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Carlo Pulsoni intervista Pablo d’Ors

Pablo d’Ors, Carlo Pulsoni, Sendino Muore, Vita e Pensiero
Pablo d’Ors è nato a Madrid nel 1963 da una famiglia di artisti e scrittori. Discepolo del monaco e teologo Elmar Salmann, è sacerdote cattolico dal 1991. Cercando il silenzio ha raggiunto a piedi in pellegrinaggio Santiago de Compostela, ha attraversato il deserto del Sahara, ha soggiornato sul monte Athos. Nel 2014 ha fondato l’associazione “Amici del Deserto”, con cui condivide l’avventura della meditazione. Nello stesso anno papa Francesco lo ha nominato consultore del Pontificio Consiglio della Cultura. Tradotto in diverse lingue, ha raggiunto una grande notorietà di pubblico con la sua “Trilogía del silenzio”: El amigo del desierto (2009), El olvido de sí (2013) dedicato alla vita di Charles de Foucauld e Biografía del silencio (2012), autentico fenomeno editoriale in Spagna e in Italia dove è uscito con Vita e Pensiero. Altri suoi libri tradotti in Italia sono le Avventure dello stampatore Zollinger (Macerata, Quodlibet, 2010) e la raccolta di racconti Il debutto (Cagliari, Aisara, 2012).

Ho apprezzato molto questo tuo libro appena uscito in traduzione italiana (Sendino muore, traduzione italiana di Danilo Manera, Milano, Vita e pensiero, 2015). Si tratta di una testimonianza di una persona di fede raccolta da un uomo di fede. Ti chiedo se l’uomo di fede nonché scrittore Pablo d’Ors sarebbe stato in grado di fare lo stesso con una persona altrettanto straordinaria, ma priva di fede?

La barriera non è per me tra credenti e non credenti, ma tra chi medita e chi no. È stata identificata la fede con il credere, ma la fede è in primo luogo fiducia, e solo dopo credo. In primo luogo ho fiducia in te, per esempio, e poi credo in quello che mi dici. Le credenze si separarono quando non vi è una fiducia previa; ma quando c’è fiducia, le credenze di ciascuno non si separano affatto. Risultano totalmente indifferenti. A me interessa ciò che è la vita. Se una persona è viva, credente o no, mi piacerà partecipare di questa vita, e, se ne sono capace, raccontarla o scriverla. Ciò che è vivo, a prescindere dalle etichette, è di Dio.

La morte nella società occidentale è diventata un tabù, un argomento di cui non si può parlare. È forse per questo che specifichi subito che il libro “non è un romanzo né può esserlo” (p. 12), ma si tratta di “una sorta di testimonianza, la più fedele possibile, del suo modo [di Sendino] di vivere la malattia”? 

Questo saggio avrebbe potuto essere in teoria un romanzo (vi era materiale abbondante per esserlo), ma non poté esserlo perché non è nato per via della mia ispirazione o impulso artistico, ma dall’incarico che nel suo letto di morte mi ha dato la dottoressa África Sendino. Non sono mai stato capace di scrivere su commissione, ma questa volta lo sono stato. La morte e la malattia sono certamente questioni importanti. Vorrei continuare a scrivere su questi temi in futuro, avendoli a lungo vissuti come cappellano ospedaliero; credo, insomma che sarebbe bello raccontarli. Ma non so ancora quando. Ho troppa immaginazione nella testa. Quando trascorro un paio d’ore in silenzio lungo la giornata mi passano tante cose e vivo così intensamente che mi sembra incredibile quanto può capitare in 24 ore.

Cosa significa per lo scrittore e cappellano ospedaliero Pablo d’Ors convivere con la morte, e quante altre figure “sublimi” ha incontrato dopo Sendino?

Nove anni in un grande ospedale a Madrid mi hanno lasciato molte tracce, non c’è dubbio. La morte degli altri allude necessariamente anche alla propria. Voglio dire che una delle esperienze più dure durante tutto questo tempo è stato pensare e sentire che anch’io devo morire. Tutti lo pensiamo e lo sentiamo, ovviamente, ma non in un modo così continuo e vissuto come quando hai a che fare tutti i giorni con moribondi e cadaveri. La tentazione davanti alla disgrazia, come ben sapeva la mia ammiratissima Simone Weil, è quella di indurirsi, e questo effettivamente è ciò che si verifica più frequentemente. La maggior parte dei miei colleghi cappellani e del personale sanitario si è indurita. Io non ci sono riuscito: sono troppo sensibile. Dopo i miei turni di 24 ore tornavo a casa emotivamente in frantumi. Dovevo praticamente ricompormi disfatto com’ero in mille pezzi.

