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Carlo Pulsoni intervista Franco Vitelli e Francesco Bruni

La copertina del volume "U rispir du Vicinonz" di Franco Palumbo
La copertina del volume “U rispir du Vicinonz” di Franco Palumbo

 

Nel mese di dicembre del 2015 è uscito il volume che contiene l’opera omnia poetica di Franco Palumbo, U rispir du vicinonz. Canzoniere Materano, a cura di Francesco Bruni (FB) e Franco Vitelli (FV), Roma, Edizioni della Cometa. Abbiamo chiesto ai curatori non solo di parlarci di Franco Palumbo (1930-2011), ma anche di darci una panoramica sulla poesia in vernacolo ai nostri giorni.

In un momento nel quale chiudono le collane storiche di poesia, fa veramente piacere segnalare l’uscita di un volume che raccoglie l’opera poetica, per di più in dialetto, di Franco Palumbo. Chi era l’autore?

(FV) È tempo di crisi per la poesia, anche se, in maniera contraddittoria, i poeti si moltiplicano e costituiscono sostanzialmente il pubblico. Naturale che le collane chiudano ed anche naturale che la “perdita d’aura” della poesia coincida con lo schiacciante prevalere della società del consumo. Tuttavia, è bene che i poeti si liberino dell’ingombrante presenza di Narciso, piegando verso nuove forme di responsabilità. Il senso della pubblicazione di tutte le poesie di Franco Palumbo, per giunta in dialetto, sta tutto qui: proporre il paradigma di un’esperienza autentica, che si fa interprete di una comunità, lavorando al suo servizio come artigiano della cultura che stabilisce un ponte con il mondo altro e diverso, un collegamento tra il dentro e il fuori sulla scorta dello studio e della ricostruzione degli aspetti salienti della cultura di Matera e della Basilicata.

Nella premessa fai riferimento all’assenza di poeti lucani nella famosa antologia della poesia dialettale di Pasolini. Com’è cambiata in questi anni la situazione, anche alla luce della produzione di Palumbo?

(FV) Sì, riprendo, per contestarla, una inveterata polemica nei confronti di Pasolini, cui per malinteso orgoglio di campanile, veniva rimproverata l’esclusione dei poeti lucani dalla sua antologia del 1952. In verità, di poeti dialettali del Novecento allora non ce n’erano; anzi, gli accenni di Pasolini rivelano un’attiva e lodevole ricerca documentaria pregna di interessanti spunti critici. Nel prosieguo la situazione è cambiata. Albino Pierro è stato candidato credibile al Nobel e il suo eclatante successo ha creato un diffuso interesse per la pratica della scrittura in dialetto, forse anche troppo. Sta di fatto che la tradizione dialettale ora può annoverare poeti di pregio: Rocco Brindisi, Raffaele Nigro, Antonio Lotierzo, Mario Romeo e naturalmente il nostro Palumbo, che si è infine deciso a pubblicare i suoi versi anche per attestare che Matera aveva il suo poeta dialettale, dopo l’interessante fenomeno ottocentesco di Francesco Festa.

Quali sono i tratti peculiari della poesia di Palumbo e quali sono le ragioni per cui oggi consiglieresti la sua lettura?

(FV) La lettura di una poesia vera è sempre di conforto, pone riparo alla tristezza dei tempi. Quella di Palumbo la definirei poesia della sorveglianza civile, nel senso che rimane fedele ai tratti della sua genesi che viene a coincidere con la battaglia culturale per il risanamento e la conservazione degli antichi rioni materani dei Sassi. La lingua, voglio dire il dialetto, contribuiva al recupero di una visione integrale della civiltà. Il mondo arcaico contadino e lo spirito del vicinato vengono raccontati nel momento della loro intatta vitalità, ma anche nel declino che la dinamica della storia ha imposto. Pur non mancando talune parziali esperienze (Scotellaro, Trufelli), Palumbo fornisce il primo organico “ritratto poetico” di Matera; quasi a segnare un destino, il libro esce quando essa è stata designata come capitale europea della cultura per il 2019. Non sarebbe male che si tenesse conto del filo di continuità storica che il poeta suggerisce. Non la modernità che distrugge, ma quella che rappresenta una naturale evoluzione: dalla chiancodda, rudimentale strumento di appoggio, alla linea in design della poltrona.

La storia non si fa sulle assenze, ma stupisce come Vanni Scheiwiller, un editore sensibile alla poesia dialettale e molto legato a Matera per via dell’amicizia con Peppino Appella, non abbia nel suo catalogo un libro di Palumbo. Ne conosci le ragioni?

