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L’antropologia del teatro: Giacchè e Bene

Piergiorgio Giacchè è un uomo fortunato ad aver incontrato i grandi maestri del teatro di ricerca: Carmelo Bene, Jerzy Grotowski, Eugenio Barba e altri. Anche noi lo siamo: costoro per me rappresentano i maestri di un maestro!

Bene è un figlio del Salento, nato in questo lembo di terra che corrisponde alla provincia di Lecce e che ha visto nascere anche colui che per primo ha scritto un Trattato di Antropologia Teatrale: Eugenio Barba, un regista teatrale, mentre Bene è soprattutto un attore. Questo tacco, che è a “Sud del Sud dei santi”, direbbe Bene – un sudoriente nel suo complesso, come la ferrovia Sudest che lo attraversa – è la loro “patria” anche se il grande attore, criticando il concetto nella sua poesia Nulla patria in propheta, capovolge il detto evangelico Nemo propheta in patria.

Il Salento è una striscia di terra lunga un centinaio di chilometri e larga una quarantina, contiene cento paesi e, ben prima di diventare una ambita meta turistica, aveva generato artisti e attori del calibro di Bene e Barba e grandi poeti e scrittori (Bodini, Comi, Toma, Durante…). È diventato poi un luogo della memoria antropologica d’Italia: terra di tarantismo, la possessione da ragno, la danza terapeutica unica in tutto il mondo, studiata dalla nota ricerca di équipe che Ernesto de Martino svolse nel 1959, titolando l’etnografia Salento 1959, anche se il libro di cui è parte, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, uscì due anni dopo, nel 1961 presso Il Saggiatore di Milano

Sono interessato ai beni culturali lì collocati, compresi quelli teatrali anche perché il Salento è un finis terrae che spinge a guardare oltre i suoi più sensibili abitanti (su cosa era e cosa è ora il tarantismo vedi G. Pizza, Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura, Carocci, Roma, 2015). Talora quell’oltre, quell’altrove, accomuna nello spaesamento il teatro e l’antropologia: vedere le cose come fosse la prima volta che vi si posi lo sguardo.

Questa coniugazione fra antropologia e teatro trova il suo suggello in quella che nel libro Nota Bene di Piero Giacchè (Kurumuny, Calimera-Lecce, 2022) è definita “fuga verso Roma” di Bene che avviene proprio nell’anno 1959, lo stesso che vede la fine del mondo contadino e il successo della teoria demartiniana del “relitto folklorico” inteso come ciò che resta dopo la fine del folklore. Barba, invece, va verso il Nordeuropa, dove diventa allievo di Grotowski alla Scuola di Varsavia prima di fondare l’Odin teatret in Danimarca, mettendo in pratica la sua “antropologia teatrale”.

Il più forte connubio fra antropologia e teatro è incarnato, però, proprio da Giacchè, che nell’Università di Perugia ha insegnato sempre Antropologia del teatro e dello spettacolo e attualmente insegna Oralità e performance nella Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici di Castiglione del Lago, al confine tra Umbria e Toscana, in provincia di Perugia. In Nota Bene, la parola antropologia e i suoi derivati aggettivali e avverbiali compaiono trentacinque volte.

Nell’autunno del 2021 abbiamo organizzato un convegno dal titolo Novecento e teatro che fu aperto da una lezione magistrale di Giacchè dal titolo C’era una volta il teatro, c’era una volta l’antropologia. In quella occasione il “c’era una volta” apriva al mondo fantastico delle fiabe, per dichiarare che non si può fare la storia del teatro, ma anche per dire che certi spettacoli non-spettacoli non si possono vedere più. A maggior ragione dopo Bene. Si tratta di una antropologia che dallo studio della cultura popolare europea è passata alla cultura di massa, e oggi alla pandemia e alla guerra. Un tempo, questo, davvero difficile.

Dopo la scomparsa di Bene, Giacchè si chiede: «Come può morire un attore del teatro “vivente”? Come si può accettare e poi accertare che non ci sia più qualcuno che non c’è mai stato? Come può accadere che sparisca di scena il teorico della sparizione? Il “principe dell’assenza” direbbe un dotto amico?» (P. Giacchè, Nota Bene, p. 11).

Il riferimento all’amico è relativo al libro del 1981 di Giancarlo Dotto.

