In primo piano · L'arte del tradurre

Intervista a Dracula. Conversazione con Flavio Santi

Dracula di Bram Stoker, 1897: ma poi Dracula diventa Nosferatu di Murnau con Max Schreck e di Herzog con Klaus Kinski, e da qui un’infinità di film dedicati al Vampiro; poi le serie tv, Dracula per i teenager, Dracula per carnevale e per Halloween; Dracula nelle pubblicità… Dracula nel turismo in Transilvania, nel castello con le guide che inventano e i rumeni che sbuffano. Dracula l’impalatore nella storia, atroce difensore della Cristianità. Non è ora il momento di riaccostarsi all’archetipo, al testo di Stoker? Possiamo farlo grazie alla preziosa nuova traduzione di Flavio Santi, uscita esattamente un anno fa per Rizzoli, nei Classici Deluxe, con le illustrazioni di Wilfried Sätty.
Ho avuto sempre il sospetto che Flavio avesse qualcosa di vampiresco: ha scritto un bel romanzo ambientato nella Sicilia del Settecento in cui Goethe indaga su misteriosi casi di vampirismo (L’eterna notte dei Bosconero, Rizzoli, 2006). La sua nuova traduzione di Dracula è di pregio, il pregio delle litografie, dell’introduzione di Andreoli ma soprattutto il pregio della lingua: una traduzione eccellente, di un traduttore che per me è anche autore, quell’invisibile protagonista della narrazione di un romanzo che arriva a noi durante la lettura di parole nate in un altro idioma.
In questa conversazione non voglio intervistare (solo) Flavio come traduttore di Stoker, ma Flavio traduttore e autore, perché per tradurre in italiano un’opera così potente non basta tradurre, bisogna essere anche autore, nascosto forse; certamente è indispensabile sentirsi addosso l’autorialità: tu sei diventato Stoker e anche la sua creatura, il suo Conte; tu conosci bene i vampiri perché ne hai inventato uno per il tuo romanzo, un vampiro tutto tuo, Bosconero… Partiamo quindi senza distinguere i ruoli della scrittura: devo dirlo subito, la tua attività creativa e intellettuale è senza distinzioni, non si classifica, ma è pervasiva e ibrida, felicemente ambigua: poeta, in lingua e in friulano, romanziere, saggista, filologo, docente universitario e critico militante, direttore di collana ed editor (contrario all’editing!); io non vedo barriere e riconosco sempre la stessa irriverenza, dal saggio sull’umanesimo lombardo alla rassegna esistenziale e geniale sui supereroi. Una violenza creativa che ho riconosciuto anche nella forza del tuo Dracula, sì, tuo, lo ripeto, perché io voglio partire da qui: tradurre certe opere del passato è in parte riscrivere, troppi gli interstizi e gli ordigni nascosti tra una lingua e l’altra, distanti tra loro più di un secolo, per poter definire il traduttore un portantino frettoloso di parole.

Prima domanda, quando sei stato morso dal Conte, quando hai incontrato il vampirismo nei tuoi viaggi nella tua stanza (così maledettamente incasinata)?

La tua domanda mi invita a una specie di seduta di autoipnosi, per tornare indietro nel tempo. Dunque, vediamo. Il Nosferatu di Herzog lo vidi a nove, dieci anni credo – ricordo con una certa precisione quella circostanza, all’epoca le tv commerciali davano in prima serata autentici capolavori, perché non li riconoscevano come tali, ad es. il film di Herzog passava per un normalissimo film horror. L’altro fatto scatenante fu la visione di un episodio di un cartone animato nipponico in cui Pinocchio viene vampirizzato. Terribile. Direi che quelle due occasioni mi hanno lasciato un certo imprinting… Da allora ho divorato libri e film sui vampiri. Vampiri e zombie sono una delle mie passioni/ossessioni – meno Frankenstein e i lupi mannari, per dire. Credo che c’entri con la riflessione sulla vita e la morte, il tempo, questioni su cui mi interrogo da sempre, che hanno nel vampiro e nello zombie potenti rappresentazioni.

