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Carlo Pulsoni intervista Pablo d’Ors

Pablo d’Ors (Madrid 1963) è tra le voci più originali della narrativa spagnola contemporanea. Nipote del filosofo Eugeni, Pablo si forma tra New York, Roma, Vienna e Praga, addottorandosi prima in Teologia e in seguito in germanistica. Ha vinto il premio Celestina della critica per l’adattamento teatrale di Canto di Natale di Dickens. Attualmente è cappellano nell’ospedale Ramón y Cajal di Madrid, città nella quale dirige il laboratorio di Scrittura teatrale dell’Università.

Quanto ha influito nella tua scelta di scrivere l’ambiente familiare, a partire da tuo nonno Eugeni, letterato e filosofo?

Non ho letto Eugenio d’Ors finché non sono stato abbastanza grande, dato che non è un autore facile. Mi dava fastidio non capirlo, mi umiliava: sentivo che era troppo colto per me, troppo sottile per una sensibilità e intelligenza come la mia. Poi, a 28 o 29 anni, giunse l’illuminazione. Lessi le sue “Lettere a una solitudine” e mi sembrò uno scrittore incredibile, sia per il suo sistema di pensiero, che allora mi parve quasi hegeliano, sia per le sue intuizioni estetiche, brillantissime. E anche per il suo stile letterario, voluttuoso, barocco però con l’intenzione di essere classico. È evidente che mi ha influenzato, ma è sempre rimasto sullo sfondo, non in modo esplicito. Lui era troppo intellettuale per essere romanziere, ovvero quel che essenzialmente sono io.

Restando all’ambito familiare composto di letterati e artisti, quando scrivi riesci a farne astrazione o rappresenta una pietra di paragone, positiva o negativa che sia?

La mia famiglia è il massimo. Ho conosciuto poche famiglie come la mia. Siamo sette fratelli e tutti ci occupiamo di un’arte: la pittura, la scultura, la musica, il teatro… Sembrerebbe che ci siamo messi d’accordo perché ognuno avesse la sua area di espressione artistica. Non c’è bisogno di dire che ho dei fratelli che hanno molto più talento di me, ma questo non significa che abbiano raggiunto un riconoscimento superiore a quello di cui io ora soffro e godo in questo momento. Ovviamente influisce il fatto di essere nato ed essere stato educato in un contesto con migliaia di libri e quadri. Mio padre, poi, non dialogava con noi: ci teneva lezioni, quasi sempre di arte e di buon gusto. Non cambierei la mia famiglia per nessun’altra, sebbene questo non significhi che i rapporti tra noi filino sempre lisci.

Il grande scrittore Roberto Bolaño faceva il tuo nome a chi gli chiedeva quali fossero secondo lui gli scrittori spagnoli più interessanti. Trovi dei punti di contatto tra la tua scrittura e quella del cileno?

Quello che sto per dire è quasi un peccato mortale: Roberto Bolaño è sopravvalutato. Questo non significa, naturalmente, che non sia uno dei migliori scrittori in lingua spagnola degli ultimi tre o quattro decenni. Però da qui a chiamarlo genio, c’è una bella differenza. Se lui è un genio, che dire allora di Cervantes o Boccaccio? Abbiamo perso la misura. È vero che lui mi ha citato qualche volta quando gli chiedevano nomi di scrittori spagnoli interessanti. Però, che io sappia, ha letto solo i miei primi due libri (Il debutto e Le idee pure, N.d.R), che sono i più freschi e disinvolti, quando avevo ancora quella rabbia che ogni autore deve avere per far sentire la sua voce. C’è qualcosa che accomuna le nostre voci, suppongo: sicuramente l’istinto, il fidarsi della mano più che della mente, la convinzione che la letteratura sia una religione.

Nella quarta di copertina del tuo “Il debutto” sei definito come “il più europeo fra gli scrittori spagnoli”, probabilmente perché ti sei formato in un ambiente culturale tedesco, studiando poi a New York, Roma, Vienna e Praga. È una definizione che ti si attaglia o ti senti nonostante tutto più ancorato al mondo iberico?