(FV) In effetti, nella sua lunga frequentazione materana Scheiwiller ha conosciuto molto bene Palumbo proprio per l’incrocio di amicizia e di cultura con Peppino Appella. Non solo, ma ha avuto modo di leggere le poesie, rimanendo incantato dalla loro bellezza. Caso più unico che raro Franco si è sempre sottratto all’insistente richiesta di Vanni per pubblicare in un Pesce d’Oro le poesie. La prima ragione di questo rifiuto tocca le difficoltà che Palumbo, ma non solo lui, provava nella trascrizione del dialetto materano; accolse, infatti, con piacere e come una liberazione l’intervento di un esperto del calibro di Francesco Bruni. L’altra inerisce alla natura stessa della poesia di Palumbo, che si appoggia – come dice Cesare Segre in diverso contesto – a un’«estetica dell’acustica dialettale», che spingeva l’autore a leggere i versi, preferendo una circolazione orale che esaltava l’antica vocazione per il teatro e l’esperienza di raccoglitore di canti popolari.

Come hai scoperto la poesia di Palumbo e quali sono le ragioni che ti hanno spinto a curarne l’edizione?

(FB) Di Palumbo, autore sostanzialmente inedito, non sapevo nulla finché Franco Vitelli non mi mostrò il dattiloscritto del suo Canzoniere e mi fece leggere la poesia di apertura. Nonostante le sue spiegazioni ci capii pochissimo, ma rimasi impressionato dal ritmo e dalla drammaticità intensa (ma non patetica, anzi impassibile) della rappresentazione: la poesia è intitolata “La togghi non cocci sogn” cioè: “la ‘taglia’ non versa sangue” (cocci, letteralmente: caccia). La ‘taglia’ è la canna sulla quale il massaro con il coltello incide una tacca che certifica, al tramonto, che il contadino ha svolto la sua giornata di lavoro: è uno strumento contabile, insomma, per il calcolo delle giornate lavorative e il compenso che tocca al lavoratore.

Nel suo ricordo di Pasolini, Contini si vanta di essere stato il primo sul “Corriere del Ticino” a segnalare la raccolta “Poesie a Casarsa”, aggiungendo che la rivista “Primato” aveva respinto l’articolo perché non riteneva opportuno esaltare la poesia in vernacolo. Com’è cambiata la percezione della poesia dialettale nell’ottica di un linguista?

(FB) La politica di affermazione dell’italiano era perseguita dal fascismo con dichiarazioni antidialettali alle quali non corrispondeva necessariamente un’applicazione rigorosa della linea ufficiale. Non pare che il teatro dialettale di Eduardo de Filippo sia stato perseguitato. Il fatto è che fin dal XVI secolo letteratura in lingua e letteratura in dialetto hanno convissuto pacificamente: è avvenuto che talvolta la poesia dialettale abbia satireggiato la poesia in lingua (come avviene nelle satire antiarcadiche di Carlo Porta), ma si tratta di opposizione interne al sistema letterario: di regola chi scrive in dialetto sa già scrivere in lingua, perché mentre la lingua si impara a scuola, il poeta dialettale deve inventarsi da sé la difficile trascrizione del dialetto sulla carta, cosa che avviene tanto per gli scrittori che ereditano un dialetto (come il veneziano, il romanesco, il napoletano e così via) di grande tradizione letteraria quanto, a maggior ragione, per chi, come Franco Palumbo, si esprime in un dialetto che alle spalle ha una tradizione letteraria debole (ma una robusta vitalità orale).

A detta di amici lucani, il dialetto materano risulta molto difficile da comprendere anche per loro. Come può pertanto un lettore medio avvicinarsi alla poesia di Palumbo. Non c’è il rischio che ci si limiti alla lettura delle sole parafrasi? 

(FB) Forse non è proprio il dialetto che è difficile da capire per chi lo conosce! È il dialetto scritto che risulta a prima vista estraneo anche a chi abbia familiarità con il materano o, poniamo, il friulano, perché siamo abituati ad ascoltare e a parlare il dialetto, molto meno a leggerlo. La parafrasi non vuole certo sostituirsi al testo dialettale, piuttosto lo accompagna. Si tratta di farsi l’orecchio, e dopo le prime poesie la parafrasi sarà meno utile, o servirà a spiegare usi, modi di dire, luoghi, personaggi particolari: la poesia di Palumbo è molto legata alle circostanze ambientali, è realistica, attaccata a quel paesaggio (le Murge), a quella città (Matera), e per questa via interessa i materani e con loro la generalità dei lettori, perché proprio dalla concretezza Palumbo parte per esprimere significati che non valgono solo per la realtà circoscritta da cui nascono.
Aggiungo, poi, che quando Palumbo seppe dell’intenzione di pubblicare le sue poesie, le recitò tutte, anche se era malato, mentre il figlio Giuseppe le registrava. Si può accompagnare così la scrittura dialettale con la viva voce dell’autore, che numerose testimonianze descrivono come uomo colto e gentile, ed efficacissimo nel recitare in un gruppo di amici questo o quel testo.


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