Interventi

Tutto è permesso e nulla conta. Su Philip Roth (19 marzo 1933 – 22 maggio 2020)

1. Il giavellotto

Perché leggiamo un romanzo? Per imparare, per pensare, per divertirci, per smettere di pensare? Che cosa chiediamo a un romanzo? La verità sul mondo e sugli uomini? Di farci vedere quello che non conosciamo? Qualche ora di piacere? Forse tutte queste cose insieme, ma io credo che molte persone cerchino nei romanzi soprattutto un insieme di corrispondenze con quello che è accaduto o che potrebbe accadere nella loro vita e in particolare con quello che di volta in volta considerano più importante. O almeno è questo che cerco io.

Penso di aver letto tutti i romanzi di Philip Roth, ma c’è un passo che mi è rimasto nella memoria più di ogni altra cosa che ha scritto. Sono le pagine finali del suo ultimo libro, Nemesi (2010), quando il narratore va a trovare Mr Cantor, l’insegnante di educazione fisica colpito come tantissimi altri dall’epidemia di poliomielite nell’estate del 1944 e la cui vita è stata distrutta dalla malattia. Cantor non è un uomo brillante, non è un eroe. Eppure, quando aveva ventitré anni, per il narratore e per tutti gli altri studenti era «l’autorità più esemplare e riverita», «un giovane di salde convinzioni, accomodante, cortese, equanime, premuroso, equilibrato, gentile, robusto, muscoloso… un compagno e insieme un leader»; una figura che nella memoria diventa gloriosa.

L’ultima scena del romanzo è il ricordo di una lezione di ginnastica in cui l’istruttore mostra come si lancia il giavellotto:

Quel pomeriggio Mr Cantor lanciò il giavellotto diverse volte, e ogni lancio era fluido e potente, ogni lancio accompagnato da quel risonante miscuglio di ululato e grugnito, e ognuno, con nostro gran diletto, atterrava alcuni metri più lontano del precedente. Mentre correva con il giavellotto in alto, mentre allungava il braccio ben dietro il corpo, mentre lo riportava in avanti per rilasciare il giavellotto in alto sopra la spalla – e poi lo rilasciava come un’esplosione –, ci sembrava invincibile.

Ci ho messo un po’ a capire perché questa scena mi ha colpito così tanto. Poco tempo fa ho ritrovato delle foto di mio padre, morto quando io avevo un anno e lui ne aveva trentadue. E in tutte quelle foto – da solo o con mia madre – sembra davvero, come Cantor, «un giovane di salde convinzioni, accomodante, cortese, equanime, premuroso, equilibrato, gentile, robusto, muscoloso». Ed è così che lo descrivono le persone che lo hanno conosciuto. Ogni volta che penso a mio padre credo quindi di provare il sentimento che Roth sta descrivendo alla fine di Nemesi: che alcune cose – come il gesto di lanciare il giavellotto, come l’esistenza piena e florida di un giovane ginnasta – per un istante possono sembrare eterne. E che Cantor, come mio padre, doveva essersi sentito proprio come lo vedevano i suoi allievi: invincibile. 

2. Riesci a immaginarla, la vecchiaia?

Da molto tempo volevo scrivere su Philip Roth, ma come spesso capita la spinta decisiva è venuta quasi per caso da alcune pagine di Martin Amis su un altro libro di Roth che ho amato molto, L’animale morente, la storia di un vecchio professore (Kepesh) e del suo amore per una giovane studentessa (Consuelo). Secondo Amis (Roth il vecchio: un’investigazione morale [2001], in L’attrito del tempo, Torino, Einaudi, 2019, pp. 321-325), Roth non fornisce al personaggio di Kepesh «nessuna lucidità morale», ma solo la capacità di raziocinio e la sofferenza. L’unica conseguenza possibile dell’amore per una studentessa è quindi «un tormento che non conosce sosta», perché Consuelo «non è in grado di rendere felice un uomo vecchio», ma «è in grado di rendere molto vecchio un uomo felice, conferendogli un’orribile sensazione di debolezza e di disperata fragilità, come in un brutto sogno».

