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«…e la poesia no l’è in gnessuna lengua». Zanzotto e la pantera profumata

«…e la poesia no l’è in gnessuna lengua / in gnessun logo – fursi». Così, in Filò (1976), Andrea Zanzotto dichiara l’imprendibilità della lingua poetica. Poi, subito dopo, in Il Galateo in Bosco (1978), quell’invenzione dialettale, deissi della negazione, riemerge dalle nebbie dell’oblio: «Ed è così che ti senti nessunluogo, gnessulógo (avverbio) / mentre senza sottintesi / di niente in niente distilla se stesso (diverbio) / e invano perché gnessulógo / mai a gnessulògo è equivalente». La lingua della poesia non ha dimora in alcuna lingua storica e, come la pantera profumata inseguita invano da Dante nel De vulgari eloquentia, che (ripeteva Zanzotto parlando ai ragazzi di una scuola di Parma nel 1981) «non si lascia vedere in nessun luogo».

La domanda fatale, grido e singhiozzo insieme, risuona già alla fine degli Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto, del 1969-71, che Giorgio Agamben ha pubblicato con una splendida nota introduttiva (A. Zanzotto, In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009, Quodlibet 2019): «o vera lengua mea, onde sé-tu?». Zanzotto stesso, sigillando Alcune prospettive sulla poesia oggi (1966), aveva già fissato il perimetro di questa introvabile lingua-poesia che è il gnessulógo, l’inizio, «il momento sorgivo», «la lingua che non si sa» (Agamben): «Torna il sospetto di una poesia che non sia fatta né da un solo né da tutti, né per uno solo né per tutti, che non vada verso nessun luogo e che non venga da nessun luogo perché essa è il “luogo”, la condizione, l’inizio».

Dieci anni più tardi, ancora nel libro-chiave Filò, si rivela il mistero fondamentale: in nessuna lingua e in nessun luogo risiede il Logos erchómenos, il dialetto «sentito come veniente di là dove non è scrittura […] né “grammatica”: luogo, allora, di un logos che resta sempre “erchómenos”, che mai si raggela in un taglio di evento, che rimane “quasi” infante, pur nel suo dirsi, che è lontano da ogni trono». Quella parola sempre «veniente» da gnessulógo, e «che rimane “quasi” infante», è lo stesso balbettìo con cui, alla fine del viaggio iniziatico, mentre sta per cogliere «la forma universal» del «nodo» dell’Essere nel gnessulógo eterno, Dante si riconosce infans, cercando le sillabe e succhiando dalla Musa-balia latte e linguaggio: «Omai sarà più corta mia favella, /pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagna ancora la lingua a la mammella». Risuona qui, esaltando l’infans lattante, la voce antica del salmista: «Ex ore infantium et lactentium perfecisti laudem tuam» (Ps., VIII 4). E coglieva nel segno Mandel’štam, nel Discorso su Dante (1933), scrivendo che la fonetica della Commedia fu «creata con l’aiuto di una balia», e aggiungendo che «tra linguaggio e nutrimento si rivela l’esistenza di un nesso inatteso». È forse la rima più straordinaria della Poesia quella che stringe favella e mammella, oralità e nutrimento, parola e latte, suono e senso, voce e sensorialità, «lingua che viene» e «apocalissi linguistica» (Agamben).

La lingua poetica «monta come il latte» nel seno della puerpera e della balia. Andrea Zanzotto, nelle poesiole in petèl di Filò (1976), composte su richiesta di Federico Fellini per accompagnare il suo Casanova, parla del «nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte…». Fellini stesso, in una splendida lettera al poeta del luglio di quell’anno, gli chiede che l’«assunto verbale» (cioè appunto le liriche che diventeranno Filò) sia «il riverbero» della sua condizione di «visionarietà stralunata», e richiamandosi ai fantasmatici «trasalimenti infantili ed angosciosi, fiabeschi e terrorizzanti» gli suggerisce che «la sonorità liquida, l’affastellarsi gorgogliante, i suoni, le sillabe che si sciolgono in bocca, quel cantilenare dolce e rotto dei bambini in un miscuglio di latte e materia disciolta, uno sciabordìo addormentante riproponga e rappresenti con suggestiva efficacia quella sorta di iconografia subacquea del film, l’immagine placentaria, amniotica, di una Venezia decomposta e fluttuante di alghe, di muschiosità, di buio muffito e umido».

