Ecco un curriculum di tutto rispetto per una bibliotecaria/dirigente di biblioteca: Simonetta Buttò (Roma 1957). Dopo aver brillantemente conseguito la laurea in Letteratura italiana alla Sapienza di Roma ed essersi specializzata in Filologia moderna e in Codicologia, ha diretto la Biblioteca universitaria di Genova, la Biblioteca di storia moderna e contemporanea di Roma, la Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli per approdare ad un traguardo molto ambito: la direzione dell’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, con nomina del 2015.
Entrata per concorso nei ruoli bibliotecari nel 1985, nel 2009 ha vinto il concorso pubblico per titoli ed esami a soli due posti di dirigente di seconda fascia del Ministero per i beni e le attività culturali.
A partire dal 1998, è stata docente in diverse università italiane, fra cui L’Aquila, Pisa, Siena, Roma (Scuola di Specializzazione in Beni Archivistici e Librari della Sapienza); Scuola di Alta Formazione dell’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario del MiBACT, alla Scuola nazionale dell’Amministrazione, e alla Scuola del patrimonio.
Dirige la rivista «DigItalia: rivista del digitale nei beni culturali»; figura nel Comitato scientifico dei «Nuovi Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari» e in quello della collana “Pagine diverse” dell’editore Pacini di Pisa, oltre ad essere socio di importanti istituti culturali quali l’Istituto Nazionale di Studi Romani, il Centro Nazionale di Studi Leopardiani, ed è rappresentante del MiBACT in seno al Consiglio Direttivo dell’Accademia Lancisiana.
Non è da meno come studiosa: è infatti autrice di oltre cento pubblicazioni, fra cataloghi, monografie, articoli e saggi critici, volti all’approfondimento di tematiche bibliotecarie a largo spettro.
Nel 2018 è stata insignita del prestigioso Premio Giambattista Gifuni per la diffusione del libro e della lettura che, con gesto munifico e significativo, ha scelto di destinare alla “Biblioteca a porte aperte Annalisa Durante”, situata nel rione di Forcella a Napoli.
Come ho anticipato sei stata alla guida di importantissime istituzioni bibliotecarie italiane. Quando e come hai avvertito la tua inclinazione per il lavoro di biblioteca?
Quando mi sono laureata, nel 1980, lo sbocco “naturale” per chi come me aveva studiato lettere era l’insegnamento: come tanti altri, anche io facevo supplenze saltuarie, e mi sembrava del tutto normale, visto che mia madre insegnava al liceo. Di questa brevissima esperienza ricordo il piacere di guidare al dialogo ragazzi molto, forse troppo, vicini alla mia età, e la meraviglia di un preside per la buona riuscita dell’impresa. Però mi piaceva anche insegnare a giocare a tennis, soprattutto ai bambini, seguendo un metodo allora innovativo, lanciato dall’ARCI-UISP e basato sull’uso di palline di gommapiuma (avevamo organizzato un corso anche per le loro mamme, per sottrarle a una vita routinaria al servizio esclusivo della famiglia).
Avevo avuto la fortuna di incontrare Tullio de Mauro, durante il mio percorso di studi, e mi era ben nota la sua attenzione per il mondo della scuola: mi iscrissi ai “corsi abilitanti” per le scuole medie (materie letterarie) e per i licei (italiano e latino), più vicini agli insegnamenti di De Mauro, e li frequentai con piacere e profitto. Nel frattempo mi ero iscritta alla Scuola di perfezionamento in Filologia moderna dell’Università. Ma ero giovane, e attratta da ogni sembianza di futuro. Dopo uno stage alla redazione romana dell’“Ora” di Palermo e una più lunga collaborazione retribuita con l’Ufficio stampa del Comune di Roma, capii che il giornalismo non era fatto per me.
Invece, di lì a poco, il bando per il I Corso-Concorso della Scuola superiore della pubblica amministrazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la selezione di funzionari bibliotecari per il Ministero dei beni culturali e ambientali, nato da pochi anni, mi apparve subito come una grande opportunità e una sfida. Non sapevo niente di biblioteche, ma il concorso era orientato sulla cultura storica e letteraria e lasciava spazio anche per chi non fosse già inserito nel mondo delle biblioteche. Il concorso andò bene, e il corso alla Scuola superiore mi obbligò a fare i conti con la biblioteconomia, che studiai ex novo, con l’entusiasmo del neofita. Superato anche il corso, ormai entrata nei ruoli del Ministero, mi iscrissi alla Scuola speciale per archivisti e bibliotecari per essere all’altezza che il mio nuovo lavoro al Dipartimento manoscritti e rari della Biblioteca nazionale centrale di Roma richiedeva, in termini di conoscenze paleografiche e codicologiche.
