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Maria Gioia Tavoni intervista Giovanni Turria

Sebbene il vicentino Giovanni Turria (1970), abbia insegnato a Urbino, in quella prestigiosa Accademia di Belle Arti da cui sono sortiti tanti notevoli artisti, non si è formato nella cittadina marchigiana con grande storia anche grafica sulle spalle, ma a Venezia e Firenze. Non Urbino, dunque, ma Firenze è la città in cui è avvenuta la formazione di Turria presso il Bisonte, una Scuola di arte grafica che in parallelo ha saputo e sa ancora fare delle tecniche di incisione il vero corollario dell’apprendimento artistico artigianale. Nata nel 1959 ad opera di Maria Luigia Guaita, donna coraggiosa e di alti propositi, la Scuola è ancora ospitata nelle antiche e suggestive scuderie di Palazzo Serristori, a San Niccolò, quartiere oltrarno che divenne meta, come in parte lo è ancora, del turismo colto, impegnato nella ricerca di vera arte.

Turria si proclama un incisore puro: ponendosi, infatti, in controtendenza con la maggior parte degli artisti, impegnati in molteplici tecniche espressive, egli si dedica all’unica sua qualificata competenza. Difficile tuttavia cercare di imbrigliare la fisionomia complessa di Turria, che ama definirsi una persona che «si occupa di stampe, edizioni d’arte, in veste di autore, incisore, tipografo e docente». Per conoscerlo più a fondo è bene andare a Vicenza, per vedere il suo museo di macchine di stampa, presenti nelle loro più variegate forme, qui raccolte grazie alla grande passione che ha sempre animato Turria, quella collezionistica, definita da Andrea Emiliani con sole tre parole nel titolo di un suo pregnante saggio: «passatempo voluttà piacere». Attualmente Turria insegna nella prestigiosa Accademia di Belle Arti di Venezia mentre vive a Vicenza. 

Quasi tutti gli artisti da me intervistati provengono dalla Scuola urbinate, mentre meno so di coloro che sono cresciuti altrove, a Venezia e Oltrarno come nel tuo caso. Si conoscono quali sono stati e quali sono i grandi artisti che a Firenze hanno trovato la strada della notorietà, ma non si parla, in genere, di come sia avvenuta la loro formazione. Sapresti dirci che cosa accomuna queste grandi scuole e quali siano invece le differenze tra di loro?

Se ancora vogliamo chiamarle ‘scuole’, e tutto sommato si sente questo mood che ancora impregna queste due situazioni geografiche, si tratta di aderenza a espressioni grafiche date dai tempi didattici di ciascuna di queste due città.

La formazione in Accademia è molto classica e tradizionale e i maestri fondamentali, che sono stati per me maestri a ‘salti’ nel tempo, nel senso che ho preso da loro certe ispirazioni che mi sono servite e altre le ho lasciate alle spalle, a Firenze ho studiato Viviani, Margheri e mi sono formato al Bisonte con Domenico Viggiano, e da un punto di vista etico, con Maria Luigia Guaita Vallecchi.

Firenze vive della linea spezzata, che si fa largo con morsure forti e ben definite sulla lastra. È sintesi in severità. Si sente il vento nelle incisioni fiorentine. L’immagine viene creata in orizzontale. La forza della tradizione vive in esse.

Venezia è la nebbia, una certa tendenza a mischiare le tecniche dell’acquaforte con l’acquatinta. È una incisione più in superficie. Il segno evapora e svanisce. Emerge una essenzialità grafica. L’immagine si crea in verticale. I maestri idealmente seguiti sono stati Magnolato, Battistoni, e Mario Guadagnino, e l’animatore culturale Giorgio Trentin. A Venezia si facevano poche edizioni d’arte, c’era mancanza di progettualità nell’editare la lastra e si stampavano quelle poche copie dell’incisione per l’esposizione e qualche piccola vendita.

Un po’ di Urbino c’è stato anche a Firenze, con Renato Bruscaglia, e un po’ di Urbino c’è stato pure a Venezia con Arnaldo Battistoni.