Poi è arrivato Federigo Bosconero (solo ora parlando con te noto la somiglianza del nome con Federigo Borromeo, di cui frequentai il collegio fondato a Pavia, e c’eri anche tu… Chissà, ma sui nomi ci torno). La scrittura dell’Eterna notte dei Bosconero è stata segnata da stranissime coincidenze. Comincio a scriverlo a Ginevra, in una casa sul lago Lemano. Ebbene, quella casa, e io all’epoca non lo sapevo, confinava con la leggendaria Villa Diodati di Chemin de Ruth. La villa dove Polidori scrisse The Vampyre, Mary Shelley Frankenstein. Poi, durante la scrittura avevo terribili incubi: ne ricordo uno in particolare, in cui delle voci mi sussurravano: “Hai capito tutto…”. Suggestioni? Resta il fatto singolarissimo di Villa Diodati. E io che in fondo sono un uomo medievale do grande peso a questi segnali. Non credo al caso. Un altro segnale? Ho tradotto un grande scrittore britannico poco conosciuto in Italia: Algernon Blackwood. Per la UTET tradussi i casi di John Silence e altri racconti. Blackwood in inglese cosa significa? Bosconero. Insomma, quando mi hanno proposto la traduzione di Dracula, per me è stato come la chiusura di un cerchio.

La tua traduzione di Dracula ha due belle novità, la prima è la presenza cospicua delle note del traduttore, il traduttore commenta e aiuta il lettore, diventa curatore della nuova edizione italiana. Sveli riferimenti in approcci che sanno di filologia delle fonti (si veda a p. 167 la nota su Elizabeth Siddal, moglie di Dante Gabriel Rossetti, che si suicidò con il laudano, citato da Stoker); chiarisci da linguista aspetti fonologici, esalti la perizia dell’autore nella scelta dei nomi; aiuti e appassioni il lettore. Ti chiedo: non è il giusto compito del traduttore di classici stranieri che ha pieno diritto di commentare perché conosce il testo meglio di tutti?

Hai colto un aspetto a cui tengo: Dracula è davvero un’opera-mondo, volevo che qualcosa di questo aspetto passasse al lettore, e lo spazio delle note poteva essere l’ideale per dare delle chiavi di lettura ulteriori, nel corso stesso della lettura (una prefazione o postfazione spesso vengono ignorate, invece le note a piè di pagina te le trovi direttamente sulla pagina che stai leggendo). George Steiner, che è uno dei miei fari (e che soltanto per un soffio non riuscii a seguire a Ginevra), dice che la traduzione è la forma più alta di critica: naturalmente è un paradosso, ma come tutti i paradossi dice cose molto interessanti.

La seconda novità è la geniale visione plurilinguistica di Dracula che proponi e spieghi nella postfazione: categoria importante nella tradizione italiana, pensiamo sempre a Contini e alla linea lombarda, ma poco evidenziata nelle altre lingue d’Europa e nella letteratura in lingua inglese: può essere utile in quella storia della letteratura e della lingua letteraria? Qualche esempio? 

C’è una tradizione in quel senso anche da loro, senz’altro. Soprattutto dal Novecento in poi. Ti rispondo con esempi che conosco e che ho tradotto: James Kelman, unico scozzese ad aver vinto il Booker Prize. Ho tradotto, insieme a Massimo Bocchiola, How Late It Was, How Late (Troppo tardi, Sammy in italiano), un mix di inglese e dialetti sottoproletari, soprattutto glesga scozzese. O il giamaicano di Marlon James, Il diavolo di John Crow. Il loro plurilinguismo è inteso come contaminazione di altre terre, altre lingue (si tratta di solito di ex colonie britanniche). Dunque un plurilinguismo post-colonial potremmo definirlo. Invece a proposito del plurilinguismo di Stoker, diciamo che lui stesso ci avvisa subito, mettendo in epigrafe una frase nel dialetto dell’isola di Man. Sembra quasi un avvertimento liminare ai futuri traduttori: “Attenzione! Troverete molte lingue!”. Dunque, non si poteva fare finta di niente, sarebbe stato assurdo, Stoker ce lo ricorda in continuazione: le lingue slave all’inizio, poi il russo e il turco nel diario di bordo della nave Demeter, il tedesco di Van Helsing, l’ullans di un vecchietto conosciuto da Mina e Lucy, i dialetti dei sobborghi londinesi, perfino il baby talk dei bambini… Stoker è irlandese. Come un certo Joyce.