L’aver coronato la tua laurea in Lettere con due rilevanti specializzazioni in un’epoca in cui il mestiere di bibliotecario non presumeva particolari requisiti, così come la tua attività svolta in numerosi atenei italiani, porta a chiederti: hai mai pensato di abbandonare il tuo ruolo per tentare l’avventura accademica?
Lavorare al Dipartimento manoscritti e rari della Biblioteca nazionale centrale di Roma mi piaceva molto, soprattutto perché mi metteva in contatto con il mondo della ricerca in ambito storico e filologico, che prediligevo. Vivevo però un conflitto in me stessa: da un lato l’orgoglio di fare parte di una professione che in quegli anni stava lanciando SBN, rilanciando gli studi di biblioteconomia moderna e aprendosi sempre più alla società civile, offrendo servizi informativi nuovi a tutti i cittadini; dall’altro la passione per la ricerca, con i suoi tempi lunghi e lenti, il bisogno di andare alle fonti, studiare le carte. Due attività spesso inconciliabili data l’organizzazione del lavoro in Biblioteca che prevedeva turni fissi e stabiliti nei diversi posti-funzione. La mancanza di spazio e tempo per studiare e fare ricerca mi pesava molto e mi provocava una buona dose di frustrazione. A lungo sono rimasta incastrata nel tentativo di organizzare al meglio le mie giornate per non rinunciare agli interessi di studio. Però non credo di aver mai pensato seriamente (sicuramente non con la determinazione che avrebbe richiesto!) di abbandonare il lavoro in biblioteca, nel quale anzi avevo l’ambizione di migliorare. Piuttosto, mi capita di avere sempre più spesso dei ripensamenti amari a posteriori, sempre in coincidenza con qualche disillusione o sulla spinta dell’irritazione dovuta all’impressione di un crescente rischio di emarginazione delle biblioteche nel “sistema” dei beni culturali in Italia, ferite – credo – inevitabili per chi lavora al servizio della pubblica amministrazione. Ma siamo nel campo dei rimpianti, che sono un’altra cosa.
L’ICCU, Istituto centrale del catalogo unico, come recita lo svolgimento dell’acronimo, è un organo statale, nato nel 1975 a seguito della costituzione del Ministero per i beni e le attività culturali, subentrando al Centro nazionale per il catalogo unico. Ha oggi un importante ruolo per la collaborazione tra le biblioteche di diversa titolarità, e per il coordinamento delle iniziative a favore della catalogazione partecipata, del Servizio Bibliotecario nazionale. Come puoi spiegare ai nostri lettori ruolo e servizi che oggi vengono emanati e svolti dall’ICCU?
Nato con l’obiettivo di superare i rischi di dispersione delle informazioni, data la disseminazione delle istituzioni culturali su tutto il territorio tipica del nostro Paese, oggi l’ICCU è una grande infrastruttura di servizi basata su un modello di cooperazione tra le biblioteche italiane in cui coesistono il decentramento amministrativo e funzionale e una struttura di gestione e di raccordo a livello centrale. Attualmente, le biblioteche che partecipano alla rete sono più di 6.500, fra da biblioteche statali, di enti locali, delle università, ecclesiastiche, scolastiche, di accademie e di istituzioni pubbliche e private, operanti nei più diversi settori disciplinari. La consistenza del catalogo collettivo supera i 18 milioni di titoli relativi alle diverse tipologie di materiale posseduto dalle biblioteche, per un ammontare di quasi 100 milioni di localizzazioni: il modello cooperativo su cui si basa non si limita alla sola funzione della catalogazione partecipata ma prevede anche un concreto insieme di azioni per l’accrescimento della rete e per l’evoluzione dei servizi bibliotecari.
L’ICCU oggi non è solo il collante di questa vasta comunità di istituzioni bibliotecarie, ma garantisce loro strumenti di lavoro, come linee guida, manuali, istruzioni e un costante aggiornamento sui principi, le normative e gli standard adottati a livello internazionale. Non da ultimo, l’Istituto rappresenta – per così dire – il portavoce delle biblioteche italiane in Europa e nel mondo, grazie alla sua presenza nel partenariato di numerosi progetti finanziati dall’UE e la sua partecipazione all’IFLA e a importanti associazioni internazionali.
