scrivere nelle varie lingue d'Italia

Marco Paone intervista Daniel Cundari

Daniel Cundari (Rogliano, 1983) è un poeta, scrittore e traduttore che scrive in dialetto calabrese, italiano e spagnolo. Ha studiato Lettere Moderne e Relazioni Internazionali a Siena e in Spagna, dove si è formato artisticamente. Ha partecipato a vari eventi in diversi paesi europei e ha all’attivo numerosi articoli di carattere politico e letterario. Per il suo costante impegno poetico e culturale, gli è stato attribuito il Pericle d’Oro.

Ha pubblicato in poesia: Cacagliùsi / Balbuzienti (Roma, 2006 Pref. Dante Maffìa e Postf. Pasquino Crupi), Il dolore dell’acqua (Roma, 2007, Pref. Mario Specchio), Geografía feroz (Granada, 2011, Pref. Alejandro Pedregosa e Postf. Trinidad Gan), Poesie contro me stesso (Rubbettino, 2014, Pref. Juan Carlos Friebe), le plaquettes in spagnolo Prótesis del alma e Poemas para delinquir. Nel 2013 è uscita la sua prima opera narrativa, Istruzioni per distruggere il vento (Rubbettino).

Oltre a ricevere per Geografía feroz il Premio Genil de Literatura di Granada, solitamente destinato ad autori iberici, nel 2009 è stato ospite della Cátedra Federico García Lorca. Presente in svariate antologie poetiche e letterarie, è autore e interprete di molti spettacoli tratti dai suoi testi. Ha tradotto dall’italiano allo spagnolo tutte le poesie di Gesualdo Bufalino e in dialetto calabrese molti autori, da Kavafis ad Aleixandre, da Alberti a Mandelstam.

Vivi e scrivi in Calabria, dal quartiere dove sei nato e cresciuto, Cuti a Rogliano. Cosa significa fare letteratura e promuovere la cultura oggi in Calabria?

Ho vissuto per tanti anni all’estero, ma sono anche molto presente nel tessuto sociale della mia terra. La letteratura in Calabria è politica, teatro, sangue, impegno civile, passione. Essa si scontra ogni giorno con il mito e la religione, poiché è animata dall’irrazionale e dalla magia popolare. Per vivere con intensità la Calabria occorre studiarla, leggerla e ascoltarla. Cuti, in particolare, è la sintesi di ciò che per me rappresenta la poesia. È la mia capitale, la città ideale del mio dialetto, la lingua con la quale posso ‘sbagliare’ il cuore. Promuovervi la cultura non è semplice, ma è un dovere da rispettare nei confronti delle generazioni future. Bisogna vestire i panni del Don Chisciotte di Cervantes, per antonomasia l’eroe dell’inutile e del gratuito.

Nelle tue opere c’è un forte sentimento della terra e della lingua. “Como el epicentro de un pequeño terremoto / como una onda que se derrama y explota, / la palabra me invade. / Se apodera de mi tierra”. Che cos’è per te la terra? Avendo viaggiato molto, quante sono le terre che hanno invaso la tua parola?

La terra è il luogo del mistero e del dubbio. Nelle mie opere spesso si identifica nella parola, in quanto essa racchiude ogni sfumatura del quotidiano. Vi è una terra arida e una terra dell’eccesso. Il poeta vive tra questi due luoghi lasciandosi contaminare dalle circostanze. Le terre che influenzano molto la mia poesia sono quelle liminari: Rogliano e la sua infanzia, Granada e il suo duende, Berlino e il suo caos, Shanghai e la sua sensualità.

A proposito di vissuto, che relazione c’è tra il tuo paese di provenienza e il posto in cui hai abitato per svariati anni, Granada e l’Andalusia? Quali sono oggi le somiglianze e le differenze nella crescita e nell’uso della cultura che ravvisi in queste due culture mediterranee?

In entrambi i luoghi è presente l’elemento poetico: il mare, la montagna, le contraddizioni del Sud. In Andalusia il confronto tra le varie voci è molto più intenso anche perché le opportunità per esprimersi sono disparate.

Quest’oscillare fra luoghi ci porta a un altro argomento caro alla tua scrittura, l’emigrazione. In uno dei tuoi testi affermi che non esiste poesia negli addii, specialmente in quelli degli emigrati. Nella situazione attuale che vede lambire e mettere in discussione frontiere reali e culturali dell’Europa, a distanza d’anni che valore ha rileggere il mondo attraverso quella che denominavi una geografía feroz?