Produrre una commemorazione immemoriale è il necessario ossimoro, il vero “paradosso dell’attore”. Per tre anni Giacchè è stato presidente della fondazione L’immemoriale, per testamento di Bene fatto nel 2000. Poi affondata, per così dire, dalla sua famiglia anche se ora forse esiste un Archivio Bene presso la Regione Puglia. “Immemoriale” fu termine scelto da Bene e ispirato dal poeta Vittorio Bodini, suo amico, per indicare la dimensione intangibile e non storica del teatro.

Nota Bene di Giacchè è un vero libro ossimorico. Esso raccoglie ventuno scritti, inclusa l’introduzione, rischiando una cosa negativa stante l’artista di cui tratta: far passare alla storia chi la storia la ha sfidata. I testi coprono vent’anni che vanno dal momento della pubblicazione, avvenuta in occasione del ventesimo anniversario della morte dell’artista, retrocedendo fino al 2000, due anni prima della sua morte, quando a parlare è ancora lui stesso.

Nella stesura del libro basta che Giacchè tolga o aggiunga una o due lettere e proceda nella scrittura ironicamente per assonanze, che le parole italiane cambiano di significato, per esempio: accertare/accettare, finita/finta/sfinita, favola/fabula, visione/versione, profeta/poeta soddisfatta/assuefatta, estasi/estetica, unicità/unità, vincente/convincente, espirazione/ispirazione, intenzione/intuizione, appagata/pagante, difende/sospende, vuoti/voti, alto/Altro, altare/altura e così via. In ciò c’è un’evidente raffinatezza nell’uso di una lingua che viene forzata per produrre l’antropologia del teatro. È dallo straniamento che ne deriva che si può guardare con un approccio antropologico al teatro di Bene. D’altronde è proprio il grande attore a capovolgere le locuzioni e i titoli per sfidare il senso comune, come abbiamo poc’anzi evidenziato con il detto Nemo propheta in patria. In un altro Poema inverte il baudelairiano I fiori del male in ‘l mal de’ fiori per fare un’operazione che meglio esprima l’opera sua, lo scandalo o il capolavoro di sé.

Il lessico beniano è fatto di parole che si coniano e si usano al tempo stesso: immemoriale, verticalità, phoné, depensamento, assoggettamento, termine quest’ultimo con il quale, scopriamo con Giacchè, Bene soleva, correggere chi dicesse soggettività.

Prendiamo la verticalità. Bene chiude la comunicazione orizzontale, frontale con il pubblico perché non ama l’orizzontalità quanto la verticalità. E qui che si apre ogni possibilità di corrispondere da pubblico. Quindi non si chiude la condivisione solo che la posta in gioco diventa più alta. E la voce si sublima nella verticalità. Jean-Paul Manganaro, uno dei suoi migliori interpreti, ha detto che la voce di Bene è eidetica, cioè capace di cogliere le essenze delle parole (J.-P. Manganaro, Il pettinatore di comete, in: C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, Feltrinelli, Milano, 1981). Ma il soggetto verticale chi è? È Bene, poiché la vicinanza e il controllo sociale, dati nell’orizzontalità (così come la cosiddetta razionalità), sono per lui elementi da evitare.

Vi è, però, una seconda accezione di verticalità, fatta di impenetrabilità tra arte e persona, di sospensione del tragico: si osserva il gesto e si fa lo sgambetto sempre a sé stessi, trovandosi cretini e ridicoli, facendo della tragedia e della parodia la stessa cosa che ne facevano gli attori antichi, giullari autoironici.

Si entra nella grande arte uscendo dal teatro, sfuggendolo come rappresentazione, sottraendo e non aggiungendo. La verticalità è centrale, un vero turning point, secondo Giacchè essa intende evitare il contesto e la comparazione poiché fonda una tensione antropologica verso l’Altro che mette in scena, e con fatica, proprio la dimensione del togliere dalla scena.

Dal versante drammaturgico è verticale il monologo, non il dialogo, e la verticalità implica una scenografia che separa l’attore dagli altri, come ad esempio fece Bene negli anni Sessanta, quando letteralmente chiuse la quarta parete con vetrate che isolavano il pubblico, imponendo allo spettatore inerme la sua presenza/assenza. E le persone che assistevano ai suoi spettacoli diventavano sempre più conflittuali, si verificava una separazione tra quanti osannavano il Maestro e quelli che invece si arrabbiavano contro di lui.