Hai un’anzianità di servizio che ti permette di volgerti indietro per capire quali sono stati i grandi mutamenti nelle biblioteche dopo l’avvento dell’automazione. La rivista da te diretta, «DigItalia», ha festeggiato il traguardo trentennale dell’applicazione di tali tecnologie digitali al catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale. Sapresti spiegare come e se è stato superato il gap delle scelte altre a favore di un Opac finalmente nazionale? O ti sembra invece che siano ancora difficili certi passaggi per arrivare a una adesione sempre più partecipata?
Io credo che nei processi di lunga durata, o almeno pensati per essere tali, non ci sia tanto un prima e un dopo, quanto una “tenuta”. Il vero punto di forza di SBN, secondo me, consiste nella sua architettura, fatta di meccanismi tutti concatenati ma elastici, in grado da una parte di adattarsi alle scosse – provocate talvolta dall’interno della stessa comunità professionale che rappresenta – e dall’altra di aggiungere, all’estremità di un suo segmento, quel segmento nuovo che l’evoluzione tecnologica o i bisogni del pubblico richiedono a gran forza, arricchendolo senza minare la solidità dell’impianto. In altri termini, il superamento degli ostacoli è visibile nei fatti e nei numeri: all’interno della rete SBN lavora oltre la metà delle biblioteche italiane censite dall’ISTAT, sicuramente la più qualificata in termini di patrimonio e di servizi al pubblico, e ogni giorno riceviamo nuove adesioni.
Oggi nell’opinione comune ciò che non compare in SBN semplicemente non esiste, e questo vale per la grande maggioranza dei suoi utilizzatori (non per tutti: noi della vecchia guardia abbiamo ben chiaro il lavoro che resta ancora da fare per il completo recupero dei cataloghi tradizionali nel catalogo collettivo). Se un servizio pubblico si ritaglia presso la popolazione uno spazio logico così esclusivo, significa che può continuare a crescere, ed è quello che stiamo facendo proprio in questi mesi. È la nostra missione per il futuro.
A precederti nel ruolo di direttrice dell’ICCU molti anni fa ci fu la mitica conduzione di Angela Vinay (1922-1990), personalità di cui ti sei sempre interessata con preziosi scritti e alla quale si deve l’ingresso dell’automazione nelle biblioteche italiane. Che cosa è sostanzialmente cambiato da quegli anni nell’ICCU?
Mi verrebbe da rispondere: niente. Penso ai continui appelli di Angela Vinay per richiamare su SBN nascente l’attenzione dei decisori politici, l’insistenza sulla sua natura intrinsecamente interistituzionale, la richiesta di finanziamenti all’altezza dell’impresa, fino al celebre sfogo alla Conferenza del 1979 Per l’attuazione del Servizio Bibliotecario Nazionale: “Senza una gran boccata di ossigeno oggi c’è l’asfissia”. La stessa sorte, la stessa sensazione, tocca a noi. Ma in realtà ci sono almeno due elementi che differenziano significativamente i tempi della Vinay dal periodo in cui stiamo vivendo noi. Il primo è che, a distanza di quarant’anni, quella che all’epoca veniva additata come incapacità dei decisori politici di adottare un’ottica costruttiva di lunga durata, oggi non è più neanche oggetto di indignazione, e tanto meno di protesta.
La politica, così come buona parte delle nuove generazioni, ha scelto da tempo di vivere in un grande presente, grazie al quale l’azione e la riscossione del risultato, in termini di voti o di credibilità, si susseguono immediatamente. E pazienza se non c’è continuità e durata: se funziona oggi, adesso, va bene così.