Non mi dispiace essere definito “scrittore europeo”. Chissà per quale motivo ho sempre avuto l’impressione che lo spagnolo fosse troppo spagnolo, cioè “provinciale”. A casa mia, da bambino, sentivo parlare i miei fratelli maggiori di Goethe e di Stefan Zweig come nelle case degli altri intellettuali spagnoli si poteva parlare di Unamuno o di Baroja. Pessoa disse che la vera patria di uno scrittore è la sua lingua. Non sono d’accordo neanche su questo. Le parole non sono per me il fine, ma il mezzo. L’importante è quello a cui mirano. E ciò a cui mirano non è in francese, polacco o tedesco. Sono uno scrittore europeo perché sono un lettore, fondamentalmente, di letteratura europea. I miei maestri sono Kafka, Kundera, Nabokov: ciò non significa che non mi piacciano alcuni giapponesi o americani.

Ne “Il debutto” i racconti traggono spunto dalla vita degli autori e dalle loro opere. Risulta pertanto fondamentale per la loro comprensione il titolo o la dedica del racconto stesso. Ci troviamo insomma davanti a una sorta di affascinante gioco intertestuale in cui il lettore si immerge nelle tue pagine che in realtà alludono alle pagine degli autori menzionati nel titolo. Come ti è venuta questa idea per molti aspetti borgesiana?

Non si conosce mai con esattezza la genesi delle cose. So, questo sì, che c’è stato un momento in cui ho deciso di non nascondere i miei influssi letterari, ma di dichiararli apertamente, giocare con loro per liberarmi del loro peso. Trasformare i miei miti letterari in personaggi ridicolizzare i quali è diventato un atto catartico, liberatorio, rinfrescante. Se toglievo i loro nomi e mettevo altri nomi comuni, i racconti funzionavano, sì, però perdevano buona parte del loro mordente. Cessavano di essere insolenti, cosa che io giudico essenziale nella narrativa. È vero che nei miei racconti del Debutto ci sono molti riferimenti a opere di altri scrittori, però è ancora più vero che i lettori colti pensano che ci sia molto, moltissimo di più, e così si genera in essi una attitudine di sospetto e di ricerca che mi piace molto. Non dico che io non sia una persona colta, però molto meno di quello che i miei lettori realmente colti immaginano.

A mio avviso è proprio questa peculiarità che rende avvincente il tuo libro. Si tratta però al contempo di un limite alla sua ricezione, dal momento che può essere pienamente apprezzato solo da coloro che hanno una profonda conoscenza della letteratura e in particolare degli autori a cui alludi. Hai in mente un lettore ideale quando hai scritto questo libro?

Il mio lettore ideale è naturalmente una donna, possibilmente giovane e bella. Ogni scrittore è un seduttore, è inutile negarlo. La parola, soprattutto, è il miglior strumento per la seduzione. Quello che uno vuol dire quando scrive è: “Io so cos’è la vita, ne ho assaggiato il sapore, ammetti che ho scritto quello che tu pensi e senti, sono sempre stato il tuo amico del cuore anche se tu non lo sapevi fino a oggi”. Il mio lettore ideale è quello che dice: “Amo questo scrittore, per me c’è un prima e un dopo averlo letto”.

A tua conoscenza Kundera e Grass hanno letto il tuo racconto “L’amante slovacca”?

Non credo. È possibile che uno di loro mi avrebbe querelato, cosa che avrebbe comportato la mia rovina personale e la mia consacrazione come scrittore.

Nell”ultimo racconto del volume, intitolato giustappunto “Il debutto”, tu stesso diventi il protagonista della vicenda. Che tipo di rapporto si crea per te tra l’io narratore e l’io protagonista?