Bene ha perseguito la dimensione verticale del verso poetico. La verticalità esprime la quintessenza del rapporto fra teatro e poesia ed è spiegata da Antonio Attisani come emblema “rivoluzionario” del teatro novecentesco (A. Attisani, Scena occidente, Cafoscarina, Venezia, 1995, e si veda anche il dialogo dello studioso di teatro con il filosofo Carlo Sini in La tenda. Teatro e Conoscenza, Jaca Book, Milano, 2021).

Come Shakespeare o Moliere, fondando il suo teatro sulla voce, la phoné della scrittura scenica, Bene svolge un connubio tra arte teatrale e poesia. La sua capacità di sottrarre non è mai una perdita, ma casomai il contrario. È la verticalità che consente alle parole di sottrarsi alla banalità del senso comune. Quella di Bene è dunque una voce che ha una funzione estetica accreditata, meno riconosciuta è la potenza critica della sua voce che come scrive Giacché, non si perde nell’effetto ma evidenzia la causa contro il nesso logico.

Come mai si chiudeva anzitempo il suo sipario per qualche rumore o qualche contrasto con il pubblico? Lo spiega Giacchè. Perché il migliore attore che sia mai stato in scena ricorda a tutti che non si è a cinema o alla tv, ma in un teatro vivente «Dove l’incidente del processo artistico vale più della sostanza del prodotto spettacolare» (Giacchè, Nota Bene, p. 52).

Chiudere il sipario è stato per Bene un “atto di nascita”, il suo Cristo ’63 prende il pubblico a torte in faccia e poi lo manda via (ibidem). Nell’ultima fase del teatro di Bene l’attore può sovrastare il suo pubblico ormai liberato dallo spettacolo di sé, dalla rappresentazione, per volare su di esso nella pronuncia del verso. Uscire dalla rappresentazione, infatti, non è una polemica, ma una poetica. Per lui è da prendersi alla lettera il testo Carmelo Bene. Il teatro senza spettacolo, come nel titolo del libro curato da Pierre Klossowski (Marsilio, Venezia, 1990).

L’analisi e il ricordo di Giacchè riguardano certo un genio del Novecento, ma Nota Bene è un ordo rhetoricus che rompe il tempo, che frammenta la distanza che ci separa da Bene. Una Summa antropologica scritta in assenza dell’artista, ma che si aggiunge a quello studio più analitico e monografico del 1997 che è Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, scritto in presenza del grande attore e ineludibile per chi voglia studiarne oggi il teatro anche dal versante antropologico. Avere collocato alla fine del libro la viva voce del grande artista due anni prima della sua morte è stata davvero una scelta geniale. Non solo perché in tal modo si conferma quanto nei saggi Giacchè è andato esaminando – cioè la mancanza dell’amico, la celebre apparizione alla madonna e il “monologo dei cretini”, il rapporto con il corpo, con la poesia, con il genere, con l’alterità, con il Sud e con la religione, con la cultura popolare; il personaggio pubblico, il privato, i suoi film, il calcio e Maradona – ma anche in quanto l’opera resta aperta e il senso che ci dà parte dai saggi più recenti per andare a leggere quelli di venti anni fa. Anche nella scrittura, retrocedendo verso il 2002, si avverte la nostalgia per la perdita ed è un bene aver distolto questi riferimenti alla morte dell’amico-attore dalla lettura immediata. Così a distanza di quasi venti anni si ha un bilancio dell’arte d’attore di bene e non un ricordo dell’amico dopo la fine.

Esserci per non esserci, apparire sparendo. Questo è il dettato dell’antropologia del teatro di Bene e di Giacchè. Quest’ultimo si misura anche con i maestri dell’antropologia di differente nazionalità e generazione, quali ad esempio Ernesto de Martino, Victor Turner, Francesco Remotti, Domenico Scafoglio, usando come metodo forme di devozione e partecipazione. L’antropologia e l’etnografia non si separano, come vorrebbe Tim Ingold, ma sono due facce del medesimo comandamento: l’osservazione partecipante che secondo Giacchè,

