Gli errori sono necessari,
utili come il pane e spesso anche belli
Gianni Rodari
Una mia studentessa interessata a esplorare lo studio della pedagogia di Don Milani scriveva nel suo progetto che avrebbe studiato la “pedagogia della decenza”, anziché quella del dissenso. L’assonanza tra le due pronunce inglesi [dɪsˈɛnt] and [diːs(ə)nt] l’aveva confusa dando così vita a un equivoco che aveva prestato il fianco a qualche risata ma anche a qualche ipotesi sulla teorizzazione di una pedagogia della decenza. Che scuola avrebbe promosso tale pedagogia? Chi l’avrebbe sostenuta? E cosa avrebbe significato decenza in ambito pedagogico per ciascun individuo coinvolto nel progetto educativo? Quali sarebbero stati i punti portanti di un manifesto della pedagogia della decenza se ne fosse mai stato stilato uno? Da quel semplice errore emerse una conversazione piena di suggestioni, stimoli e idee che avremmo entrambe ricordato per anni a venire.
Quando sbagliamo, ignoriamo, o ci allontaniamo da una norma fatta di regole che non vogliamo o non possiamo comprendere o interiorizzare. Prendiamo un’altra strada (quella dell’errore) che allontanandoci dall’obiettivo fissato, finisce spesso con il rivelarsi foriera di inaspettate rivelazioni. A seconda dell’interlocutore, l’errore può divertire, irritare, incuriosire, stuzzicare, irrigidire e persino far arrabbiare fino al punto da portare con sé gravi conseguenze. Insomma, l’errore, sia nella sua produzione che nella sua ricezione, coinvolge uno spettro ampio e vario di azioni e reazioni. Da piccolo, a grave, da innocuo a mortale, da divertente a irritante, l’errore fa parte della nostra vita e del nostro percorso di apprendimento. Che il nostro ruolo sia quello di alunni ai primi contatti con l’ortografia o studenti di corsi universitari avanzati; che siamo impegnati nell’apprendimento di una lingua straniera, o che siamo alle prese con una qualsivoglia altra arte, non ne saremo facilmente esenti. Il proliferare di stupidari, la complice condivisione tra docenti che sentono il bisogno di mettere nero su bianco le “perle” dei loro alunni, le ripetute conversazioni pedagogiche sul valore dell’errore e sul perché sbagliare faccia bene, dimostrano che l’errore continua ad essere al centro delle nostre conversazioni, che fa riflettere, intrattiene, e soprattutto che non ce ne libereremo facilmente.
Se c’è qualcuno da cui abbiamo qualcosa da imparare nel capitalizzare gli errori e il loro potenziale ideologico, quel qualcuno è Gianni Rodari. Per lo scrittore, gli errori sono sempre stati un’opportunità di scoperta, uno spazio di possibilità democratica, in cui un’apparente mancanza, un non allineamento alla regola dettata, poteva aprire nuove opportunità creative, nuovi spazi di costruzione e di esplorazione. È lo stesso Rodari, che nella prefazione al Libro degli errori ci conduce nella comprensione del come e del perché gli errori siano tanto importanti ma soprattutto del perché non valga la pena versarci lacrime.
Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo? Se si mettessero insieme le lagrime versate nei cinque continenti per colpa dell’ortografia, si otterrebbe una cascata da sfruttare per la produzione dell’energia elettrica. Ma io trovo che sarebbe un’energia troppo costosa.[1]
Rodari non aveva accumulato moltissima esperienza come maestro. Al contrario, ammetteva di essere stato un pessimo maestro, simpatico agli alunni solo perché capace di inventare storie. Era però la sua profonda sensibilità e intuizione a venirgli in soccorso permettendogli di comprendere che l’ortografia, quell’insieme di norme che regola la scrittura e la sua correttezza, può assumere, agli occhi di un bambino tratti tiranni, intimidendolo, ma soprattutto sottraendo quel sano e necessario divertimento di cui ogni apprendimento ha bisogno. Eh sì, perché gli errori, per Rodari, erano un po’ come dei giocattoli, delle piacevoli evasioni dalla realtà che lui sapeva abilmente trasformare in occasioni, in porte verso nuovi mondi, certo non meno importanti dell’ortografia stessa. E così, nel suo Libro degli errori, Rodari, affida al simpatico Prof. Grammaticus il compito di guidare il lettore attraverso un viaggio negli errori che se solo superficialmente ci possono apparire divertenti e leggeri, sono in realtà carichi di riflessioni su tutto ciò che nel mondo c’è di sbagliato.