Dunque per me la traduzione più che “fedele” (un cane può essere fedele, non un testo!) deve essere “leale”, ecco.

Cosa ha significato per te far affiorare questo ordigno stilistico che è il plurilinguismo superando traduzioni del passato troppo livellanti, antiquate, spesso disarticolate?

Finché non ho letto il testo originale, anche io, come molti, ero convinto che Dracula fosse un testo linguisticamente poco interessante (cosa che, ad es., è sostanzialmente corretta per Frankenstein, il cui interesse sta in altro, al proposito segnalo l’ottima traduzione e curatela di Massimo Scorsone per Lindau). Capisci i danni che fanno le cattive traduzioni? Ti consegnano un’idea distorta di un’opera, un autore! Questa è una cosa che mi fa molto riflettere: cosa leggiamo in realtà quando leggiamo in traduzione? Con un occhio attento, saltano fuori cose divertenti (ma anche inquietanti): Il giardino dei ciliegi di Cechov in realtà è un giardino delle amarene, Delitto e castigo sarebbe Il delitto e la pena (con esplicito omaggio a Cesare Beccaria). Guerra e pace o La guerra e la pace? (il russo è diabolico, non ha articoli!), o ancora Guerra e mondo (mir significia sia pace sia mondo, comunità)? Ma questo vale anche al contrario: così Freud è convinto che il celebre nibbio di Leonardo fosse in reatà un “avvoltoio” (Geier). E ancora: come tradurre titoli che sono autentici giochi di parole come Malice in Wonderland o Chant du Styrène? Per non dire di tutto l’ordito fonetico che si perde: in una poesia di Pessoa che amo molto, Autopsicografia, verso la fine razão rima con coração, ragione rima con cuore. Si tratta di una rima parlante, bellissima, vuol dire che la razionalità può andare a braccetto con l’emotività. In italiano al massimo le due parole sono assonanti. Una soluzione alla fine però l’ho trovata. (Non ve la dico per non rovinarvi il gusto di trovarne magari una anche voi).

Rendere con il plurilinguismo un testo in lingua inglese si oppone al “traduttese”, la lingua italiana della traduzione di romanzi stranieri di successo, pensiamo alla versione italiana di un romanzo di McEwan, così fluida: esiste veramente il traduttese o è un italiano libero da quelle cariche espressive e diatopiche che, a volte, appesantiscono la nostra prosa autoctona?

L’inglese di McEwan è molto fluido di suo, dunque ha senso, per altro lo traduce la bravissima Susanna Basso, molto attenta a questi aspetti. Detto ciò, è vero che c’è una tendenza a livellare l’italiano nelle traduzioni, lo si fa più che altro, credo, per un grande equivoco mai del tutto affrontato: si teme che il lettore non capisca, non ti segua. Io invece sono convinto che il lettore sia più sveglio di quanto lo si dipinga (non siamo un popolo di lettori fortissimi, ma quelli che leggono sono molto attenti di solito, io ho sempre grande fiducia nell’intelligenza e sensibilità del lettore). La ricchezza dell’italiano andrebbe usata di più nelle traduzioni – io ci provo, e di solito lavoro con revisori intelligenti che capiscono. Ad es., nella mia nuova traduzione delle Nebbie di Avalon – un classicone fantasy, scritto in un inglese sostanzialmente medio – io ho inserito allusioni dantesche, petrarchesche, cinematografiche, e il lettore si diverte di più. Tradurre è sempre rileggere e reinterpretare. Prendere un testo cristallizzato nel suo tempo, nei suoi caratteri e idiosincrasie, e calarlo in un tempo e un contesto nuovi, in una nuova atmosfera, con un nuovo ossigeno. Non so, se dovessi pensare a un’immagine, penserei alle scene topiche dei film di fantascienza quando gli astronauti si risvegliano dal loro letargo spaziale, escono dalle capsule criogeniche e riprendono a respirare, a vivere. Così fa un testo ogni volta che viene tradotto o ri-tradotto: si risveglia dalla sua capsula linguistico-spazio-temporale e torna a respirare con noi e per noi.

Dracula è un testo composto da moltissimi tipi di testo, una scelta geniale dell’autore che proietta il suo capolavoro fino ai giorni nostri: lettere, diari, articoli di giornale, telegrammi etc. è stato difficile traducendo saltare così frequentemente da un tipo di testo all’altro?