Ognuno di noi possiede e protegge una propria geografia feroce fatta di lontananze, assenze, occasioni perdute. Ma esiste pure una poesia della gioia e della speranza che bisogna coltivare. La geografia feroce, comunque, non va confusa con la spinta campanilista che spesso attanaglia chi scrive o si esprime nel proprio idioma ancestrale. Al contrario, nel mio caso, mi sforzo di ‘dimenticare la Calabria’ mentre utilizzo lo strumento dialettale.

Quali sono le opportunità e le sfide di una scrittura migrante come la tua?

In molti affermano che i dialetti siano lingue minoritarie o prive di prestigio. Eppure al di là della barriera semantica che ostacola le persone poco curiose e distratte, la lingua di Rogliano, di Cuti, mi offre sempre la possibilità di confrontarmi con le voci più importanti della poesia internazionale. Amo la mia lingua corporea: lingua contadina e nel contempo lingua sofisticata e teatrale.

La dicotomia fra il vissuto e l’ars poetica si ricollega al titolo del tuo ultimo libro, Poesie contro me stesso, una diatriba che conforma la rilettura generazionale e la pluralità linguistica del testo: la lingua dei nonni, il dialetto; la lingua dei padri, l’italiano; la lingua dei figli, lo spagnolo. D’altro lato ti definisci schiavo della lingua di provenienza, il dialetto di Rogliano. Pensi che il passaggio attraverso due lingue maggioritarie sia un volano per la legittimazione letteraria e culturale di discorsi fatti in lingue altre, minoritarie?

No. penso solo che il dialetto abbia la stessa legittimazione letteraria di quelle che definiamo lingue maggioritarie. Non a caso, gran parte della migliore letteratura degli ultimi secoli è stata scritta in dialetto. Dialetto inteso in qualità di lingua vera e propria di avanguardia espressiva, non più sfruttata per rappresentare il bozzettismo satirico, la parodia o per cogliere il sentimento popolare. Una lingua autentica, utilizzata per trattare argomenti metafisici appartenenti al mondo intellettuale.

Tornando allo spagnolo, cos’è che ti ha fatto e ti fa sentire a tuo agio scrivendo in questa lingua? Quali elementi ti apporta rispetto all’italiano?

La Spagna ha segnato la mia traiettoria artistica. Torno spesso nei luoghi che hanno scalfito in profondità la mia poetica: il Sacromonte di Granada, le periferie, l’Albayzín. Mi capita di recitare anche in greco antico o in polacco. Ogni lingua è uguale per il mio orecchio poetico. Bisogna sapere ascoltare quella giusta e riproporla agli altri.

In un tuo testo ti interroghi: “¿No parece la poesía un presunto muerto que regresa?”. Altrove parli della poesia come di “un morto vivo che arde nel nostro corpo”. Quali sono i limiti tra la vita e la morte della poesia?

La poesia è enigma, luce accecante o buio, vuoto. Vita e morte animano la scrittura e l’esistenza degli uomini.

Per te la poesia è anche performatività, non sono pochi gli spettacoli che riuniscono la ricerca poetica alla veste teatrale e musicale, come nel tuo ultimo I migliori amici ti accoltellano. Esiste attualmente un pubblico della poesia, specialmente se in dialetto?

Il pubblico della poesia? I miei spettacoli in varie lingue, compresi quelli in dialetto, sono molto seguiti. Attraverso il cosiddetto ‘repentismo cutise’ sto cercando di rivalutare la storia di un popolo con tutte le sue contraddizioni. In un mondo veloce e ingiusto, la poesia è l’unico partito che rimane.

 

(in collaborazione con www.umbriapoesia.it)

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L'autore

Marco Paone
Marco Paone
Marco Paone è docente di lingua spagnola e codirettore del Centro di Studi Galeghi presso l’Università degli Studi di Perugia. Nelle sue ricerche si è interessato a questioni di storiografia letteraria, relative ad aspetti di circolazione, migrazione e traduzione nel contesto italiano e iberoamericano. È uno dei fondatori di Umbria Poesia e Ultramarinos (Follas Novas: Santiago de Compostela, 2014) è il titolo della sua prima raccolta di poesie.