Tutto questo è abbastanza evidente per chi ha letto il romanzo, ma Amis si pone un problema morale e pensa che se il protagonista fosse stato un artista di primo piano e nel pieno del vigore molti lettori avrebbero storto il naso di fronte alle sue perversioni, al totale disinteresse per l’asimmetria di genere, alla confusione filiale, all’incapacità di sentirsi in colpa. E invece Kepesh è «un piazzista culturale tra i tanti», che subito dopo l’esame si ritiene libero di sedurre le studentesse «agendo in chiara e reiterata violazione dell’autorità e della fiducia». Insomma, pur ammettendo «che Roth può essere in sintonia con Kepesh» e che forse «la vecchiaia e la morte sono faccende talmente disperate da giustificare ogni genere di gratificazione che si riesce a trovare», Amis trova nell’Animale morente una lettura moralistica. E conclude così:

“Riesci a immaginarla, la vecchiaia? Naturalmente no”. Uno degli eterni limiti della letteratura è che non riesce a prepararci a ciò che non abbiamo ancora vissuto. Le pagine migliori di ‘L’animale morente’ riescono nell’impresa, e io continuerò a fare affidamento sulla miracolosa energia di Roth. A un’illuminazione così potente si può rispondere solo in modo ambiguo, con qualcosa tipo: No, ma grazie lo stesso.

Lo direi diversamente: i grandi capolavori della letteratura a volte possono prepararci a ciò che non abbiamo ancora vissuto. A volte ci preparano invece a quello che abbiamo già vissuto. E ancora più spesso a quello che non vivremo mai. Ma nel discorso di Amis c’è un’idea che non riesco a capire o che forse, semplicemente, istintivamente non condivido: come si risponde a un’illuminazione così potente (come quella dell’Animale morente, o dei Fratelli Karamazov)? Possiamo rispondere: no, grazie lo stesso? Ma soprattutto: era questa la risposta che Roth si sarebbe aspettato dai suoi lettori? 

3. Lo scrittore e il mondo

Leggendo le interviste sembrerebbe che Roth non fosse interessato a cambiare né il mondo né le persone (alcune sono raccolte in Why write? del 2017, tradotto in italiano col titolo Perché scrivere. Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013, Torino, Einaudi, 2018; tutte le citazioni sono tratte da questa edizione). Nel 1984, quando gli chiedono a che cosa serve la letteratura e se in America non si sente impotente come scrittore, risponde (p. 181):

Non credo che, nella società in cui vivo, i romanzi provochino grandi cambiamenti in nessuno, a parte una manciata di scrittori i cui romanzi sono ovviamente influenzati dai romanzi di altri romanzieri. Non mi sembra che ai normali lettori accada niente di simile, né mi aspetterei che accadesse.

E allora a che cosa serve scrivere, a cosa serve leggere (pp. 181-182)?

Per il normale lettore? I romanzi danno ai lettori qualcosa da leggere. Al più, gli scrittori cambiano il modo di leggere dei lettori. Questa mi sembra l’unica aspettativa realistica.

Per Roth non è tanto importante che la narrativa cambi o non cambi le cose. E soprattutto lui non vuole che lo faccia, ma è interessante che le immagini utilizzate rimandino al sesso e al potere (p. 182):

Quello che voglio è possedere (“to posses”) i miei lettori mentre stanno leggendo un mio libro – e se ci riesco, possederli come non li possiedono altri scrittori. Poi lasciarli ritornare (“Then let them return”), uguali a com’erano prima, a un mondo dove tutti gli altri cercano di cambiarli, convincerli, circuirli e controllarli.

Insomma, la lettura è come una scopata indimenticabile dopo la quale ritorniamo nel mondo identici a prima. Perché secondo Roth (p. 182):

I lettori migliori si rivolgono alla narrativa per trovare scampo da tutto quel rumore, per lasciar vagare a briglia sciolta la loro coscienza, che quanto al resto viene condizionata e assediata da tutto ciò che non è narrativa.