«è la condizione e la contraddizione di chi fa esperienza sul campo, e dunque anche dello spettatore a teatro. Obbedire a questo comandamento è il minimo che si richiede a un antropologo, e il massimo che si poteva fare nell’incontro con Bene. Partecipare è stato più facile che osservare, perché Carmelo – in questo simile a tutti gli artisti – accetta solo e accerta sempre la disponibilità e l’affezione di chi lo frequenta. Più complicato ma infine meno utile è stato scoprire il proprio punto di vista, che poi va soppresso o almeno sottomesso a quello dell’artista. L’arte è un campo altro, anzi dell’Altro e – come si impara e si subisce in ogni ricerca e in ogni campo – è lui il padrone e cioè il maestro “di quei saperi di cui l’antropologo va alla ricerca” (insegna Francesco Remotti, maestro di antropologia): è dunque inevitabile adeguarsi pur senza adagiarsi, rispettare e copiare il suo linguaggio, collaborare per quanto si può e condividere per quanto non si può» (Giacchè. Nota Bene, p. 14).

Bagnata nel teatro, l’antropologia punta a sviluppare l’osservazione partecipante lavorando anche con il pubblico. Si prospettano futuri mondi beniani possibili dove, dice Bene con la sua viva voce:

«Eterno è tutto ciò che non è immortale […] forse [….] chi ha deposto anche l’arte, chi ha svissuto tante vite, chi è morente come io sono, e al tempo stesso in-vulnerabile, conosce questa contraddizione. E l’affronta anche a teatro dove ancora una volta io ho davvero la vergogna di ’mancare’. Perché dovrò pur esserci, per non esserci, in scena» (ivi, p. 207).

In questa complessità Giacche si rispecchia con l’antropologia del teatro.

Forse dopo Bene, di là dalla nostalgia che con Giacchè proviamo per lui (quella dell’antropologo è nostalgia di un’amicizia, assenza dell’“antropologia” beniana, scomparsa dei contadini, scarsità della cultura, penuria di feste, è la mancanza del Sud, insomma, che lo fa intervenire su Cassano e il suo Pensiero meridiano – Laterza, Roma-Bari, 1996 – per dire che per noi il Sud non è una regione spaziale bensì «un luogo di fondazione della spiritualità» (Cassano, Il pensiero meridiano; ma anche di ferite e sofferenze, aggiungo io) dopo gli sparagmi, termine che indica i frammenti di un rito andato perduto ovvero le lacerazioni di una performance non più ricomponibile, dopo tutto questo, nonostante la sua scomparsa, l’amico resta  “come un arto fantasma”, perché l’amicizia è una linea, diversa dalla freccia dell’amore (Giacchè, Nota Bene, p. 182).

Delle sue opere resta quella crudeltà del cui teatro Artaud è stato il pensatore. Il teatro della parola-grido, della parola-suono, della parola poetica: il verso. La parola “corpo”, poi, trova una nuova legittimità, rinunciando alla sua funzione semiologica per assumere un valore di nuova intenzionalità comunicativa proprio nel momento in cui svela e autodenuncia il suo facile gioco, come un gesto che osserva se stesso in una riflessività che è essa stessa riflessiva, autoscrutinantesi, e che va oltre la semiosi del corpo, oltre il corpo stesso. Il corpo che si fa parola e la parola che si fa corpo può servirsi solo dell’ironia, della magia, dell’arte, per mostrarsi sparendo e sparire mostrandosi. Come è nei controtempi ossimorici della marionetta Totò («Fermo con le mani!»). O nel teatro del grande maestro, il migliore, cui siamo grati di essere stati a lungo suoi contemporanei: Carmelo Bene, ovvero il teatro della Voce, dell’Urlo. «della parola che dissacra» e, per continuare a dirla con Pier Paolo Pasolini «che smerda se stessa» (P. P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, “Nuovi Argomenti”, nuova serie, N. 9, gennaio-marzo 1968). Per questo il corpo è negato e trasceso nella voce. Come nelle trasfigurazioni luminose di un monologo o come nel saluto e il lancio di baci al pubblico di un Carmelo che inciampa nel corpo proprio (Giacchè, Nota Bene, p. 57).

Impotenza e dimenticanza, combinate insieme, diventano componenti sempre presenti e quindi inevitabili nel destino dell’attore. L’inazione e il depensamento, costituiscono emblematiche parole chiave che possono spiegare la vanità dell’umano, ma che pur si riflettono nell’azione scenica che non è rappresentata.

