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Noir e dintorni. Colloquio con Marco Cesarini

Come è iniziata la tua storia ‘noir’? Codici, immagini, suoni: tutto si tiene in questo tuo viaggio di armonie che è dichiarata scoperta dell’invisibile – meglio ancora dell’indicibile. Da dove nascono queste intuizioni?

Quando decido di scrivere un disco ho bisogno di scegliere un tema, una volta deciso faccio ricerca come se dovessi scrivere una tesi, è il mio modus operandi. Era da tempo che avevo in testa l’idea di cimentarmi con il Noir. La mia passione viene prima di questo disco chiaramente, solo che non ero ancora riuscito a trovare il momento giusto per provarci e per fare una ricerca più sistematica, quindi per me è anche un pretesto per approfondire un argomento. La musica strumentale ha come dici tu la forza dell’indicibile al suo fianco, segue un flusso che difficilmente la parole riuscirebbero a seguire. Nel documentario su Ennio Morricone di Tornatore, lui dice che la musica da cinema comunica quello che le parole e le immagini non riescono a comunicare, sostanzialmente riempie una “manchevolezza”, un vuoto, se ci fai caso è proprio così. Ora sto facendo un discorso generico, nella maggior parte dei casi il miracolo non avviene, la musica viene usata soltanto come mero supporto retorico, per enfatizzare e aggiungere pathos alle scene, che va benissimo, ma non è il tipo di approccio che interessa a me, quando l’alchimia invece avviene – Morricone/Leone – Badalamenti/Lynch – Hermann/Hitckook per citarne alcuni – possiamo assistere a un opera artistica in cui i livelli di lettura sono molteplici dove la musica gioca un ruolo fondamentale. Ecco, diciamo che la mia intenzione che sia riuscita o meno, era di poter creare una colonna sonora di una storia senza avere il film, usando solo l’immaginazione e la scrittura come appoggio mentale. Partendo da questo presupposto ho dovuto per forza supportare le mie scelte musicali con delle argomentazioni teoriche e immaginifiche, non so dirti bene perché, come dicevo prima credo sia una questione di metodo, quindi se da una parte mi ritrovo a comporre musica con gli strumenti del compositore, dall’altra uso l’immaginazione e la speculazione che forse sono metodi tipici di altre discipline, riempendo sia pagine di spartiti che di appunti. Questi appunti sono stati sistemati e sono diventanti una sorta di “Libretto” che è possibile consultare sul sito di nusica.org, è un compendio narrativo, un breve racconto che insieme alla musica forma tutta l’idea del disco. Aggiungo che il Noir è un genere che fa del mistero il suo ingrediente più importante, le atmosfere che evoca sono qualcosa di molto affascinante. Oggi viviamo in un’epoca dove il mistero è sempre meno, dove tutto viene portato alla luce del sole, tutto viene spiegato, sembra che il rapporto con l’indicibile sia recondito se non del tutto assente. In Simulacri e Impostura Braudrillard ci mette in guardia dall’iper realtà, in maniera profetica ci preannuncia gli esiti di una società dove tutto viene simulato e tutto viene spiegato, il fatto è che sembra che lui parli del nostro contesto, mentre invece da buon sociologo non faceva altro che analizzare il suo momento storico, gli anni ’80. Aveva capito che l’arte stava iniziando a soffrire della mancanza di un linguaggio erotico e seduttivo, difatti lui parla del gioco della seduzione che è alla base di ogni rapporto tra fruitore e autore, secondo lui, appunto venendo a mancare quel gioco, scoprendo tutte le carte in tavola, tutto svanisce per lasciare spazio al didascalico.

Chi è Antelope Cobbler?, titolo evocativo e stratificato, da un lato ricalca il celebre leitmotiv di Twin Peaks, “Chi ha ucciso Laura Palmer?”, dall’altro – pochi lo ricordano – evoca il mistero attorno al collettore delle tangenti dello Scandalo Lockheed. Come si mischiano le due suggestioni?