In Dracula ogni componente (sia essa un personaggio o un genere di testo) ha una propria spiccata personalità: Harker (colui che ascolta, vuol dire, e in un passaggio il Conte Dracula in persona fa dell’ironia, invitando Harker a hark… ascoltare) parla in modo compassato, da avvocato; Mina e Lucy sempre in maniera un po’ esclamativa ed enfatica; Van Helsing è preciso e scientifico, e lo stesso vale naturalmente per i testi: i telegrammi secchi e neutrali, le lettere un po’ enfatiche, gli articoli di giornale sensazionalistici ecc. Nel complesso è stato molto divertente confrontarmi con questa varietà. Posso dire una cosa che potrebbe sembrare presuntuosa, ma non lo è, credimi: faccio più fatica a tradurre testi mediocri che capolavori. Il capolavoro, il classico è come se avesse già in sé una spinta naturale alla traduzione, all’interpretazione continua… Quando traduco un grande classico, per me è sempre una festa, davvero.

Van Helsing, come molti germanofoni e slavofoni di fronte all’italiano, e secondo una rappresentazione ormai stereotipata e riproposta anche nei doppiaggi italiani del personaggio nei diversi adattamenti cinematografici, tralascia gli articoli e rinuncia spesso alle preposizioni articolate («Lui ha in sua mano forza di venti uomini […] abbiamo dato nostra forza» p. 222): nella tua traduzione hai reso due comportamenti linguistici in modo vivo e vero, una credibile lingua colta, esatta, sintatticamente agilissima che si mescola con tratti dell’italiano contemporaneo coincidenti con la “varietà di apprendimento”, l’italiano che parlano e scrivono gli stranieri (lui soggetto: «lui ha potere di cercare tomba», mentre spesseggia egli soggetto nella prosa colta degli altri personaggi; l’indicativo al posto del congiuntivo: «spero che Non-Morta, lady Lucy, non esce questa notte»). Come hai lavorato per ottenere questa soluzione così felice e quanto ti sei dovuto distanziare dagli altri traduttori?

Come faccio spesso quando traduco: ascoltando. Ascoltando germanofoni parlare italiano. Se si conoscono un po’ le dinamiche dell’apprendimento dell’italiano, ad es. le sequenze di acquisizione, si sa che l’infinito – contrariamente a quanto abitualmente si crede – viene acquisito dopo il presente indicativo, dunque non ha alcun senso far parlare uno straniero con una sfilza di infiniti. Imparano prima il presente indicativo. Lo stesso vale, come hai giustamente sottolineato tu, per i pronomi personali. Naturalmente l’accento duro e metallico che si può riprodurre in una lettura ad alta voce qua è impossibile da restituire – e comunque non lo calcherei troppo, come ha sapientemente fatto quel maestro della phoné che è Tommaso Ragno nella lettura che abbiamo fatto insieme l’estate scorsa. Con Tommaso vorremmo fare una lettura integrale di Dracula, dal calare del sole fino a prima dell’alba. Ti tengo informato.

Quanto hai attinto dal cinema?

Come si diceva, Dracula deve molto, moltissimo al cinema, dunque è un aspetto che in una traduzione-rilettura critica-interpretazione come la mia non si poteva trascurare. L’immaginario filmico è stato fondamentale, con qualche omaggio nella traduzione – ad es., un personaggio di contorno, tale Skinsky, diventa Kinski (il cui vero cognome era per altro Nakszynski). Quanto al tono della lingua, ho controllato, ad es., il doppiaggio del Dracula di Coppola – una resa abbastanza fedele allo spirito del romanzo. Essendo un pervicace cinefilo, conosco abbastanza bene la cinematografia vampiresca, senza preclusioni, dalle vette di Vampyr di Dreyer, Murnau ed Herzog, fino a cose trash come La vampira nuda o Fracchia contro Dracula. Posso dire una cosa sull’ultima serie Netflix? Come al solito la fisionomia del personaggio è sbagliata! L’ennesimo vampiro sbarbato e liscio, dell’immaginario Hammer – anni Cinquanta del secolo scorso! Dracula è un essere animalesco, pieno di peli, zingaresco, sudicio, una bestia! A quando un Dracula vera belva assetata di sangue? Il Gary Oldman di Coppola un po’ si avvicina, quando appare con i mustacchi e la chioma fluente… anche se siamo ancora lontani dalla vera figura di Stoker, che infatti viene paragonata a una sanguisuga gonfia di sangue, ad es. Ecco, forse Kinski, per quanto glabro e lunare, ha comunque un aspetto da tenia, da verme parassita…

Come è andata nello scontro con le traduzioni precedenti di Dracula?

