente avvenne anche sul piano storico, inizia a sfaldarsi man mano l’integrità stessa della banda e i suoi partecipi cominciano a uccidersi a vicenda. Ho ipotizzato, dunque, che i due “personaggi” (la luna e Libano) fossero in qualche modo vicendevolmente legati, così come lo sono sicuramente anche quello del Dandi e di Franco Califano, che diventa – involontariamente e comparendo pochissimo nel romanzo – il richiamo alla sua appartenenza borgatara anche quando egli cerca di elevarsi a uno status alto borghese. Insomma, Romanzo criminale mi è sembrato un romanzo ricco di simboli (forse nemmeno ancora li ho trovati tutti) e proprio la curiosa sparizione della luna mi ha permesso di rendermene conto.

Il testo si chiude con un’intervista a De Cataldo e leggendola si ha chiara l’impressione che le tue proposte di lettura lo abbiamo convinto. Caso raro che suona come convalida inequivocabile di quanto hai scritto…

Come accennavo, lavorare su autori viventi è sempre un rischio enorme. Ho scritto le mie domande quando ormai la prima bozza del libro era completa e gliele ho inviate “a scatola chiusa”, cioè senza fargli leggere quanto avevo scritto, per fare in modo che non potessimo in alcun modo influenzarci a vicenda. Giancarlo De Cataldo è stato di una disponibilità incredibile, mi ha risposto in tempi rapidissimi e con estrema sincerità e precisione, al punto che ho potuto poi aggiungere in diverse note proprio le sue risposte, integralmente riportate in chiusura del libro, a conferma di quanto avevo scritto. Credo all’inizio egli fosse un po’ guardingo, poiché da sempre gli chiedono come mai un magistrato si metta a scrivere romanzi, domanda che in realtà avevo sin dall’introduzione sfatato e bollato come inutilmente capziosa (ma quando gli ho inviato le domande lui ancora non lo sapeva), riportando gli esempi di scrittori forti di “un altro mestiere” tra i più noti della nostra storia letteraria (Carlo Emilio Gadda e Primo Levi, per dirne solo due). Alla fine lo scrittore mi ha ringraziato per non avergli posto quella domanda tanto inutile quanto banale; ha confermato ciò che più mi premeva (la famosa vicinanza alla Colonna infame) e ha molto apprezzato anche la dedica che gli ho scritto di mio pugno sul volume finalmente terminato e stampato, quando glielo ho spedito e che riporto qui, perché era davvero sentita e perché credo racchiuda molto bene i miei sentimenti per quello che ritengo il suo romanzo più significativo: “A Giancarlo De Cataldo, grazie per aver scritto Romanzo criminale. Ha aperto un mondo a me e alla mia generazione. Spero, con questo libro, di aver restituito qualcosa”.

m.maselli2@unimc.it

L'autore

Matteo Maselli
Matteo Maselli è dottorando presso l’Università di Macerata con un progetto su Dante Alighieri. Si è formato a Bologna, dove è cultore della materia in Critica Letteraria & Letterature Comparate, e ha studiato alla University of Oxford e alla University of Notre Dame. Ha pubblicato saggi su Dante in riviste di fascia A e presentato gli esiti delle sue ricerche a convegni in Europa e in Nord America. È attualmente docente a contratto UniPegaso.