E lo stesso Fellini, in Amarcord (1973), faceva sussurrare al vecchio nonno perduto nella nebbia: «Ma dov’è che sono? Mi sembra di non stare in nessun posto. Ma se la morte è così, non è un bel lavoro. Sparito tutto!». Luminescenza prenatale, latte nebbioso, morte, coincidono nel gnessulógo della poesia: «il “luogo”, la condizione, l’inizio».

Nel n° 77 (ottobre 2021) di “il verri”, completamente dedicato a Zanzotto, la giovane Chiara Portesine, autentica promessa della contemporaneistica italiana, in un notevole studio sui rapporti sottili fra Zanzotto (soprattutto La Beltà) e i poeti novissimi, rileva come Zanzotto «contrappone al “gran giocare alla mattanza” dei Novissimi una poesia che, al contrario, renda eloquenti secondo l’umano tutte le forze alloglotte con cui si deve misurare […], accordando una fiducia quasi manichea al “fondamento” linguistico degli idiomi. Zanzotto scommette su una “poesia-infanzia” così come, nel frammento genetico dei Prefazi, aveva trascelto un “latino vergine come gioventù”».

Una linea genetica conduce da Dante a Mandel’štam, a Celan, a Zanzotto, addirittura a Fellini, sul filo della parola sempre «veniente», del lógos che è in gnessulógo, pura Voce. Questa linea si illumina nell’idea che il logo è un luogo: e che “attendere «la parola sempre veniente»”, il lógos, significa “cercare un luogognessulógo” sepolto nei conglomerati della storia. «Il luogo della poesia nel mondo è […], molto semplicemente, il luogo dell’uomo»: «nient’altro che la Terra». Una terra-madre, una terra-carne, ove si sedimentano i millenni in cui il poeta «scava»: come Mandel’štam disse di Chlébnikov, «scava nel linguaggio».

In Premesse dell’abitazione (1963), riproposto da Andrea Cortellessa con un suo acuto saggio “a pagine rovesciate” (Nino Aragno, 2021), Zanzotto sviluppa la figura di Hölderlin e di Heidegger «dell’abitazione come grande metafora della sua psiche, oltre che della sua opera», e ricorda le parole di Hölderlin, «poeticamente abita l’uomo sulla terra». Le stesse parole Giorgio Agamben (La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante, 1806-1843, Einaudi 2021) ha interpretato con grande acutezza: «è verosimile che in questo dictum si debba sentire un’eco del passo della bibbia luterana (Johann., 1, 14) in cui si legge che das Wort ward Fleisch und wohnte unter uns, “la parola si è fatta carne ed ha abitato fra noi”».

In Zanzotto il lógos si fa terra-carne per abitare fra noi: la parola poetica è il gnessulógo ove il poeta prende dimora, «scavando più che come un archeologo-scienziato freudiano, come una talpa: fremente, terrorizzata, instancabile. Soprattutto cieca: nella terra». Quest’idea, riconoscendola come nodo in un vastissimo reticolato simbolico-allegorico, Andrea Cortellessa svolge splendidamente in Andrea Zanzotto. Il canto della terra (Laterza 2021), uno dei libri più intensi e completi che siano stati scritti sul poeta suo omonimo (è dedicato infatti «al grande Z, il piccolo a»): «la poesia di Zanzotto diventa davvero se stessa […] dal momento in cui diventa poesia dei luoghi», e così, come un «geologo» (così lo definì Goffredo Parise all’uscita di Fosfeni), raggiunge i più profondi «stati carboniferi del suo pensiero».

Cortellessa, oltre a ripercorrere con acutezza e sapienza l’intera opera poetica di Zanzotto, in questo libro fondamentale recupera un’infinità di materiali dispersi e quasi “cancellati” dallo stesso autore, riportando alla luce un rarissimo tappeto di nodi concettuali e ideologici. Soprattutto insiste su un tema decisivo per comprendere il centro del pensiero poetante zanzottiano: il paesaggio come «specchio, figura allucinatoria del soggetto, ma anche suo rivestimento protettivo, insieme pomerio in cui si può trovare rifugio e trappola in cui si rischia di collassare». E recupera, da «una poco vulgata conferenza-lettura» del 1994, Catastrofi e persistenze della lingua, «l’estrema sintesi di Zanzotto», ovvero la «tendenza a ridurre la storia alla natura», che «muta sottilmente il proprio significato, nella seconda parte di Dietro il paesaggio, […] in conseguenza dell’evocazione della Heimat nei versi di Hölderlin. Da quel momento in avanti, se non riappare l’umanità, fanno la loro comparsa i luoghi in cui storicamente quell’umanità si è insediata, modificando la natura di quei luoghi dando loro dei nomi: cominciano a splendere nei versi di Zanzotto, cioè, i protettivi toponimi – carissimi lari che di qui in avanti proteggeranno il poeta». Nel Galateo in Bosco, «il libro più profondamente storico di Zanzotto», nel testo poetico viene inserita «una cartina dell’Isola dei morti», ossia della «sponda del Piave sotto la quale corre la “linea degli Ossari” dei caduti della Grande Guerra»: è patria, è luogo, la geografia mentale che contiene il tempo-spazio della storia, in una «concezione del tempo “poetica”, cioè non lineare (ma nemmeno sincronica)».