Naturalmente le ho lette attentamente. Forse quella più famosa è la mondadoriana del grandissimo poliglotta di origine triestina Francesco Saba Sardi. Che però, come tutte le altre, direi, non tiene conto della stratificazione linguistica del testo originale. L’unico a farlo è Tommaso Pincio, che fa un’ottima versione per DeAgostini. E poi segnalerei un caso curiosissimo, ma molto eloquente: la traduzione islandese, tra le prime ad apparire, che in realtà è una vera e propria riscrittura (pubblicata meritoriamente da Carbonio con il titolo I poteri delle tenebre. Dracula, il manoscritto ritrovato). Ci tengo a segnalartelo anche perché per uno come me che dice sempre scherzando, ma fino a un certo punto, che il Friuli, la mia terra d’origine, è simile, per molti versi, all’Islanda, è un bel colpo. (In effetti, il Friuli è tra le poche regioni italiane in cui ci sono racconti di vampirismo, conta molto la vicinanza con i Balcani. Non solo: in Dracula c’è un po’ di Friuli, quando si ricorda il tocai e la polenta nelle prime pagine!)

Stoker è un grande autore ampiamente riconosciuto nella letteratura di lingua inglese ma ha avuto sempre una fama popolare, pop, dovuta forse al suo successo, anche cinematografico: questa fama lo ha forse relegato, lo allontana dai grandi autori della tradizione novecentesca, e forse anche dagli storici della letteratura più conservatori. Credi che vada valorizzato e studiato, anche a scuola, di più? Abbiamo tutti studiato Joyce (spesso senza leggerlo) e abbiamo tutti letto Dracula (senza studiarlo).

Diciamocelo. Senza il cinema che l’ha subito adottato (Murnau non poté utilizzare il titolo Dracula per questioni di diritto d’autore), Dracula – e con lui Frankenstein – avrebbero fatto la fine di Melmoth, grandissimo romanzo gotico, che ho avuto la fortuna di tradurre (è stato appena ristampato da Neri Pozza), figura amatissima per tutto l’Ottocento e il Novecento (lo adoravano Puskin, Balzac, Nabokov, da noi Manganelli), ma senza versioni filmiche è rimasto relegato agli appassionati del genere, e basta. Secondo me, il plurilinguismo di Stoker (fra l’altro altro nome parlante, Stoker vuol dire fuochista, e come non pensare a Kafka allora?) apre la strada a quello del suo connazionale (to’, che caso) Joyce. Dracula è abbastanza studiato all’estero, mi pare, anzi a volte forse fin troppo, con certe letture che rischiano di diventare delle forzature. Ecco, io lo studierei con un occhio più attento alla filologia e alla linguistica, piuttosto che piegarlo alle interpretazioni più spericolate (divertenti, per carità, ma mi chiedo quanto alla fine sensate). Ad es., nessuno ci ha mai pensato, ma la prima copertina di Dracula è (contro ogni convenzione) gialla, giallissima! Secondo me ha influenzato il nostro genere “giallo” (che nasce proprio dalle copertine gialle Mondadori). Ecco, io caldeggerei studi di questo genere, filologici, linguistici e comparatistici.

Dracula è splatter?, è uno dei primi romanzi splatter?

Non direi, non c’è l’esibizione del gore, dei particolari macabri e organici, anzi c’è un certo qual pudore vittoriano. Anche qui l’equivoco dipende dal cinema più che altro. La serie Netflix, già evocata prima, è infatti molto splatter, fiumi di sangue rosso Tiziano… Certo, visivamente è molto efficace, ma non è il Dracula di Stoker. I grandi film su Dracula però questo aspetto l’avevano capito benissimo: non c’è una sola goccia di sangue in Murnau ed Herzog, tutto è giocato sulle ombre, le attese, il perturbante. Coppola, invece, in quanto hollywoodiano è più rutilante. Ma Addiction di Abel Ferrara (buffa l’onomastica, eh?, Abel, Bram-Abraham) torna a essere perturbante, in bianco e nero… quella è la vera essenza del vampirismo, credo…

Le figure femminili hanno una funzione fondamentale, sono donne vittoriane certo ma credi che abbiano anche comportamenti nuovi per l’epoca? Atteggiamenti di donne dinamiche, coraggiose ed emancipate che vedremo solo nel Novecento?