L’altro elemento è il primato dell’economia. Da anni ormai le politiche pubbliche nel settore della cultura sono impegnate a valorizzare le discipline e le istituzioni in grado di produrre reddito. In linea con i tempi, tale reddito deve essere immediatamente riscuotibile e immediatamente calcolabile. Penso ad esempio alla martellante promozione delle cosiddette grandi mostre d’arte, che ha avuto il merito di mettere in fila davanti all’ingresso di musei pubblici e privati migliaia e migliaia di persone comuni, come non era mai avvenuto prima, ognuna delle quali munita di quel biglietto che finisce per rappresentare da solo la buona riuscita dell’attività culturale. Mentre noi tutti sappiamo che il vero risultato delle mostre d’arte sta nella loro capacità di portare significati e valori culturali in tutte le pieghe della società, i cui effetti non sono affatto immediati, ma sono profondi e durevoli, esattamente come quelli che le biblioteche e gli archivi, che per statuto non staccano un biglietto davanti agli ingressi, contribuiscono a diffondere nel pubblico, per la crescita del nostro paese in termini di competenze, consapevolezza, partecipazione attiva, sviluppo dello spirito critico, soprattutto fra i giovani. Comunicare la lunga durata di questo percorso di civiltà, e il valore, anche economico, della sua buona riuscita è praticamente impossibile oggi, per mancanza di interlocutori.
Quali sono ancora le criticità che impediscono una concreta collaborazione fra le biblioteche di differente emanazione? Come riuscite a conciliare, dall’osservatorio dell’ICCU le molte iniziative che oggi vengono non solo dagli enti locali, ma dal privato?
Più che di criticità parlerei di occasioni (talvolta mancate) e di scarsa comunicazione. Sul nostro territorio, che accoglie mille realtà differenti (proprio quella “disomogeneità del paesaggio bibliotecario italiano”, felice espressione che è stata il titolo di un bel saggio) non c’è ancora una piena consapevolezza della ricchezza del “fare insieme”. Però, almeno negli ultimi trenta anni, il “catalogo unico” (e quindi la catalogazione partecipata) è stato un formidabile strumento di aggregazione, e l’organizzazione delle biblioteche in Poli SBN, territoriali per la grande maggioranza, ha favorito l’incontro e lo ha reso nel tempo una consuetudine. Diciamo che SBN ha costituito un importante fattore di coesione per le biblioteche italiane. Sono però convinta che si debba oggi andare oltre e che i tempi siano maturi per “fare cultura insieme” in una logica di integrazione e di servizio, indipendentemente dalla appartenenza amministrativa. È proprio questa idea di sviluppo dei servizi per il futuro che è alla base del progetto “Sistema di ricerca integrato e Portale delle biblioteche e degli istituti culturali italiani” che ha recentemente preso avvio a cura dell’ICCU e che potrebbe rappresentare una spinta ulteriore per la realizzazione di progetti e iniziative culturali comuni alla vasta comunità interistituzionale delle biblioteche italiane. Il patrimonio di creatività, sia dei singoli istituti che della rete cooperativa, grazie a questo progetto, sarà reso molto più visibile attraverso un punto di accesso unico (il nuovo Portale) che consentirà di valorizzare tutta la produzione culturale dei territori – nella sua varietà disciplinare – a livello nazionale.
Con la realizzazione del Sistema di ricerca integrato, che consiste nel rendere interoperabili tutte le basi dati bibliografiche e documentarie gestite dall’ICCU, vogliamo facilitare gli utenti consentendo loro di ottenere dal Portale, che ne costituisce l’interfaccia pubblica, risposte esaurienti, provenienti da diverse basi dati, anche da quelle specialistiche come il censimento del libro italiano del XVI sec. o dei manoscritti posseduti dalle biblioteche italiane, oltre che dalle basi dati tematiche come quella sulla prima guerra mondiale. Contiamo così di offrire a tutti, in Italia e all’estero, un punto di riferimento innovativo ed efficace, tecnologicamente avanzato ma anche sostenibile, per conoscere, mettere in comune e utilizzare tutto ciò che è stato realizzato negli ultimi decenni dalle biblioteche e dagli istituti culturali italiani. Credo che funzionerà come stimolo per lavorare sempre di più insieme, senza steccati e senza disperdere preziose risorse ed energie.
Come vedi oggi il ruolo delle biblioteche dello Stato? Ti sembra che si sia veramente attuata quella collaborazione che portò in tempi lontani ai tanto auspicati sistemi bibliotecari?
Le biblioteche dello Stato, un tempo (ormai lontano) vero e proprio volano per la formazione della coscienza professionale dei bibliotecari italiani sono oggi – purtroppo – istituzioni totalmente depotenziate. Le nazionali centrali di Roma e di Firenze continuano a contribuire con coscienza, rigore e orgoglio allo sviluppo dei servizi bibliografici nazionali, ma alle loro spalle è stato completamente sgretolato il tessuto delle altre nazionali e delle altre biblioteche storiche, ormai da anni in buona parte declassate, mortificate, prive di autonomia, non solo amministrativa, che sarebbe già grave, ma anche tecnico-scientifica.