Come scrisse Luigi Reitani, massimo studioso italiano di Hölderlin, Zanzotto è il nostro autore del Novecento «che, più di ogni altro, ha “saputo raccogliere la sua lezione”». Una «funzione Hölderlin», secondo Cortellessa, «agisce nel corpus psichico, prima che poetico, del nostro poeta». Ma insieme con il paesaggio-Heimat hölderliniano prende forma un’ambivalenza radicale nel rapporto di Zanzotto con il logo-luogo, con quel “luogo” «semi-reale e semi-immaginario» nato nel drammatico «dialogo in atto tra l’uomo e la natura» (Uno sguardo dalla periferia, in Luoghi e paesaggi, 2013), che, secondo un’esatta intuizione di Giuseppe Ungaretti (Piccolo discorso sopra “Dietro il paesaggio” di Andrea Zanzotto, 1954), si configura in «entità mentali e sensibili a un tempo». Secondo Ungaretti i «maestri» di Zanzotto nel «sentire il paesaggio» furono Petrarca e Leopardi: «Ecco: un paese, leggendo Zanzotto, vedrete vivere, frusto, vetusto, feltrato, che di continuo si corrompe e si rigenera, un paese arioso, un paese d’incanti di idillio deturpati dalla tragedia, un paese sontuoso d’acque e pieno di riflessi e d’inganni, o dalla sete torturato su scheletri di fiumi, un paese orrendo e dolce, ricchissimo di verità, un aperto e chiuso territorio del Veneto perdutamente amato».

La depressione a cui l’io è indotto dal suo rapporto con la diversità, in Dietro il paesaggio (1951), non ferma Zanzotto nella frustrante ricerca dell’Altro, in un’«elegia del desiderio spento» che (la bella figura è di Beverly Allen) «si conclude con la sterile e triste morte dell’inverno». Dopo Elegia e altri versi (1954), nel terzo libro, Vocativo (1957), annota Cortellessa, «l’Io può dirsi presente […] solo nel proprio manifestarsi linguistico», in un cortocircuito «psichicamente vizioso»: «parlo-in-quanto-sono, ma altresì sono-in-quanto-parlo. Vocativo, scrisse Zanzotto, «è un’invocazione che si rivolge al niente, che si trasforma in una specie di sberla in faccia; quella che era un’invocazione torna indietro dal vuoto e diventa solo e misero “caso vocativo”; “colloquio” è il tema che tende sempre a riproporsi».

Uno studente del Liceo di Parma che nel 1981 aveva ascoltato il ragionamento di Zanzotto sulla poesia che «non si lascia vedere in nessun luogo» chiese al poeta: «Come mai la poesia contemporanea è così difficile da capire?»; e Zanzotto rispose che «nella poesia […] si trasmette per una serie di impulsi sotterranei, fonici, ritmici, ecc. Pensate al filo elettrico di una lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo». Andrea Cortellessa, citando questa immagine semplice e memorabile, commenta: «La resistenza opposta dalla materia linguistica, dalle ombre della carne, è dunque funzionale allo sprigionarsi del messaggio luminoso della poesia». Come nel «fulgore» della mente che chiude la Commedia dantesca, «luce e tenebra sono sempre, in Zanzotto, intimamente correlate, inscindibile antinomia».

corrado.bologna@sns.it

 

                                                                                         

 

L'autore

Corrado Bologna
Corrado Bologna
Corrado Bologna ha insegnato Filologia romanza in diverse Università italiane e straniere, e Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi sui principali autori delle letterature europee. Il suo ultimo libro è Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Luca Sossella, Roma 2022.