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Il paesaggio ideale. Maria Gioia intervista Graziella Da Gioz

Graziella Da Gioz (Belluno, 1957) vive a Pieve del Grappa, in un territorio che segna anche suoi lavori: fra monti e sentieri si distendono pure corsi d’acqua che rendono il paesaggio un elemento che fornisce spunti alla sua riflessione artistica. Allieva di Emilio Vedova all’Accademia di Belle Arti di Venezia, la Da Gioz comincia a esporre molto giovane sia in Italia sia all’estero partecipando pure a importanti manifestazioni in ricordo del suo maestro, come la mostra Vedova e il laboratorio presso il Museo d’Arte Moderna di Strasburgo (1984).

Libro d’artista “Dal paesaggio” 2006, mm 363x263x20 con otto poesie di Andrea Zanzotto, nove incisioni di Graziella Da Gioz, postfazione di Manlio Brusatin, tirato in 60 esemplari a cura della Stamperia d’Arte Albicocco

Un incontro che la segna in modo particolare è quello con il poeta Andrea Zanzotto, la cui opera diventa fonte d’ispirazione: nascono così alcune illustrazioni di liriche pubblicate nella rivista parigina «Noise» (1986), edita dalla prestigiosa galleria Maeght di Parigi. Impara a esprimersi con varie tecniche: il paesaggio, affrontato in pittura con sfumature di grande spessore, diviene oggetto pure dei suoi pastelli e delle sue incisioni calcografiche che non perdono nulla del chiaro scuro né della magica trasparenza dei suoi dipinti.

Già dagli anni Novanta Graziella da Gioz è presente a diverse mostre che ne esaltano sia le sue capacità artistiche (1992, Conegliano, Palazzo Sarcinelli) che le abilità con il pastello (Elogio al pastello, 1999). Ed è soprattutto negli anni Duemila che emerge una componente della sua personalità artistica: gli elementi naturali e paesaggistici, nello specifico l’acqua, che diviene un leitmotiv del suo incedere). La mostra personale e itinerante a cavallo tra il 1999 e il 2000, testimonia l’appropriazione di tutte le tonalità che vanno dall’azzurro al verde, in un soffuso cromatismo, sapientemente impiegato. Il suo livello espressivo è di grande intensità: come avviene ad esempio nei suoi pastelli, riesce a cogliere diversi umori e consacrare particolari luci, utilizzando un solo colore e variandone l’intensità con le sfumature. Un altro elemento che rende Graziella Da Gioz artista di forte espressività è la prospettiva che utilizza. Tanti suoi olii sono caratterizzati da un primo piano che ci impedisce di vedere ciò che è immediatamente vicino a noi, proiettandoci in un punto lontano e ben definito. Altri invece ci regalano uno sguardo profondo che entra dentro il foglio o la tela, regalandoci la possibilità di spaziare lontano.

Per la sua dedizione alla tavolozza e alla puntasecca, e grazie al suo talento, la Da Gioz viene invitata nel 2011 a partecipare alla 54° biennale di Venezia. Molte sono state le sue mostre negli anni Duemila sia in Italia sia in Europa. Ammirata e stimata da critici di notevole rilevanza, Graziella Da Gioz sa coltivare pure forti e numerosi rapporti che danno vita a collaborazioni, consentendole di collocarsi in un alto tessuto artistico, in cui è spesso protagonista. Poco prima che fossimo obbligati a trincerarci nelle pareti domestiche per la furia del Covid, la Da Gioz ha partecipato alla mostra del libro d’artista a Rimini curata per l’Associazione Nazionale Incisori Contemporanei da Maria Pina Bentivenga, fra le più importanti specialiste del segno inciso, una mostra, che ha avuto larga eco per le presenze, tutte di grande qualità.

Hai avuto un grande maestro, Emilio Vedova. Che cosa ricordi del suo insegnamento veneziano e quanto credi nell’influenza da lui esercitata nei tuoi lavori?