Quindi non ritiene di aver influenzato la cultura e non lo rimpiange, perché «in una gigantesca società consumistica che richiede un’assoluta libertà d’espressione, la cultura è onnivora» (p. 179). E gli sta bene che la cultura sia ignorata, a differenza di quanto accade in Unione Sovietica (siamo nel 1984), poiché dopo essere stato in Cecoslovacchia si è reso conto di non voler lavorare in una società dove «niente è permesso e tutto conta». E descrive allora il compito degli scrittori come lui (p. 180):

Rendere giustizia a una condizione spirituale che non è smaccatamente scioccante e mostruosamente orribile, che non suscita compassione universale né compare sul grande palcoscenico della storia, o sulla scala macroscopica  delle catastrofi del ventesimo secolo… ebbene, è questo il compito toccato in sorte a coloro che scrivono dove tutto è permesso e niente conta.

È questo, credo, il punto. Roth, ovviamente, ha delle idee: pensa ad esempio che nel mondo in cui vive, l’America di Reagan, sia un bene che tutto sia permesso, ma sa anche che se tutto è permesso niente conta. Ma la contraddizione è palese e l’intervista non riesce a farla esplodere: se nel mondo di Roth – che è un mondo molto simile al nostro – tutto è permesso, ci sono anche delle forze che cercano di cambiarci, convincerci, circuirci e controllarci.

E c’è un’altra contraddizione. Roth aggiunge infatti una considerazione che all’inizio mi ha sorpreso (p. 182):

Leggere romanzi è un piacere profondo e singolare, un’attività umana avvincente e misteriosa che non richiede maggiori giustificazioni morali o politiche di quante ne richieda il sesso.

Che cosa vuol dire? Che il sesso non richiede giustificazioni morali o politiche e che quindi non le implica neanche la letteratura? O che leggere pretende le stesse giustificazioni del sesso? In altre parole: il sesso e la letteratura sono o non sono delle cose serie?

4. Sesso e potere

Tra i molti passi che parlano di sesso ce ne sono due particolarmente interessanti. In uno scritto del 1974 (Immaginare gli ebrei) Roth sostiene che la ragione del successo del Lamento di Portnoy, uscito nel 1969, sarebbe lo scompiglio del 1968, dopo un decennio di «blasfema messa in discussione dell’autorità e dalla perdita di fiducia nell’ordine pubblico» (p. 90). Molti lettori (specie la classe media) scoprivano finalmente di poter tollerare persino un libro come quello, che parlava «dell’autorità famigliare con comica impertinenza e descrivesse il sesso come il lato farsesco della vita di cittadino apparentemente rispettabile» (p. 90).

L’altra ragione è che il protagonista (come l’autore) era ebreo. Il pubblico, secondo Roth, era colpito dal fatto che neanche un ebreo, che avrebbe dovuto sostenere la moderazione, riuscisse a tenere a freno «le proprie fantasie aggressive e i propri violenti impulsi antisociali». Insomma (pp. 92-93):

Per molti dev’essere stata una specie di rivelazione sentire proprio un ebreo […] ammettere in corsivo e a lettere capitali che il suo desiderio segreto non era tenere duro e cercare di essere migliore ma lasciarsi andare ed essere cattivo – o quantomeno peggiore.

È una conferma di quello che dicevo all’inizio: il pubblico, secondo Roth, nei suoi libri cerca qualcosa di sé, qualcosa che è accaduto e sta accadendo anche a sé. E il sesso non è la cosa più importante: a Roth interessano altre cose (e dovrebbero interessare ai suoi lettori?), come l’autorità, la famiglia, la società, il potere.

Quando nello stesso anno il critico italiano Walter Mauro (per un famoso libro di interviste su Gli scrittori e il potere) gli chiede se pensa di aver dissacrato la pornografia nel Lamento di Portnoy, Roth giustamente risponde di no, non l’ha fatto, ma crede di aver piuttosto asportato dal suo contesto (p. 117):

l’ossessione per il corpo come marchingegno o trastullo erotico – con orifizi, secrezioni, tumescenze, sfregamenti, emissioni e tutte le astrusità della tettonica sessuale – per trasportarla in un banalissimo ambiente famigliare dove le questioni del potere e della soggezione, tra le altre cose, possono essere viste nella loro più generale valenza quotidiana invece che attraverso le lenti ristrette della pornografia.