Le ultime riforme le hanno in alcuni casi letteralmente azzerate: rette da funzionari posti alle dipendenze di dirigenti di altri settori faticano ad affermare la loro identità, il loro ruolo e la loro funzione. E anche laddove è stata mantenuta la dignità di una funzione dirigenziale, la scarsa considerazione del ruolo che svolgono nell’ambito delle politiche culturali e sociali dei territori nei quali sviluppano le proprie azioni ne impediscono l’azione. Eppure ne avrebbero da dire (e da fare), in termini di risposta ai grandi temi che pervadono la società di oggi: nuove forme di povertà, flussi migratori, contrazione delle politiche di welfare culturale, ma anche in termini di contributo fattivo alla gestione della trasformazione della fruizione dei contenuti culturali, già in atto, e di lotta al digital divide, che rappresenta la nuova frontiera in tutte le società, anche le più evolute, del nostro tempo.
Il convegno annuale delle biblioteche che si tiene ogni anno alle Stelline di Milano, organizzato dall’Editrice Bibliografica, col patrocinio dell’Associazione Italiana delle Biblioteche (AIB), quest’anno sarà incentrato sulle biblioteche e lo sviluppo sostenibile. Potresti dirci che cosa in realtà s’intende per sviluppo sostenibile e se e come segnerà il futuro delle nostre biblioteche?
Sostenibilità rappresenta oggi la parola chiave di ogni forma di progettazione per il futuro, sia in ambito nazionale che internazionale. È un modo per dare un segnale, prima ancora che una risposta, a quanti nei decenni scorsi e soprattutto nel settore pubblico, hanno sviluppato idee innovative e costruito sistemi avanzati senza prevederne adeguatamente né la tenuta nel tempo, per esempio dal punto di vista dell’evoluzione tecnologica, né la necessaria dotazione finanziaria, come è accaduto frequentemente nelle università e in altri enti pubblici in occasione dell’utilizzo di fondi straordinari, per loro natura di durata limitata. In particolare, nell’ambito della progettazione competitiva mirata all’accesso ai finanziamenti dell’Unione Europea, quella sulla sostenibilità dei risultati è una voce che pesa molto, già da anni, sul giudizio complessivo, in grado di decidere le sorti di qualsiasi tipo di progetto, in tutti i campi disciplinari.
Le conseguenze di una scarsa attenzione alla sostenibilità sono visibili anche nel settore delle biblioteche: il proliferare di basi dati specialistiche, censimenti a carattere locale, teche digitali, spesso realizzati utilizzando software proprietari, senza alcuna attenzione per il dialogo con sistemi analoghi e per l’interoperabilità con i servizi nazionali, ne sono il segno tangibile. Quasi sempre, finiti i fondi del finanziamento straordinario, progetti anche di grande interesse e utilità per il mondo della ricerca sono annegati nel vasto mare del web, per mancanza di manutenzione, alimentazione, ulteriore sviluppo. Il tentativo di dare unitarietà e concretezza alle politiche culturali svolte in ambito locale o nelle singole università hanno spesso rappresentato una voce di costo non trascurabile a livello nazionale, per la necessità di recuperare a posteriori dati, risorse digitali, sistemi informativi che, nati con finanziamenti pubblici, avrebbero dovuto opportunamente diventare un servizio a disposizione di tutta la comunità. Questo “recupero del sommerso” rappresenta – nel campo delle biblioteche – una delle linee di attività più onerose per l’ICCU, che nel frattempo ha cercato di indirizzare le politiche pubbliche verso l’open source e l’interoperabilità dei prodotti tecnologici realizzati con finanziamenti pubblici, per garantirne la sostenibilità e la durata nel tempo. Non è un caso che SBN, unica base dati del settore dei beni culturali, sia stato inserito dall’AGID nel ristretto numero delle basi dati di interesse nazionale rilevanti per lo svolgimento delle funzioni istituzionali delle Pubbliche amministrazioni a livello nazionale e internazionale.
La mancata uniformità fra le biblioteche ha dato vita anche a ruoli bibliotecari molto differenti fra di loro. Come e a chi ti indirizzeresti per evitare tale difformità che impedisce pure la mobilità?