La tua domanda oltre ad essere molto acuta, solleva delle questioni spinose e abbastanza complesse dal mio punto di vista, quindi cercherò per quanto mi è possibile di essere breve. Associo spesso la figura del detective (o investigatore che dir si voglia), al mestiere del compositore, ci trovo tante similitudini sotto l’aspetto esistenziale. La mia passione nei confronti della storia del ‘900 soprattutto del nostro paese, mi porta spesso a leggere e ad approfondire le questioni irrisolte che ci portiamo dietro sia come popolo che come individui, credo che la nostra storia sia un pozzo infinito di stimoli per lo sviluppo di storie Noir. Il mio riferimento ad Antelope Cobbler ha diverse motivazioni: quando ho deciso di inventare l’eteronimo Henry McLusky, avevo nella testa la figura di Mino Pecorelli, personaggio veramente complesso e sfaccettato, anche il suo stile era molto particolare, mi ha sempre fatto pensare ad un investigatore. Il fatto che lui abbia scritto su OP (Osservatore Politico), “Chi è Antelope Cobbler?” poco tempo prima di morire, ha lasciato in me una certa curiosità, sollevando diverse domande, inoltre da quello che mi risulta, sembra che nessuno se ne sia occupato veramente negli anni dopo la sua scomparsa. Il suono di quel nome, così particolare e l’antilope come rimando al mondo animale, erano perfetti per la mia storia. Mi sembrava il modo migliore per ricordare un giornalista ucciso da “ignoti”, un modo non evidente ma allo stesso tempo pieno di significato per chi come te si ricorda di quella storia e del contesto in cui è emersa. Per quanto riguarda Twin Peaks devo farti anche qui i complimenti perché hai fatto un’altra osservazione molto acuta e che allo stesso tempo solleva alcune considerazioni secondo me importati. In Twin Peaks la domanda “Chi ha ucciso Laura Palmer?” È importante, ma lo è per diversi motivi, non soltanto per trovare il colpevole, che si scoprirà abbastanza presto, ma è tutto il dopo che ci interessa, tutto quello che ruota intorno a quella domanda, la funzione che ha quella domanda a livello narrativo è la chiave di tutto, perché ne solleva molte altre, possiamo anche dire che Lynch utilizzi la questione per ulteriori speculazioni che danno vita poi alla terza stagione, che io reputo un capolavoro, la summa del suo modo di fare cinema. Quelli che hanno visto la serie credo possano capire quello di cui sto parlando.  Concludo dicendo che l’enigma mi sembra una delle cose più interessanti quando si parla di opere d’arte, lasciarci con più domande che risposte credo sia un compito arduo da svolgere, ma anche eticamente più sano, rispondere a tutto in maniera limpida ha un che di burocratico e anche svilente sotto alcuni aspetti. Invece, se un’opera d’arte ci lascia con delle domande, vuol dire che da spettatori o ascoltatori, a casa nel nostro privato, continueremo a cercare risposte, portando avanti così la nostra ricerca, che può condurci ad ulteriori sviluppi.

“Marco Cesarini & Henry McLusky”, il nuovo progetto all’origine dell’album, nasce dall’esigenza di affrontare tematiche diverse, di rispondere a nuovi codici. Ti va di raccontarne l’origine?

L’origine è legata appunto come dicevo prima all’esigenza di provare a definire un proprio stile, un proprio codice per parlare di Noir con la musica, visto che non esiste un genere definito come potrebbe essere il rock o il post rock eccetera, ma è più che altro è una definizione che si usa per la letteratura e il cinema. Tutti i musicisti o gli artisti o i cineasti o gli scrittori, che mi hanno in qualche modo influenzato, sorpreso, stimolato, sono riusciti a creare la propria firma, il proprio mondo simbolico, il mio è il tentativo (si spera riuscito) di creare un mio mondo simbolico. L’esigenza, nel bene e nel male di fare emergere il mio stile, se così si può dire, di creare qualcosa di “unico”, la priorità per me è che ci sia forza estetica in quello che faccio, forza evocativa, credo che questo venga prima di tutto e questo disco è un ulteriore passo avanti verso la costruzione di un mio modo di fare musica. Il fatto di essere riconoscibile come Marco Cesarini.

David Lynch, col suo universo lisergico e visionario, è stato una sorta di ‘pungolo’, una porta della percezione attraverso cui hai avvertito l’esigenza di scandagliare il reale, di interrogarti su un certo tipo di verità. Qual è il tuo rapporto con il cinema?

Il cinema ha un certo peso, mi piace, seguo il suo linguaggio e lo reputo un mezzo molto potente e molto attuale, anche molto pericoloso perché ha la capacità di essere strumentalizzato per far passare molta dell’ideologia neoliberista a cui ci siamo abituati, ma non voglio divagare troppo perché si aprirebbero molte altre questioni. Tornando a noi, per quanto riguarda il cinema, il mio interesse credo sia come quello di molti, quello dello spettatore che cerca dei mondi alternativi in cui rifugiarsi per un tempo limitato della sua giornata, però allo stesso tempo da musicista mi accorgo che a volte a differenza dei critici o degli appassionati attenti alla storia o alla narrazione, ricerco nel film l’attimo in cui gli equilibri tra fotografia, movimenti di camera, musica sono perfettamente allineati, questo avviene per un tempo breve e non ha, mi sembra di capire per la critica di settore molto valore, mentre invece per me è li il territorio dove si gioca la partita principale, ci sono attimi in cui il regista riesce a dirci tutto con un movimento di camera e la musica giusta, non so neanche se ci sia una totale consapevolezza da parte dell’autore. Più vado avanti e più mi rendo conto che le cose che comunichiamo nel nostro lavoro artistico passano al di là della nostra volontà.

L'autore

Costanza Pulsoni
Amante della lettura ed economista per professione. Nuotando alterna lo stile libero e la rana, ma non ama giocare a carte.