Ci sta quindi dicendo che ridurre un romanzo come il Lamento di Portnoy al sesso o alla pornografia – come hanno fatto in molti – è un modo per anestetizzarlo, per ridurne la portata. E infatti Roth ritiene di aver dissacrato la pornografia solo in un senso, di aver cioè profanato «ciò che la pornografia, nella sua esclusività e ossessività, ha in effetti innalzato al rango di una religione totalizzante, le cui solenni cerimonie celebra con rituale sacralità: la religione dello Scopanesimo […]», una religione che in quanto tale concede pochissimo spazio «all’espressività e alle idiosincrasie individuali, agli errori o ai passi falsi umani». E sintetizza l’elemento comico del Lamento come i «passi falsi compiuti da un aspirante sacerdote che cerca disperatamente di arrivare all’altare per togliersi i vestiti» (p. 116).

Poi una domanda se la fa da solo: «Lei vuole sapere se ho una conoscenza di prima mano del “sesso come strumento di potere e di soggezione”?». E la risposta è sincera e senza pudore: «Come potrei non averla? Sono dotato anch’io di desideri, organi genitali, immaginazione, impulsi, inibizioni, fragilità, volontà e coscienza» (pp. 116-117).

Il sesso, tramite la pornografia, può quindi diventare una religione e in quanto tale cancellare l’individuo, l’errore, i passi falsi. Ciò tutto quello che davvero gli interessa, come gli interessa farci sapere che secondo lui il sesso non può non essere anche uno strumento di potere. Se tutto è permesso – persino rappresentare liberamente il sesso attraverso la pornografia – che cosa conta? Solo l’immaginazione e gli organi genitali, gli impulsi e le inibizioni, il desiderio e la volontà?

5. La prospettiva morale

Ma allora: ha senso chiedersi se nei romanzi di Roth c’è o non c’è una “morale”? Dobbiamo leggerli per puro divertimento o per conoscere qualcosa di noi stessi? C’è qualcosa che impariamo quando torniamo liberi dopo esserci fatti possedere? Dai passi che abbiamo letto si direbbe di no. Eppure, quando gli chiedono (sempre nel 1984) se si sente più libero parlando in terza persona di Zuckerman, il protagonista di molti romanzi e suo alter ego, in Roth dice di usare la terza persona per introdurre una nota seria che striderebbe se venisse dal personaggio. E la spiegazione è molto interessante (p. 177):

A determinare la prospettiva morale di un lettore è il passaggio da una voce all’altra nella stessa narrazione. È quello che facciamo tutti quando in una normale conversazione utilizziamo il pronome indefinito parlando di noi stessi. È un modo per allentare la relazione fra quello che si sta dicendo e il soggetto che lo dice.

Quindi nel romanzo la morale c’è, ma è dalla parte del lettore. È il lettore che deve trarla dalla narrazione. Non so se Roth volesse alludere alla polifonia di Bachtin, cioè all’idea che il romanzo (di Dostoevskij, ma la teoria è facilmente generalizzabile) non sia monologico ma dialogico. Però questa frase mi ha fatto ripensare a quella pagina di Martin Amis, secondo cui nell’Animale morente ci sarebbe una lettura moralistica e la prova starebbe nell’appartenere il libro alla trilogia di Kepesh (assieme al Professore di desiderio e al Seno) e non alla saga di Zuckerman: «se Roth fosse stato davvero in sintonia con David Kepesh, l’avrebbe chiamato Nathan Zuckerman» (p. 325).

Ora, chiedersi se Roth fosse o meno in sintonia con Kepesh o con Zuckerman è in fondo molto ingenuo, anche perché Roth esclude categoricamente ogni tipo di sovrapposizione automatica. Quando gli chiedono che rapporto c’è tra la morte dei suoi genitori e quella dei genitori di Zuckerman, per esempio, risponde così (p. 161):

Il colpo terribile rappresentato dalla morte di un genitore è qualcosa di cui ho cominciato a scrivere molto prima che un mio genitore morisse. Spesso i romanzieri sono interessati a quel che non è accaduto tanto quanto lo sono a quel che è accaduto.