Emilio Vedova era alto e magro con una barba lunga, due paia di occhiali che continuava a cambiare appesi a due catenelle e vestiva sempre una camicia a righe. Conoscevo la sua fama e le sue opere prima d’iscrivermi all’Accademia. L’aula era all’interno di una chiesa sconsacrata vicino al ponte dell’Accademia, c’erano dei pannelli su due piani con corridoi costruiti con tubi di ferro. Dall’alto potevi dominare tutta l’aula e i lavori di ciascun studente. Tutti avevano un posto in cui dipingere, Emilio Vedova aveva un piccola aula personale dove teneva una biblioteca e prestava i suoi libri. Guardava il nostro dipinto e poi ci consigliava di andare a cercare l’autore che più poteva essere utile alla nostra ricerca. A differenza degli altri docenti era sempre presente alle lezioni. Nell’aula passavano i direttori dei musei di tutto il mondo e i critici d’arte allora più famosi. C’erano anche studenti che provenivano da varie parti del mondo. L’atmosfera era caotica, a volte conflittuale e la sua voce e i suoi discorsi s’imponevano sulle nostre chiacchiere.

Pensavamo che tutto ciò che facevamo fosse molto importante; ci diceva che l’arte era un’operazione catartica, un modo per esprimere noi stessi e il pensiero sul nostro tempo. Ogni segno, ogni gesto sulla tela doveva essere pregno di significato. L’arte del 900 era importante (per lui in particolare l’arte astratta e l’espressionismo) ma anche l’arte del passato, in particolare Tintoretto, Tiepolo, Piranesi.

Attraverso di me vedeva i boschi (mi chiamava “miele dei boschi”) dove si era nascosto durante la Resistenza nel bellunese e rispettava il mio amore per la natura, lo capiva. Alla fine dei quattro anni ha scelto il mio lavoro, insieme a quello di altri dodici studenti, per rappresentare l’Accademia di Venezia a Strasburgo nella mostra “Vedova e il laboratorio” (1984). Finito l’Accademia, ogni tanto andavo a trovarlo in aula e ho seguito tutta la sua progettazione dei grandi cerchi. Ci coinvolgeva nel suo lavoro, nei suoi progetti, viveva per la sua arte. Tutto ciò mi è rimasto dentro e mi è servito anche nel mio modo d’insegnare e, quando dipingo, i suoi consigli mi sono ancora vicini. Amava tantissimo anche l’incisione e collaborava con Corrado Albicocco che in seguito ho frequentato anch’io.

Le tue trasparenze e i tuoi dettagli incutono sensazioni che si colgono ad esempio nelle tele dei paesaggi di Antonio Fontanesi, un grande artista ancora poco valorizzato in Italia. Quali le tue ispirazioni?

Mi fa piacere che tu abbia notato questa vicinanza. Antonio Fontanesi è un artista che mi piace molto, un artista romantico: dipinge e incide atmosfere, luci. In un momento di crisi ho riscoperto alcuni autori, come Gaspar Friedrich, Odilon Redon, William Turner e anche Antonio Fontanesi che sapevano dipingere la natura con profondità psicologica attraverso uno sguardo interiore.

I quadri di Mark Rothko mi hanno fatto scoprire la profondità che crea la sovrapposizione dei colori e Piero Guccione la bellezza della tecnica del pastello, Anselm Kiefer mi ricorda la grandezza del paesaggio e della materia pittorica. Da molti anni studio la pittura cinese del paesaggio: a Zurigo, a Parigi e a Shanghai ho visto dei dipinti di grande spiritualità. La luce, il colore e il segno possono trasmettere il pensiero e lo stato d’animo dell’artista, coinvolgere lo spettatore sul tema della natura così fragile, bellissima ma emarginata e in pericolo.

A un occhio inesperto o poco attento, può sembrare che i temi ricorrenti del tuo incedere siano un limite al modo di esprimerti, mentre in tutte le tue opere si rilevano sfumature che le rendono differenti le une dalle altre, ognuna molto coinvolgente. Che cosa avverti nel profondo quando affronti tematiche affini?

