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Politica, poesia e pandemia  

Nessuna pandemia si può sconfiggere all’interno di un singolo paese.
Gabriele Frasca

Lettere a Valentinov di Gabriele Frasca possiede tutta la forza di un poema storico-epistolare russo, in prosa, in epistole o in versi poetici. Esso è una summa dell’intera opera del suo autore napoletano. Un testo multiforme, che, nei riferimenti alle pandemie principali degli ultimi cent’anni, trova la sua pertinenza con l’antropologia medica poiché esprime concetti molto vicini alla esperienza delle persone in carne e ossa. Il libro inoltre assume la potenza di edificazione di un mito politico: sa guardare al passato e rievocare la vicenda storica mondiale. Il testo e l’azione non fanno spigolature, vanno ben oltre la concisione, le parole sono dosate con estrema precisione, per ricostruire un secolo e illuminarne i fatti con competenza, capacità espressiva, scrittura e abilità recitativa.

Certo non si può dire che Lettere a Valentinov sia un romanzo epistolare come Giulia o la nuova Eloisa di Rousseau o I dolori del giovane Werhter di Goethe, ma già nelle otto epistole si dipana il resoconto della Russia rivoluzionaria con le gesta di Trockij, Lenin, Stalin e molti altri (numerosi sono i protagonisti dell’Unione Sovietica d’antan), nonché la stessa autobiografia dell’Autore. Negli altri materiali del libro si ribadisce la forza poetica di Frasca, in versi e no, ma, anche per motivi di spazio, è sulle Lettere che si concentra questo scritto.

Gabriele Frasca è tra i più grandi poeti italiani contemporanei, noto scrittore e traduttore, stimato professore di Letterature comparate, Media comparati e Letteratura italiana nell’Università di Salerno, membro del gruppo di “Storie corali”, con tante altre qualifiche e affiliazioni. In questo libro, egli ci offre un’autentica genealogia culturale, di sé stesso e delle sue conoscenze (a Napoli, a Roma, in viaggio con il treno per il mondo “grande e terribile”), dell’Oriente russo e dell’Occidente americano, in una forma poetico-politica di impegno e militanza capace di attraversare una vicenda culturale lunga un secolo, il Novecento, non più “breve” (come lo denominò lo storico Eric Hobsbawm) in quanto è stato in grado di recuperare dal terzo millennio quello che l’Ottocento, il secolo “lungo”, gli aveva tolto. Così ci parla di Lev Trockij, fornisce stralci di autobiografia e, in ultimo, raccoglie le proprie rime anche in forma di prosa, mettendo i propri versi al servizio della politica, della storia, della memoria.

Il riferimento alle due epidemie mondiali è speculare: la “spagnola” (questa grande influenza del 1918 non gode di buona memoria storica) si specchia nell’attuale pandemia da Covid-19 (che purtroppo ancora agisce da tre anni), anche in ragione del nesso dell’una con la Grande Guerra e dell’altra con l’attuale conflitto russo-ucraino. Fu chiamata febbre “spagnola” non perché provenisse dalla Spagna, ma in quanto i primi a denunciarla sulla stampa furono i quotidiani di quella nazione. In quella pandemia la connessione con la prima guerra mondiale fu molto forte, da entrambi i fronti, e la grande influenza si configurò come una vera catastrofe mietendo in un anno più vittime dello stesso evento bellico.

Lettere a Valentinov è dunque un autentico poema storico-critico che ci narra di oltre cent’anni contraddistinti da queste due pandemie. Dall’analisi di quella da Covid-19, condotta nella collaborazione con i gruppi di studio che interdisciplinarmente hanno realizzato le rubriche digitali “Storie virali” prima e “Storie corali” poi, si comprende l’uso politico della quarantena: tenere in disparte la gente per non far partecipare nessuno, per non consentire più alle persone di fare politica, per evitare di animare in carne e ossa la democrazia. In fondo per garantire la crisi democratica, il declino del sociale o la rivincita, la nuova avanzata, di tutto ciò che, anche se per poco, fu sconfitto illo tempore, a cominciare dal liberismo. Per questo Frasca fu chiamato già dal gruppo redazionale di “Storie virali” a chiudere il ciclo di rubriche online. E lo fece doppiando il Pasolini dell’“io so” in cui l’intellettuale, nel 1974, si impegnava per l’ennesima volta contro le ingiustizie sociali e politiche che avevano funestato l’Italia. Riflettendo sulla pandemia allora Frasca scriveva contro i nazionalismi storici e contemporanei, mutuando il lessico sovietico: “Nessuna pandemia si può sconfiggere all’interno di un singolo paese. E se la sanità non torna pubblica e gestita da un’internazionale della sopravvivenza della specie se non a questa spetterà alla prossima infezione virale cancellarci così senza alcun calcolo ma solo perché la vita sceglie le sue strade e ne lascia altrettante senza sbocchi” (p. 30).