Lucy Westenra (ennesimo nome parlante, Luce occidentale, con la parte terminale che rimanda a Ra, l’antico dio egiziano, geniale), l’amica di Mina, è molto libera e spregiudicata per l’epoca. Mina, che di cognome fa Murray, cioè raggio di luna, è invece più riflessiva. Tutto sembra passare sempre per la lingua, in questo caso i nomi. La stessa a finale del nome Dracula dà al personaggio una connotazione pansessuale quasi.

L’occultismo, lo spiritismo, il vampirismo, il soprannaturale in genere erano molto in voga in quegli anni, lo stesso Conan Doyle ne fu attratto nella parte finale della sua vita: Stoker come declina queste “conoscenze” dell’epoca? 

Stoker ha un atteggiamento molto razionale e moderno, basti pensare che nel romanzo ci sono anche registrazioni al fonografo, crede nella scienza (Van Helsing è un medico, e non è l’unico scienziato presente nel romanzo), ci sono i moderni mezzi di trasporto, i treni. Alla fine, in maniera molto positivistica, la scienza e la conoscenza trionfano sul male e l’oscuro. Dracula stesso è una sorta di avveduto investitore immobiliare – sospetto che giochi anche in Borsa, come il diavolo nel racconto di Balzac, Melmoth riconciliato, che ho avuto la fortuna di tradurre.

Possiamo leggere Dracula come una metafora della condizione umana? La possibilità di essere sempre esposti ai morsi del male e quindi alla possibilità di diventare noi stessi vampiri, esseri malefici, assetati di sangue e di anime da dominare e possedere?

Come è stato notato molto acutamente da Chiara Valerio, tutto nasce per delle compravendite immobiliari. Se ci pensi, è buffo. Nasce tutto dal desiderio di cambiare casa. Anche la bara è una casa, in fondo. La nave Demeter è una casa galleggiante. Dracula è lo straniero che vuole integrarsi? Anche. Oggi con il Covid diventa anche metafora del contagio. Perché no? Insomma, quello che voglio dire è che il livello di stratificazione dei significati è impressionante. Si tratta davvero di uno di quei libri sorgivi. Penso sempre in questi casi alle sortes vergilianae: nel Medioevo si prendeva un brano di Virgilio e se ne ricavavano infinite letture, riguardanti soprattutto il vissuto personale. Con le grandi opere, le opere-mondo appunto, funziona. Funziona con il Finnegans Wake di Joyce: abbiamo provato con Enrico Terrinoni, e davvero ci trovi anche la tua vita, impressionante. Provate. Io ho trovato un’allusione, chiarissima, al Friuli. In Dracula ne ho trovate almeno due, come ti ho detto prima, ma credo ce ne siano molte di più… molte di più… 

Flavio perché hai smesso di parlare? Cosa ti succede? Sei pallido, cosa è questa nebbia, perché ti stai avvicinando? Lasciami, che cosa vuoi?? Cosa hanno i tuoi denti?? Così bianchi così aguzzi… no, noooo, aiutooooo!!!

 

L'autore

Roberto Vetrugno
Roberto Vetrugno (1975) è nato a Lecce, vive tra Otranto e Milano: si è laureato in lettere moderne a Pavia e ha conseguito il dottorato di ricerca in Linguistica Italiana a Bologna. Nel 2013 è stato visiting professor all’università di Tripoli, poi ricercatore presso la Nicolaus Copernicus University di Toruń (Polonia) e ora è professore associato di Linguistica Italiana presso l’Università per Stranieri di Perugia: studia i carteggi rinascimentali e ha curato con altri l’edizione dell’epistolario di Baldassarre Castiglione (Einaudi 2016). Nel 2019 il suo primo romanzo, Tripoli (Unicopli), a settembre uscirà per Vallecchi il secondo, Umiliati.