Lavoro quasi sempre per temi pensando non ad un’unica opera ma a un ciclo di opere perché sento di dover esprimere più punti di vista: a volte infatti basta variare una sfumatura o una composizione e tutto cambia perché ogni elemento assume nel quadro un’importanza emotiva molto importante. I temi che scelgo sono quasi sempre intorno a me, dove vivo, luoghi vissuti e attraversati nel tempo e in tutte le stagioni oppure appartengono ai miei ricordi e alle mie letture. Per esempio “I laghi ghiacciati” e “il disgelo” sono temi che nascono nell’estate caldissima del 2003 quando i ghiacciai delle Dolomiti cominciarono a sciogliersi, però è un tema che sento ancora e ogni tanto rivedendoli mi vengono in mente nuove soluzioni per comunicare la ferita di questo evento. Inizialmente sono composizioni astratte, visioni interiori che cercano attraverso lo studio del soggetto una corrispondenza con le mie emozioni e miei pensieri. Per questo ho bisogno di molto tempo: cambio spesso colori, forme, prima attraverso il pastello, con i colori e le sovrapposizioni di segni. Questa tecnica è per me la più immediata perché racconta molto bene le atmosfere attraverso le sue polveri colorate sovrapposte e posso arrivare in un tempo abbastanza breve a definire un’idea. Quando decido di dipingere delle tele, l’immagine definita nel pastello diventa un punto di partenza, inizia poi una lunga avventura fatta di ripensamenti e rifacimenti, è una tecnica che richiede disciplina, costruita attraverso pennellate materiche e velature e a volte il risultato finale si allontana dall’idea iniziale: l’esito è sempre incerto e mi coinvolge molto, anche fisicamente. L’incisione attraverso il bianco e nero è la sintesi di questo lungo processo di costruzione di un’immagine significativa, sento il bisogno di sperimentare con gli acidi, di intervenire con la puntasecca o il carborundum. Con questa tecnica non intendo descrivere ma “suggerire” il soggetto intervenendo con il segno graffiante e nero della puntasecca. Quando un’opera non mi convince del tutto la riprendo anche dopo molto tempo, di solito la miglioro, non solo i quadri ad olio e i pastelli, ma anche le incisioni. Ogni tecnica dà esiti diversi e quindi poi la mostra personale diventa non una serie di quadri ma un racconto che coinvolge lo spettatore nei miei paesaggi interiori dove ogni particolare è lungamente pensato e cercato. Il libro d’artista permette di spaziare ancora attraverso il dialogo tra parole e immagini, molto profondo e intimo. Le mie opere diventano luoghi dell’anima, a volte malinconici, silenziosi, a volte sereni come può esserlo un prato o un albero giallo e qualche volta un bosco invernale o un albero caduto sa anche urlare.

Spesso i rami dei tuoi alberi sono spogli e si intrecciano gli uni con gli altri lasciando trapelare, nei percorsi tonali resi anche con il segno grafico, una profonda malinconia. Qual è la stagione che più ti ispira?

L’autunno e l’inverno sono le stagioni che preferisco, hanno più varietà di toni, di colori. Amo anche l’inizio della primavera e il verde profondo delle serate estive.

 

Gli alberi spogli mi fanno pensare proprio all’incisione, alla puntasecca: la punta segue la forma contorta dei rami che risaltano in controluce nel cielo o nella neve, le forme dell’albero con le sue ombre creano composizioni nello spazio. Per me l’albero è una presenza viva, assoluta, simbolo dell’essere, una forma silenziosa e solitaria, sia quando è da solo sia quando fa parte di un bosco. Forse è questa condizione di isolamento e di fragilità così vicine alla condizione umana che suscita malinconia. Alcuni alberi diventano miei amici e ogni tanto vado a fargli visita, mi raccontano i loro cambiamenti nel tempo e nelle stagioni. Ho passato anni a dipingerli. In questi ultimo periodo ho raccontato con pastelli e incisioni la tragedia di Vaia: alberi caduti a causa di una terribile tempesta. Ancora adesso li ritrovo nei boschi: spezzati, con le radici staccate, a volte grandissimi.

Nella tua esposizione del 2015 dedicata al delta del Po e alla laguna nel Museo Regionale della Bonifica Ca’ Vendramin e a Ca’ Cornera nel parco del Delta padano, ho potuto personalmente ammirare le tue trasparenze riflesse in un territorio che tutte le comprendeva. Quali altre sono le tue mostre che hanno avuto stretta attinenza con i luoghi espositivi?