Si riecheggia l’avversione alla tesi staliniana del socialismo in un solo paese, posizione che Bucharin presentò al XIII congresso del PCUS contro la nota idea di “rivoluzione permanente” di Trockij. D’altronde, il pasoliniano “io so” ben si offriva a Frasca per chiudere in monologo le “Storie virali” del Covid-19: “Perché di chi gestì le troppe crisi sanitarie diffuse per il mondo da cui si distaccò la pandemia noi conosciamo i nomi così come di quelli di quei vertici impuniti che agiscono dovunque perché regni l’ignoranza la morte e la paura” (p. 28).

Come si evince dalla grafica sovietica di copertina, l’intero volume di Frasca riguarda la rivoluzione bolscevica del 1917, cioè in una parola il comunismo, con la dovuta attenzione alle sue origini reali, ma anche con la giusta delocalizzazione internazionale, mondiale, soprattutto italiana e, quindi, autobiografica. Nei periodi storici raccontati oggi, a ben più di un secolo e mezzo dal Manifesto di Marx ed Engels, il comunismo era un fenomeno mondiale, vivo ovunque, e soprattutto in Italia: una “semplicità che è difficile a farsi”, per dirla con Bertolt Brecht che ne cantò la lode nei primi anni Trenta. Oggi, proprio quando forse un nuovo spettro dovrebbe aggirarsi per l’Europa e il mondo, esso non si diffonde più, e la vicenda pandemica, che nel 1918 e nel 2022 si rispecchia nei soldati di entrambi i momenti bellici, sta lì a dimostrarlo.

Nel 2017 a Roma alla Galleria Nazionale di Arte Moderna, si celebrarono i cent’anni della rivoluzione bolscevica. Tra aperitivi consumati come in un vernissage, si aggirava un gruppo teatrale, i Non-tanto-precisi, con il proprio spettacolo, Massacro. Teatro senza difese. Quanti nella grande sala della Galleria d’Arte attendevano il teatro di ricerca forse non si erano accorti che lo spettacolo era già cominciato. Li vedevo: continuavano a bere gli aperitivi colorati dell’happy hour. E ridevano masticando. In fondo sembravano a loro agio nella celebrazione edonistica di ciò che un tempo fu invece sofferta presa di coscienza e fiera lotta di liberazione. Entrando, rimasi colpito dal fatto che le riviste, i fogli, i ciclostilati, i quotidiani di critica e di lotta erano ora esibiti in vetrine e bacheche. Esposti in forme guidate da una malintesa e logora (non antropologica), idea di museo. Ne ricavai un’impressione negativa, perché mancava il miracolo politico quotidiano di chi sa conquistare la consapevolezza e condividerla e così getta le basi per cambiare la realtà, per una liberazione collettiva. Il gruppo teatrale dei Non-tanto-precisi, però, riuscì a esorcizzare quel clima creando, seppure temporaneamente, un nuovo tempo-spazio comune, collettivo.

Nel 2022, con Lettere a Valentinov, Gabriele Frasca riesce a realizzare una poesia di militanza, un progetto poetico-artistico, una scrittura politico-creativa a forte vocazione teatrale. Il laboratorio teatrale è la persona in carne e ossa, il corpo vivente, la presenza antidissolutrice, un’autentica logica della concretezza. È in questa vitalità del teatro che si può manifestare l’indole ancora attuale del comunismo per rivelarsi pienamente democratica e critica.