Il Prof. Grammaticus è serio e rigoroso e ha l’indiscusso desiderio di ottemperare ai bisogni normativi della grammatica. Fedele al suo compito di proteggerla dagli attacchi degli errori che stravolgono l’amata lingua italiana, è tuttavia dotato di quelle caratteristiche fondamentali all’equazione rodariana: cuore, passione e sensibilità. Sa ascoltare, fermarsi a riflettere, mostrare compassione e, soprattutto, sa offrire soluzioni divertenti e divergenti. Si rende perfetto portavoce del vero interesse di Rodari per l’errore: non l’errore in sé, bensì ciò che rappresenta. Errore come strada (o meglio strade) che può aprire e molteplici prospettive che può offrire. Errore dunque non come limite, ma al contrario, prezioso regalo portatore di irripetibili opportunità. Non celava, infatti, Rodari il suo profondo interesse per quello che lui chiamava “il risveglio ideologico dell’errore”.
La mia parte di divertimento consisteva non tanto nel dar la caccia agli errori, quanto nello scoprire il loro risveglio ideologico. L’Itaglia è il paese dei nazionalisti. Mi spiego subito. Un bambino può scrivere Itaglia con la g solo perché confonde certi suoni. Ma si può negare che esiste un Itaglia con la g? Eccome, se esiste! Per me, per esempio, il supernazionalista, il superpatriota di professione, nutrito di retorica, di ignoranza e di provincialismo, non è uno che vuol bene alla nostra Italia, pulita senza g, ma uno che ha in mente una sua Itaglia sbagliata e balorda. Così feci la storia del professor Grammaticus che redarguisce un gruppo di fascistelli, poco amanti dell’ortografia, che vanno gridando a sproposito: I-ta-glia, I-ta-glia![2]
Un banale errore ortografico poteva così puntare il dito, con innocenza e semplicità su limiti ben più pericolosi di quelli dell’errore stesso. L’Itaglia di cui ci parla Rodari era quella gretta e ignorante che disdegna la cultura. Quella g di troppo, imperante, che ne deturpava il nome, era il segno di un altro disagio, ben più profondo. Con leggerezza, come sua abitudine, Rodari trovava il modo di allenare il senso critico verso i reali problemi della società. Gli errori diventavano così porte di accesso, occasioni da cogliere con intelligenza e creatività.
Che dire poi dell’italia erroneamente scritta da un alunno con la lettera minuscola? Anche quell’errore, come molti altri poteva aprire una porta a scoperte, considerazioni e idee. Il Prof Grammaticus, a cui Rodari delega così efficacemente il ruolo di grammatico sensibile e intelligente, capace di cogliere le contraddizioni tra mondo e grammatica, dovrà ammettere, apprendendo la lezione da una domestica, che esiste infatti “un’Italia piccola e minore […]. È l’Italia dei vecchi a cui nessuno pensa, dei ragazzi che vorrebbero studiare ma non possono, dei villaggi dove sono rimaste solo le donne perché gli uomini sono emigrati tutti … e forse quell’Italia, la lettera maiuscola non ce l’ha”[3]. Riconoscere che quello è il vero errore, che ogni Italia conta, e che proprio a quell’Italia minore, bisognerebbe dare invece la lettera maiuscola, è il passaggio fondamentale per comprendere che gli errori ortografici altro non sono che finestre sulla coscienza e che sta a noi aprirle o chiuderle.
L’interesse per l’aspetto ideologico dell’errore è costante e diffuso nell’opera di Rodari. Durante un viaggio in treno, il Prof. Grammaticus inorridisce nell’ascoltare i suoi compagni di scompartimento, operai meridionali emigrati in Germania, usare gli ausiliari essere e avere erroneamente. “Ho andato in Germania nel 1958” dice un operaio. E l’altro “io ho andato prima in Belgio, nelle miniere di carbone.” Il Prof. Grammaticus non resiste alla tentazione di correggerli. “Si dice sono andato. Non ve l’hanno insegnato a scuola? Il verbo andare è un verbo intransitivo”. La lezione che imparerà dai suoi compagni di viaggio è tuttavia più grande di quella che lui stesso ha da insegnare. Un operaio replica che “andare” sarà pure un verbo transitivo ma è anche un verbo profondamente triste. Loro sono infatti andati a cercare lavoro. E andare via significa lasciare la famiglia, i bambini. “Eh – disse l’emigrante – io sono, noi siamo. Là dove siamo noi con tutto il verbo”. Essere, allora, è uno stato, un modo di sentire più che una regola grammaticale che da sola non può bastare a spiegare le esperienze umane[4].