 

 Si può parlare per i tuoi esordi di un impegno nel solco di una private press? Come tu stesso hai avuto modo di asserire, sei non solo un artista, ma pure un printer. Oltre a governare, in tutte le sue specificità, l’acquaforte, il bulino, la xilografia sai infatti utilizzare la leva del torchio di stampa manuale, oltre quello a stella per la calcografia. Il che significa governare tutto il prodotto artistico che si vuole far nascere. Date le tue molte competenze verso quali altri traguardi vuoi indirizzare la tua importante esperienza?

È con Alessandro Zanella nel 2000 che vengo travolto dalla passione per la tipografia. Grazie alla sua frequentazione e alle collaborazioni mi appassiono al linguaggio iniziando ad acquistare macchine imponenti e poco facili da usare.

Lo snodo principale per me era vestire i contenuti della grafica e beneficiare dell’edizione d’arte come proposta alternativa all’esposizione, ma la gioia più grande come printer è quella di stampare poesia.

Questa esperienza è stata fondamentale poi per indirizzare la mia didattica, grazie all’esperienza urbinate, alla grande amicizia con Gastone Mosci e alla didattica condivisa con Gianluca Murasecchi.

I traguardi sono quelli di riportare in un circuito di prestigio l’oggetto editoriale tipografico-impressorio, in un luogo di incontro tra immagine e parola.

Non solo tu, ma altri artisti nella prosecuzione del loro lavoro hanno dimostrato propensione verso il collezionismo, soprattutto di macchine di stampa. Quando con Barbara Sghiavetta visitammo il tuo atelier, o meglio, la tua “bottega vicentina” – e sono passati molti anni – ci meravigliammo dello spazio molto grande nel quale già allora vi erano macchine di stampa le più varie. Quale il proposito che ti ha guidato nella particolare collezione, ora a te più vicina? E quali i progetti per il suo futuro?

Assommare tutti quei macchinari per me ha significato in primis salvarli: quando nel delicato ma anche turbolento momento di passaggio dalla stampa delle piccole tipografie a quella delle imprese industriali venivano dismesse e mandate alla distruzione intere aziende che hanno contenuto la memoria di generazioni di produttori di tipografia, lì occorreva compiere un gesto salvifico, che venisse buono anche per me e i miei collaboratori: prendere quelle macchine, portarle in salvo e rimetterle in funzione, grazie a personale specializzatissimo ma rarissimo che ancora sa come funzionano e come si aggiustano. È un mondo di ossessioni: acquirenti che compiono viaggi in tutta Italia e danno la caccia a questo mondo scomparso e lo prendono prima che cada nel baratro e dall’altra i collezionisti di questi oggetti ‘ingombranti’, di caratteri mobili e di altri strumenti da tipoimpressione, che giocano una partita in cui per alcuni lo scopo è avere delle strutture solo da esporre, che diventano musei addormentati ma inutili, solo esteticamente evocatori di quel nobile passato editoriale, e per altri invece è rigenerarle e rimetterle alla vita. Io appartengo a questa ultima fazione. E ho spesso trasmesso questo morbo ad altri, in primis a molti miei allievi che ora seguono questa strada complessa ma di grande soddisfazione.

I progetti per il futuro sono quelli di continuare a valorizzare questi strumenti, impiegandoli per edizioni d’arte e piccole tirature per coloro che sanno sentire l’odore dell’inchiostro e amare la carta vera tra le mani, che sanno vedere oltre l’incisione in senso tradizionale.

Come pensi, trovandoti a Venezia, di indirizzare le tue scelte grafiche armonizzandole con l’insegnamento?

Venezia è come le sue barene, un territorio di faglia, di slittamenti e di passaggi, è un po’ infida e molto affascinante. Cerco di addomesticare gli studenti alla fatica dell’incisione, far comprendere loro che il lavoro può essere anche profondo e lungo, che va compiuto attraverso tutti i procedimenti della tradizione, che vanno meditati a lungo prima di abbandonarli o di disertarli, perché solo dopo si può compiere un balzo sulle ali della propria fantasia… è un compito arduo, perché Venezia è fluida. Le mie scelte grafiche sono in me, in questo momento, come aspettando di comprendere come questo passaggio alla laguna mi muterà: se sarà un ritorno a casa, ora che sono diverso, o se sarà come partire come Marco Polo, per altri paesi immaginativi che ancora non so.

 

 

 

L'autore

Maria Gioia Tavoni
Maria Gioia Tavoni
M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it