Ho trovato particolarmente toccante questo brano del I capitolo: “ero venuto ad aiutare una malata, e invece quella malata avrebbe aiutato me. Si trattava dell’esperienza sacerdotale per eccellenza, la vetta più alta dell’evangelizzazione: i poveri ci evangelizzano” (p. 20). In questa frase si racchiudono molti dei valori fondanti del Cristianesimo. Puoi darci la tua spiegazione?

Cristo ha detto che chi vuole essere suo discepolo deve prendere la sua propria croce e seguirlo. Non ha detto che per essere suo discepolo bisogna essere buono, compromettersi nella società o andare molto a messa, ma caricarsi la sua croce. Questo significa che ciò che dovrebbe distinguere i cristiani è precisamente un modo speciale e genuino di vivere la sofferenza. Quale? Quella che ebbe lo stesso Cristo: senza fuggire dalle nostre ombre, ma abbracciandole e attraversandole, insomma semplicemente vivendole. Così possiamo trasformare ciò che viviamo. ll dolore si può trasmutare solo in amore, se si vive. Ogni evangelizzatore, o almeno così è stato nel mio caso e credo in quelli della maggioranza, vive le prime decadi del su ministero pensando che il mondo cambierà per il tramite del pensiero e dell’azione. Solo con il tempo si comprende che ciò che realmente cambia è la contemplazione e la passione. Sendino l’aveva compreso. Questo ha fatto di lei una donna ammirevole ed esemplare.

Come si è già detto, il tuo libro è la testimonianza di una vita, e forse proprio grazie a questa testimonianza la figura di Sendino non verrà mai dimenticata. La scrittura è uno dei modi che permettono di non far dimenticare tragedie collettive, come la Shoah, o individuali, quali la morte di Sendino. Che valore ha per il romanziere Pablo d’Ors scrivere una testimonianza di vita reale?

La frontiera tra finzione e realtà è molto labile. Don Quijote, per esempio, è molto più vivo e molto più reale di molti nostri contemporanei che camminano in carne e ossa nelle strade della nostre città. In realtà credo che ciò che passa dentro di noi è molto più reale di quanto ci passa di fuori; che le nostre fantasie, sogni, illusioni, speranze, timori sono molto più determinanti delle nostre opere, appuntamenti, incontri, riunioni. La scrittura cerca di fare giustizia letteraria alla realtà. Scrivere è dire al mondo “io sono”; il bello del lavoro del narratore è che questo io sono lo dici incarnandoti in altri, i tuoi personaggi, e dimostrando in questo modo che, nonostante le nostre differenze, siamo realmente uno.

Partendo proprio dal valore della testimonianza, nel III capitolo scrivi: “Non so se Sendino approverebbe il mio modo di affrontare questi fatti, ma direi di no: quasi nessuno gradisce quel che gli altri scrivono sulla sua storia o personalità. Tutti vorremmo avere non solo la vita, ma anche la sua interpretazione. Questo però è chiedere troppo. A noi tocca vivere le nostre vite, e ad altri interpretarle: è giusto così” (p. 39). Cosa intendi che la testimonianza non può essere oggettiva ma riflette sempre un punto di vista personale?

Un artista, scrittore o no, deve essere personale. Il suo lavoro è precisamente quello di essere personale, e quando dico personale voglio dire soggettivo, cioè passare ciò che si accinge a raccontare tramite lo schermo di se stesso. Agli scienziati e agli storici si può chiedere l’oggettività, ma agli artisti devi chiedere la soggettività, ovvero esprimere ciò che vedono i tuoi occhi, ciò che ascoltano le tue orecchie, ciò che sentono le tue viscere e il tuo cuore. Scrivere è dare testimonianza della propria identità. Anche quando parla degli altri, lo scrittore parla sempre di se stesso. Rifiutare un’opera di un autore è rifiutare l’autore stesso, posto che l’identificazione è molto intima. África Sendino, come persona, aveva poco da vedere con me. Grazie al miracolo della letteratura, Sendino si è trasformata per me in una defunta molto viva e, mi spingo a dire, in qualcosa molto simile a una amica.

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