L’arte di Frasca manifesta le proprie poetiche in forma di epistole, rime, azioni e anche prose (si veda la performance creativo-politico-critica svolta il 17 settembre al convento degli Agostiniani di Melpignano, in provincia di Lecce, organizzata dallo storico del corpo Andrea Carlino): nel testo vi sono pagine di autentica poesia e politica e le lunghe Note (pp. 44-55), dedicate a “spiegare” le precedenti Lettere, vedono il ritorno delle virgole e quindi degli incisi: “A chi aveva partecipato agli eventi del ’77 difatti, sia pure confusamente, non era sfuggita non solo la svolta reazionaria in atto, ma soprattutto quanto occorresse imparare a diffidare dell’ottusità delle burocrazie, a partire da quelle che gestivano il grande partito di massa, e che spuntavano comunque come funghi ogni qual volta nasceva un partitino alla sua sinistra; per non parlare di quanto proliferassero, ferree e militarizzate, e almeno una volta tanto scopertamente sanguinarie, nelle organizzazioni che avevano da tempo scelto la lotta armata. Il tutto naturalmente stagliato sui bagliori inquietanti dei nuovi regimi fascistoidi che si suppone potrebbero avere in pugno il mondo occidentale, impoverito e ospedalizzato, nella data appena futura proposta” (pp. 48-49).

La genealogia di sé, pur sempre presente, è molto forte in questa lettera datata 12 ottobre 2027. È un altro anno con il 7, nel futuro prossimo il cinquantesimo anniversario del 1977, che a sua volta fu il sessantesimo del 1917. La mancata rivoluzione italiana in quell’anno 1977, che vide terminare ogni insorgenza, registrò tra l’altro la “cacciata di Lama” dall’Università di Roma La Sapienza il 17 febbraio. Un atto violento sul piano dell’azione e sarcastico su quello del linguaggio, oggi pienamente rivendicato da Frasca: «[F]u sacrosanto ricacciare Lama ripetendogli in faccia sacrifici sacrifici quel giorno di febbraio» (p. 24). C’è più di uno squarcio autobiografico in queste parole che solo così, a dispetto delle virgole – come in uno stream of consciousness, potevano forse essere dette.

La (auto)biografia di Gabriele Frasca è politica. E non vedo contraddizioni con la vita. Il ricordo forte di Trockji esprime la potenzialità inespressa di un’altra rivoluzione possibile, un bouleversement ininterrotto. Eppure, non c’è rimpianto, né nostalgia nella traccia poetica, che sempre più spesso Frasca spettacolarizza: egli ci sta abituando a vedere e ascoltare i suoi versi, declamandoli ad alta voce su un palco o narrandoli collettivamente e pubblicamente insieme ad altri, artisti e intellettuali, stante come si diceva la vocazione teatrale dei suoi scritti.

Il libro racconta anche cosa fu lo stalinismo, quel tradimento dell’opera rivoluzionaria leniniana che Stalin aveva avviato fin da cento anni orsono (1922) e che mise in atto poi per tutto il suo mandato di capo dell’URSS, periodo che si concluse solo con la sua morte (1953). In una lettera del PCI al PCUS del 14 ottobre 1926, tempestivamente scritta da Antonio Gramsci rivolgendosi ai “Cari compagni” russi e inviata Togliatti a Mosca perché la trasmettesse, ma che il futuro segretario del PCI non consegnò mai, si dice: “Voi oggi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista dell’URSS aveva conquistato per l’impulso di Lenin; ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale” (A. Innocenti Periccioli, Giorni belli e difficili: l’avventura di un comunista, Jaka Book, Milano, 2001, p. 31).

Nella costellazione delle lettere comuniste, anche questa missiva ricoprirebbe un ruolo molto importante, a mio avviso. Proprio quella «passione violenta delle quistioni russe», adagiata nella parola poetica  ancorché drammatica di Frasca, ridiventa attuale, contemporanea. Nel libro di Frasca, è evocato con molta pertinenza l’aggettivo «molecolare» (p. 24).

Le lettere a Valentinov sono otto e le date che esse recano nell’intestazione sono molto significative. Per gli eventi, ma anche per l’Autore stesso, che sceglie specifici giorni per intrecciare storia e memoria alle poetiche e politiche del sé. Così se la data della prima lettera è il 20 agosto 1997, giorno della morte di Vittorio Russo, filologo e trockijsta, maestro di Frasca all’Università di Napoli Federico II, altre sono storiche, come il 20 luglio 1969, giorno dell’allunaggio, o il 14 novembre del 1974, quando sul “Corriere della Sera” apparve il celebre articolo Cos’è questo golpe? Io so di Pier Paolo Pasolini, poi ripreso dall’Autore per “Storie virali”, come abbiamo ricordato.