Quella della varietà delle competenze presenti nella definizione stessa della professione bibliotecaria, così come si è sviluppata negli ultimi decenni, ci impone una seria presa di coscienza alla quale non dobbiamo sottrarci. Il bibliotecario di oggi, a seconda del punto di vista dal quale lo osserviamo, può assomigliare a uno studioso ottocentesco, a un assistente sociale, a un esperto di reti e di sistemi informatici, talvolta perfino a un mediatore culturale… Non possiamo che prendere atto che la vecchia divisione adottata, per esempio, dall’allora Scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell’Università di Roma, fra bibliotecario conservatore e bibliotecario moderno, si dimostra oggi largamente insufficiente a tenere insieme le mille facce della nostra professione. È anche vero che la “difformità” esistente non può essere negata, perché la società intera ne ha già fatto ampia esperienza. Non a caso recentemente l’Unione Europea ha premiato un progetto, presentato dall’Università di Bari come capofila di 10 partner europei nell’ambito del Programma Erasmus+, il cui fine è produrre e condividere con gli altri paesi i contenuti di un curriculum europeo del bibliotecario del futuro. Seguo da vicino questo progetto e devo dire che non è per niente facile piantare i paletti giusti su questo vasto territorio. Forse una possibile soluzione potrebbe essere quella di considerare la varietà come una nuova opportunità, per esempio per inserire la figura del bibliotecario all’interno di contesti lavorativi del tutto nuovi, lontani dal tradizionale impiego in biblioteca.
A tuo parere, per essere entrata anche nel novero di chi insegna, quali sono i programmi che meglio si attagliano alla formazione dei bibliotecari e al loro aggiornamento? E come vedi i dottorati in Beni librari e archivistici o con altre simili denominazioni?
Inevitabilmente i programmi universitari dovranno rispecchiare la varietà delle discipline e delle competenze ormai ricomprese nella professione del bibliotecario di oggi, e dunque si dovrà ampliare l’offerta formativa (anche se sono consapevole che non è semplice per le Facoltà), inserendo nei corsi di laurea materie che aiutino gli aspiranti bibliotecari ad acquisire – in modo strutturato – quelle competenze, per esempio sul tema del workflow necessario per la corretta gestione e conservazione a lungo termine delle risorse digitali, che al momento sono molto richieste anche in ambito internazionale, ma che ancora sono coltivate in proprio, al di fuori delle università. In questa prospettiva, non posso che apprezzare i dottorati in scienze archivistiche e librarie, che rappresentano uno degli strumenti migliori per dare voce – e maggiore stabilità disciplinare – ai nuovi interessi e alle nuove passioni di questa nostra era.
Tu che hai tanto prodotto nel settore dei cataloghi, benemerito settore da sempre collaudato soprattutto da bibliotecari, come vedi oggi il possibile studio e la ricerca svolti entro le mura di una biblioteca? Pensi che possa continuare a essere una risorsa all’interno delle nostre istituzioni bibliotecarie?
Evidentemente, e la mia storia forse lo dimostra, lo studio e la ricerca sono prerogative delle nostre università, in primo luogo. Ma un settore come quello delle biblioteche, intendo di tutte, indipendentemente dal tipo e dalla funzione, rappresenta il territorio di confine più prossimo a quello degli studi, non solo perché forniscono i supporti ancora maggiormente usati per la ricerca che sono i libri e i documenti, ma perché per loro natura le biblioteche sono agganciate al progresso della società, e tale progresso si costruisce con lo studio e la ricerca. Diceva Francesco Barberi, alla metà degli anni Sessanta del Novecento, che la sorte stessa delle biblioteche e dei bibliotecari è affidata tanto allo studio, all’approfondimento scientifico, alle conoscenze specialistiche, quanto all’impegno quotidiano nella pratica biblioteconomia e nella gestione degli istituti perché a ben vedere si tratta di due aspetti della medesima attività, che si integrano e si soccorrono a vicenda.
Ancora oggi, il futuro al quale io stessa penso per lo sviluppo delle biblioteche e degli istituti culturali italiani, e per il rilancio del loro ruolo di primaria importanza per la crescita consapevole della cultura e delle competenze nella nostra società, porta comunque e sempre l’impronta originaria di un sistema basato sull’analisi attenta e interdisciplinare dei fenomeni sociali in atto e sulla costruzione di strumenti avanzati per la loro interpretazione, e dunque fondato sui due pilastri dello studio e della ricerca che hanno sostenuto la storia delle nostre biblioteche negli ultimi 160 anni.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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