Tutto ciò è molto sottile. Si possono fare lunghe disquisizioni in merito. L’arte letteraria è sempre un gioco con la verosimiglianza. Stupidamente vorremmo essere uno, ma la verità è che siamo molti. Noi scrittori siamo quelli che sfruttano questa capacità. Il rischio non è la schizofrenia, ma la “polifrenia”, come direbbe il mio maestro Elmar Salmann, monaco e teologo, uno degli uomini con più senso dell’umorismo che abbia mai conosciuto. La narrativa, d’altro canto, è un esercizio di sdoppiamento permanente. Il doppio è il grande tema della letteratura. Per questo, proprio per questo, funzionano i racconti del Debutto, così come il mio romanzo Le idee pure, di cui lo sdoppiamento è il tema. Tutti i personaggi sono ego immaginari e scrivere è un esperimento con l’io. Ho sempre sostenuto che scriviamo e leggiamo solo noi che ancora abbiamo interesse per noi stessi, noi che abbiamo risolto del tutto (per fortuna) la questione dell’identità.

A volte gli scrittori fanno esprimere all’io protagonista cose o pensieri che mai arriverebbero a dire come autori, per una serie di inibizioni o rimozioni. Come ti poni a questo riguardo?

Il vantaggio di scrivere romanzi è che uno può dire che quello che vi si racconta è finzione. Però niente è finzione o, meglio, tutto è finzione, anche quello che, non senza ingenuità, chiamiamo storia. Scrivere è, soprattutto, un fatto di audacia: azzardarsi a denudarsi, ma farlo tanto con impertinenza quanto con pudore. Noi romanzieri pratichiamo un verecondo striptease. Sì, i personaggi sono molto più liberi degli autori, in generale. Per questo, credo, c’è molta più verità nei romanzi che nei saggi.

In una recente intervista hai dichiarato che “solo ciò che è veramente personale è interessante, e solo ciò che è autenticamente personale può arrivare a essere, nel migliore dei casi, universale”. Cosa intendi di preciso che solo un’esperienza personale vissuta dall’autore – e non dunque le creazioni letterarie tout court – può assurgere a valore universale?

Fu Bolaño, se non ricordo male, a dichiarare in un’intervista che per essere scrittore non c’è bisogno di immaginazione, ma di buona memoria. È un’affermazione suggestiva, con la quale, tuttavia, sono d’accordo solo in parte: la memoria è un esercizio di immaginazione, per come la vedo io. Si deve scrivere solo di temi nei quali uno si gioca molto, tutto. Per essere viva, la scrittura deve essere pericolosa: lo scrittore sta ricomponendo col suo lavoro qualcosa che per lui è essenziale, qualcosa senza cui non può vivere. Se non è così, ti sei professionalizzato, nel senso peggiore del termine: fai “prodotti”, non “opere”; allora sei un “produttore” di finzioni, non un “creatore” che, bene o male, alimenta anime.

Molte tue pagine sono pervase da un forte erotismo analogo per certi aspetti a quello presente nell’opera dei mistici spagnoli, in primis San Juan de la Cruz. La cosa mi ha fatto davvero piacere perché sfata la convinzione generale che un religioso non possa trattare queste tematiche. La presenza di questo elemento ha una funzione all’interno del testo o è una scelta più squisitamente stilistica?

Parlare qui di San Juan de la Cruz mi fa arrossire. Nei miei libri c’è erotismo per la semplice ragione che sono un essere erotico. Lo siamo tutti, no? L’erotismo e il misticismo sono ciò che più mi interessa in assoluto. E le due cose sono molto più vicine di quanto di solito si pensi poiché nascono dalla ricerca dell’amore e dell’unità. In mezzo all’egoismo e al disamore imperanti, io voglio amore; in mezzo alle differenze e alle divisioni, voglio sentirmi un tutt’uno con gli uomini, con la natura, con Dio. Pensare che i chierici e i religiosi non scrivano di erotismo è disconoscere la storia della letteratura e, in particolare, della mistica. Eckhart, Taulero, Yunus Emré, santa Teresa…:poche pagine sono così erotiche come quelle che hanno scritto loro. È che a me piace parlare di tutto questo con umorismo. E sappiamo tutti che quando il sublime si sposa col ridicolo si produce un’esplosione.

Carlo Pulsoni, Terrorismo del rumore, L’Osservatore Romano, Domenica 16 Novembre 2014, pag. 4

 

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