Bene, dice Giacchè, è un attore assoluto, nel senso di absolutus, sciolto, libero. Anche se la sua presenza in scena è potente come un monumento, ma il suo principio è opposto, è l’assenza, l’essere libero di volare sopra il proprio pubblico come san Giuseppe da Copertino. Poiché egli è una voce, ma sa ascoltare; la sua voce vivifica i testi pronunziati e tra attore e autore non vede soluzione di continuità. “Ascoltiamo”, dunque, le molte sue opere.

Si scopre con Giacchè che la regione Umbria lo aveva convinto a tenere – ad Assisi sulla tomba di san Francesco o a Santa Maria degli Angeli – un recital di fine anno da fare nel 1999, poi infine i politici sono stati cacciati via da Bene e la cosa non si fece, ma non è per il fallimento che Giacchè ricorda questa eventualità non realizzata, quanto per dire che era il suono che valeva per Bene nella scelta dei versi, non il senso: musiche e testi erano già pronti all’avvio del ’98.

Come Artaud egli valorizzava la parola-suono non la parola segno: Bene era il nuovo Artaud. Tra mistica e poesia ad Assisi avrebbe letto brani di Angela da Foligno, di Dante su san Francesco, per tornare poi dalla parola suono alle vere e proprie musiche e per terminare con il più grande e complesso esempio di testo mistico e poetico da lui prediletto: la salita al monte Carmelo, di San Giovanni della Croce.

Il 31 luglio del 1981, per ricordare la strage di Bologna dell’agosto 1980 davanti a un pubblico di decine di migliaia di persone, Bene tenne una Lectura Dantis sulla Torre degli Asinelli promossa dall’allora sindaco Renato Zangheri. Era un evento, che per quegli anni aveva dello straordinario e come dice Bene stesso. in quella lettura «di alta poesia è l’ascolto che conta» (ivi, p. 44.)  La sua è una «voce in ascolto» (ivi, pp. 25, 27, 63, 173). Scopriamo anche che il titolo della sua Autobiografia Sono apparso alla Madonna deriva da quella serata: quando, un anno dopo, Ruggero Orlando lo incontrò, gli disse «ho saputo che sei apparso alla Madonna» (ivi, p. 45) e Carmelo pensò che fosse stato una sorta di miracolo quell’evento in piazza «È a Madonna la piazza che si appare» (ibidem). La folla-pubblico aveva trasformato quella cerimonia in un commovente evento miracoloso. La grana della voce di Bene aggiunge la critica alla lettura di Dante. Come scrive Giacchè la Torre per Bene non fu un pulpito da cui poetare, ma un «fuggire verso e dentro la sua verticalità indefinita» (ivi, p. 46).

Carmelo era decisamente il più grande, forse il migliore attore del Novecento, uomo – teatro (una definizione che Jean-Louis Barrault aveva proposto per Antonin Artaud), e non solo: regista, drammaturgo, scrittore e autore di opere teatrali e cinematografiche, radiofoniche e televisive nonché filosofo e poeta. Egki ha fatto più di sessanta spettacoli, nove in cinema tra corti e lungometraggi cinematografici, nonché venticinque edizioni televisive.  Ma è nell’“attorialità” che realizza l’ideale di Stanislavski mettendo insieme poesia, intellettualità e teatro. Attore “postumo” (Cesare Garboli) o attore “poeta” (Antonio Attisani), Bene ha avversato ogni forma di rappresentazione. In questo è stato molto artaudiano: il suo teatro non rappresentativo è un teatro crudele fatto dal suo capolavoro, cioè da sé stesso.

Infine, la sparizione dell’attore in scena, molto faticosa, è una tecnica da individuare. L’importanza dei fuochi di artificio risiede più nel loro magico sparire che nel loro intenso apparire. Ed è sottolineata da Giacché nel suo precedente libro, mentre Maurizio Grande ha scritto che per Bene “Attore sarà colui che non è” (M. Grande, La grandiosità del vano, in C. Bene, Lorenzaccio, Nostra Signora Editrice, Roma, 1986). E Bene chiosa «Non esisto, dunque sono, Altrove. Qui» (Giacchè, Nota Bene, p. 40, 64, 135). Non più la rappresentazione, dunque, ma ciò che è irrappresentabile.