Qualche volta ho cercato di interpretare il luogo che mi ospitava per una mostra: le opere sul tema della laguna sono state esposte a Venezia in luoghi diversi, i pastelli dedicati al porto di Genova nella mia mostra personale a Galata Museo del Mare nel 2010, il porto di Palermo ha ispirato molti lavori esposti presso la Galleria 61. A Padova nel 2012 ho creato un allestimento di 16 pastelli dentro un cubo di plexiglas dedicato al fiume Bacchiglione con i suoi ponti e i suoi riflessi; a S. Mauro di Romagna ho esposto il libro d’artista dedicato a una poesia di Giovanni Pascoli nella mostra collettiva “Il libro d’artista ispirato al paesaggio pascoliano”. Nel 2011 a Belluno ho dedicato una mostra a Tina Merlin con un libro d’artista e i paesaggi bellunesi. A Longarone nel 2019 ho esposto un grande dipinto e una serie di pastelli in occasione dell’anniversario della tragedia del Vajont.

Ti sei dedicata anche al libro d’artista e ancora persegui tale strada. Il libro, a cui hai dato vita con Zanzotto e che hai presentato pure in sedi universitarie, e poi quello su Tina Merlin, che esordio hanno avuto e come hanno inciso per i tuoi interventi successivi?

Il libro “Dal Paesaggio” con mie incisioni e una scelta di poesie di Andrea Zanzotto è stato per me un avvenimento importante: si è concretizzato un sodalizio e un’amicizia con un grande poeta iniziata nel 1984. La sua poesia e i nostri dialoghi mi hanno aiutato a trovare la mia dimensione attraverso la visione del paesaggio, mediato dalla poesia. Corrado Albicocco è uno stampatore e editore molto bravo e la sua Stamperia è un punto di riferimento per grandi incisori europei.
Importante poi è stato l’incontro con le parole di Tina Merlin, donna coraggiosa che ha vissuto vicino a casa mia nel bellunese. Attraverso i suoi libri e la sua storia ho compreso il modo di vivere di molte donne e uomini che come i miei genitori hanno dovuto affrontare gravi difficoltà ma che hanno saputo amare la bellezza della natura. Tina Merlin diventa staffetta partigiana giovanissima e poi ha saputo denunciare con i suoi articoli i soprusi della gente e la tragedia del Vajont. Anch’io come donna ho dovuto lottare per studiare e continuare a dipingere e il suo coraggio mi aiuta ad affrontare le avversità che ancora incontro. L’interesse per il libro d’artista è continuato attraverso altri due libri collaborando con altre persone e tuttora sto cercando di portare avanti un progetto per continuare a inventare il legame tra incisione e poesia.

Il difficilissimo periodo che stiamo vivendo ci priva della possibilità di andare per mostre e a voi artisti di esporre le vostre opere. Questa condizione non permette all’opera d’arte di esprimersi nel suo significato perché manca una sua parte integrante: il pubblico, che è diventato un’entità virtuale. Pensi che la sola visibilità on line del vostro lavoro vi consenta di continuare a farvi riconoscere e apprezzare?

Quest’anno avrei dovuto partecipare a numerosi eventi, ma probabilmente si faranno l’anno prossimo. Nel frattempo ho sempre lavorato nel mio studio a casa, alternando passeggiate in montagna e nei boschi. L’impegno del mio lavoro richiede silenzio e concentrazione per cui non ho sofferto la mancanza di un contatto con un pubblico, ma sono in attesa di un futuro migliore che spero arrivi presto. La comunicazione dell’arte attraverso il web sta diventando sempre più importante: molte gallerie chiudono e anch’io ho accettato di pubblicare i miei lavori su dei siti. Però penso sia ancora molto importante il contatto visivo con l’opera d’arte, con la sua fisicità, la materia della pittura e dell’incisione e del libro d’artista.

dagioz.graziella@virgilio.it

 

L'autore

Maria Gioia Tavoni
Maria Gioia Tavoni
M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it