E come è nato questo libro? Non mancano le spiegazioni: nel 2018, lavorando alla Prefazione dell’edizione Mondadori di Storia della rivoluzione russa di Lev Davodivich Trockij, Frasca scopre una lettera a Valentinov scritta dal noto trockista Christian Georgievič Rakovskij, figura che dominava il panorama della opposizione di sinistra e che sfuggì insieme a pochissimi altri alla condanna a morte dopo la fine di Lenin e l’avvento di Stalin e delle sue “purghe”. Poi acquista un Diario d’esilio. 1935 di Trockij nella traduzione italiana del 1974 e vi trova scritto il nome di una certa Elena, come scrive nel testo delle Lettere e delle Note, immaginando di averla incontrata: “Lettere: e sulla pagina iniziale di fianco al logo e al marchio della collana c’è vergato un nome di un bell’inchiostro nero con la data Elena ma con l’e che sembra proprio un epsilon e poi ’74 e non ci ho messo molto a rivederla senza che ne distingua i tratti o gli occhi sdraiata accanto a me su una cuccetta d’un vecchio treno a lunga percorrenza (p. 41)”. “Note: Seguendo le peripezie del volume che raccoglie l’edizione italiana di questo diario, acquistato usato nel periodo in cui stavo preparando l’introduzione alla Storia della rivoluzione russa apparsa poi nel 2018 per Mondadori, il metodo rapsodico scelto per queste lettere intercetta un altro anno, il 1974, proprio quello dell’articolo di Pasolini, grazie alla data che si legge vergata sulla prima pagina della mia copia, accanto al nome della proprietaria di allora. Quell’ignota Elena, per me e per sempre l’Elena di Trockij, è entrata in questo modo nella mia vita” (p. 54).

Chi è Valentinov, infine? Risponde ancora Frasca: “Ritengo il Nikolai che fu fra i grandi fautori della NEP poi emigrato per un pelo a Parigi in quello stesso anno sospeso un po’ per tutti a un filo la lettera d’analisi più acuta sui danni irreversibili al progetto d’una democrazia che proletaria non lo divenne mai e sul riflusso e l’estraniarsi stesso delle masse dalla rivoluzione mai compiuta” (p. 10).

Cosa non andò nella rivoluzione? Forse doveva essere perpetua? Ad ogni modo oggi il terzo millennio mostra tutta la sua drammaticità. L’ultimo triennio è stato sconcertante in Italia, in Europa e nel mondo: crisi di governo e rapida indizione delle elezioni, guerra Russia-Ucraina, pandemia.

A fronte di questi elementi, in chiusura affermiamo una consapevolezza, rivolgiamo una domanda e diamo una risposta: sappiamo che il secolo si era aperto con promesse rivoluzionarie, poi mantenute in Russia (in Italia ci furono invece la marcia su Roma e il fascismo), ma qual è la ragione per cui siamo oggi costretti a subire una crisi triplice, quadruplice e chi più ne ha più ne metta? La risposta è: forse perché ci stiamo ammalando di neoliberismo.

Seguendo questa sentenza, con Lettere a Valentinov Gabriele Frasca ci spiega cosa è successo nell’ultimo secolo e perché abbiamo raggiunto tale folle alternativa. Come in un canto di lode, schiudiamo gli occhi in alto e diciamolo addio.

giovanni.pizza@unipg.it

 

 

 

 

 

L'autore

Giovanni Pizza
Giovanni Pizza è professore ordinario di Antropologia medica e culturale presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione (FISSUF) nell’Università di Perugia e direttore della Rivista “AM” della Società italiana di antropologia medica (SIAM), ora pubblicata in open access. Tra i volumi monografici curati vi sono: Figure della corporeità in Europa (“Etnosistemi, Processi e dinamiche culturali”, A. V, N. 5, CISU, Roma 1998); con H. Johannessen, Embodiment and the State. Health, Biopolitics and the Intimate Life of State Powers (“AM. Rivista della SIAM”, N. 27-28, Argo, Perugia-Lecce 2009); con A. F. Ravenda, Presenze internazionali. Prospettive etnografiche sulla dimensione fisico-politica delle migrazioni in Italia (“AM. Rivista della SIAM” N. 33-34, Argo, Perugia-Lecce 2012) ed Esperienza dell’attesa e retoriche del tempo. L’impegno dell’antropologia nel campo sanitario (“Antropologia Pubblica”, V. 2, N. 1, Clueb, Bologna 2016). È Autore di numerose pubblicazioni, tra le quali i seguenti libri: L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione (Carocci, Roma 2020); Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura (Carocci, Roma 2015); La vergine e il ragno. Etnografia della possessione europea (Quaderni di Rivista Abruzzese, Lanciano 2012); Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo (Carocci, Roma 2005); Miti e leggende dei pellerossa (Newton Compton, Roma 1988).