E continua notando come alcuni scambino per nuda autobiografia quello che è finta, ipotetica o spudoratamente esagerata autobiografia. In generale, direi, sul rapporto tra lo scrittore e le sue maschere Roth ha le idee molto chiare (p. 160):

La letteratura non è un concorso di bellezza morale. La sua forza dipende dall’autorevolezza e dall’audacia con cui la personificazione viene interpretata; quel che conta è se è credibile. La domanda da porsi riguardo allo scrittore non è “Perché si comporta così male?” ma “Cosa ci guadagna indossando quella maschera?”.

Eppure, Amis ci dà uno spunto notevole alla luce del quale possiamo forse leggere in modo diverso le parole di Roth sul passaggio da una voce all’altra che determina la prospettiva morale. Se infatti la narrazione che dobbiamo tenere presente non è solo quella del singolo romanzo, ma – come suggerisce Amis – quella del complesso delle opere di Roth, una narrazione che tiene conto del dialogo tra i vari alter ego dell’autore, forse ci stiamo avvicinando a capire che cosa intende Roth quando allude alla prospettiva morale del lettore.

La domanda giusta non è quindi neanche “perché Kepesh si comporta così male”? Ma non mi sembrerebbe strano se Roth avesse creato il personaggio per farci guardare un altro pezzo di realtà: quello in cui, come in un brutto sogno, assistiamo alla metamorfosi di un uomo felice in un uomo molto vecchio, e in cui diventiamo spettatori di «un’orribile sensazione di debolezza e di disperata fragilità». Ed è lo scrittore a dirci che il passaggio da una voce all’altra determina nel lettore una prospettiva morale. 

6. Nemesi

Nemesi non mi è rimasto nella memoria perché è l’ultimo libro di Roth e nemmeno perché parla di una terribile epidemia, ma perché mi ha fatto vedere qualcosa che non sapevo su di me e sul mio passato. E anche perché adesso so ancora meglio cos’è che non dovrei fare, per esempio non compiere gli stessi errori di mio padre. Lo farò lo stesso, probabilmente. Perché non tutti rispondiamo nello stesso modo a una illuminazione, per quanto sia potente. Non è vero che la risposta è ambigua e che deve essere necessariamente: “no, ma grazie”. Alcuni – di fronte alla visione della cattiveria, della perversione, della debolezza, della fragilità, della dissipazione – semplicemente non avranno una risposta o forse, ritornati nel mondo, si accorgeranno che la risposta che hanno dato è stata: grazie, .

L'autore

Marco Grimaldi
Marco Grimaldi
Marco Grimaldi (Napoli, 1979) si è laureato all’Università Federico II, è stato borsista dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, ha conseguito a Siena il titolo di dottore di ricerca in Filologia romanza e ha lavorato all’Université Paul-Valéry di Montpellier e all’Università degli Studi di Trento. È attualmente ricercatore e professore aggregato di Filologia della letteratura italiana alla Sapienza, Università di Roma. Ha diretto l’unità romana del progetto FIRB 2013 L’Italia dei trovatori: repertorio informatizzato delle poesie occitane relative alla storia d’Italia (secc. XII-XIV). Si occupa prevalentemente di poesia italiana e occitana medievale. Oltre a numerosi articoli su alcune delle principali riviste internazionali di filologia e letteratura italiana e romanza, ha pubblicato un libro sui trovatori (Allegoria in versi. Un’idea della poesia dei trovatori, Bologna, il Mulino, 2012), un commento alle Rime di Dante (Le Rime della ‘Vita nuova’ e altre Rime del tempo della ‘Vita nuova’, Roma, Salerno, 2015; Le Rime della maturità e dell’esilio, 2019) e un saggio divulgativo su Dante (Dante, nostro contemporaneo. Perché leggiamo ancora la ‘Commedia’, Roma, Castelvecchi, 2017). È membro del comitato scientifico della «Rivista di studi danteschi». Il suo blog è www.marcogrimaldi.com.