Rodari infonde nel suo Prof. Grammaticus un simpatico e fresco anelito rivoluzionario. Lo spirito normativo e il desiderio di fare giustizia alla grammatica del professore sono accompagnati da costanti tentativi di deviazione e stravolgimento della norma. Il professore, come del resto la penna che lo ha creato, è guidato da passione, da comprensione e ascolto. Sa vedere e riconoscere negli errori ciò che essi nascondono. L’esempio più lampante del suo spirito rivoluzionario è la sua proposta di riformare la grammatica, così piena di regole complicate.
Per esempio, gli aggettivi, che bisogno c’è di distinguerli in tante categorie? Facciamo due categorie sole. Gli aggettivi simpatici e gli aggettivi antipatici. Aggettivi simpatici: buono, allegro, generoso, sincero, coraggioso. Aggettivi antipatici: avaro prepotente, bugiardo, sleale e via discorrendo. […] Prendiamo i verbi. Secondo me essi non si dividono affatto in tre coniugazioni, ma soltanto in due. Ci sono i verbi da coniugare e quelli da lasciar stare, come per esempio mentire, rubare, ammazzare, arricchirsi alle spalle del prossimo. Ho ragione sì o no?
Come ci ha dimostrato anche attraverso la sua Grammatica della Fantasia, per Rodari la grammatica è una chiave di accesso alla creatività. Una creatività che non è possibile imbrigliare in regole, né spiegare attraverso sterili meccanismi limitativi dell’espressione. Per questo la riforma di cui il Prof. Grammaticus si fa portavoce, è guidata non da regole, bensì da criteri divergenti. È una piccola rivoluzione che porta in campo nuovi strumenti, nuove idee e nuove strade di conoscenza. Che gli aggettivi allora, siano catalogati non come qualificativi e determinativi – parti variabili del discorso che esprimono qualità e quantità del sostantivo a cui si riferiscono. Che siano più semplicemente discriminati in base al loro carattere, al loro essere utili o meno alla società, alla costruzione di un bene collettivo fatto di valori positivi. Che i verbi non siano classificati in base alle loro coniugazioni, tempi e modi, bensì al valore umano, sociale e etico delle azioni che descrivono. Una grammatica nuova quindi, che introduca consapevolezza, attenzione all’essere umano e alle sue aspirazioni e una nuova riflessione sul mondo che ci circonda.
Sebbene l’esperienza di Rodari come maestro sia stata marginale, del maestro ha sempre avuto la sensibilità. Quella capacità di ascolto tipica di chi non vuole solo insegnare ma ha il desiderio di camminare insieme ai suoi alunni, di imparare insieme a loro. Questo desiderio Rodari ce lo dimostra in ogni suo scritto. Per l’autore, infatti, la letteratura non è solo un mezzo d’espressione. È anche e soprattutto un mezzo di conoscenza. Le tante filastrocche e brevi storie che popolano il divertente museo di errori fatto di lettere in fuga, apostrofi dimenticati, doppie ignorate, maiuscole che diventano minuscole, non solo danno vita a brillanti equivoci; aprono finestre su un mondo di nuove possibilità. Ci permettono nuove conoscenze, attraverso nuovi punti di vista. Perché la letteratura (per l’infanzia e non) non serve solo ad esprimere idee e stati d’animo. Ci aiuta a porci domande, grandi e piccole, a riflettere e a comprendere il mondo. E se il mondo è un po’ sbagliato, questa comprensione sarà ancora più utile e necessaria.
tania.convertini@dartmouth.edu
[1] G. Rodari, Libro degli errori, Einaudi, Torino, 2011, p.9.
[2] Noi Donne n. 45 del 14.11.1964
[3] G. Rodari, Italia piccola in “Libro degli errori”, Einaudi, Torino, 2011, p.61.
[4] G. Rodari, Essere o avere in “Libro degli errori”, Einaudi, Torino, 2011, pp.16-17.
L'autore
- Tania Convertini is Research Assistant Professor at Dartmouth College where she directs the Language Program in the Department of French and Italian. Her main areas of research include foreign language pedagogy and digital pedagogy, intercultural education, and media studies. She has published articles on the pedagogical use of film and technology in the language classroom, as well as critical readings of films, television shows and literary texts. Her current project explores the work of the Italian educator, humanist and television host Alberto Manzi and the role of Italian educational television in the 60s.
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