In teatro comunemente si crede o si dà per scontato, sia tra il pubblico che tra gli attori (e registi), che l’azione si costruisca nel fare movimento mentre al contrario essa risiede maggiormente nel lavoro di sottrarsi al movimento. Ma appunto sottrarsi al movimento chiede un lavoro fisico tutt’altro che passivo: per non fare bisogna essere in grado di mettere in atto una sottrazione che è l’indole dell’azione fisica viva della scena. È questo genere di lavoro che dà corpo allo spazio e lo apre consentendo anche allo spettatore di giocare la sua parte nella visione attiva, cioè in una visione che compone gli elementi che l’attore gli propone in partitura. Per esempio, in una scena di immobilità l’attore non rappresenta, se non proprio il lavoro fisico che serve per mantenere quella che solo per comodità chiamiamo immobilità. L’attore respira, le sue palpebre battono, le sue membra hanno spasmi incontrollati: non c’è immobilità! È tutto lavoro emergente che può manifestarsi rivelando la trasformazione del corpo scenico. Il corporeo della scena, la sua fisicità, risiede in questo lavoro di sottrazione e non nei meccanismi e nelle pratiche della rappresentazione che rendono inutile, dannoso e talvolta volgare gran parte del teatro che gira.

In Pinocchio, ad esempio, Bene quasi non si muove durante gli spettacoli (se non con piccoli, calibrati e intensi tentennamenti) eppure diventa un autentico burattino di legno in scena come non si era mai visto, dicono gli osservatori.

E li che lui, da grandissimo attore, riesce a “minorare”, direbbe il filosofo francese Gilles Deleuze, i personaggi della scena come fa anche con Shakespeare, che, come altri, subisce un intervento di sottrazione. Per esempio, il suo lavoro su Amleto è un Amleto di meno non di più, come nota Deleuze. In ben cinque riscritture sceniche avviate nel ’61, egli riduce gradualmente la scena e diminuisce sempre più i ruoli, è Hommelette for Hamlet; infine fa una sintesi affidata prima a tre poi solo a due presenze: è Hamlet suite del ’94.

“Minorando” Shakesperare alla fine Bene ottiene il suo obiettivo: non agire, tranne la phoné. È la macchina attoriale. L’attore assoluto, absolutus nel senso di sciolto: non recita, non rappresenta, ma è libero di trzsformarsi nel  testo: La macchina attoriale non fa il Faust. È il Faust. Ed è una immensa fatica, sostiene Bene. L’attore beniano dilata il testo, impegnandolo alla forza dell’urlo, della parola, della lingua, della phoné; decostruisce il proprio corpo, spossessandolo da sé e facendone possessione dell’altrove, andando, insomma, fuori di sé, per sottrarsi alla scena, per non esistere e dunque essere grande attore, per guadagnarsi la “maiuscola” di Attore, direbbe Giacchè.

La macchina attoriale, la verticalità quasi perfetta è proprio quella Torre degli Asinelli che a Bologna lo fa “apparire” alla Madonna. È questo diventare macchina attoriale è l’obiettivo di Bene:

In questo tempo di ferro e di fuoco, in sua assenza, che è una forma di presenza, il teatro di Bene assume, come diceva Deleuze, un senso politico costituente:

«Questo teatro critico è un teatro costituente, la Critica è una costituzione. L’uomo di teatro non è più autore, attore o regista. È un operatore. Per operazione, bisogna intendere il movimento della sottrazione, dell’amputazione, ma già ricoperto dall’altro movimento, che fa nascere e proliferare qualcosa d’inatteso, come in una protesi» (G. Deleuze, Un manifesto di meno, in C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, tr. it. di J.P. Manganaro, Quodlibet, Macerata 2002, p. 88)

Il teatro di Bene sospende la tragedia del corpo e va ben di là da esso. Eppure, oltre il corpo, resta l’ineffabilità incarnata e inciamparvi alla fine di uno spettacolo lo conferma, come fa Bene ed etnografa benissimo Giacchè (P- Giacchè, Nota Bene, p. 57).

Si tratta di un’indicibilità che si frappone alla coscienza e si sviluppa ben oltre il significato. È molto teatrale la scrittura del corpo, anzi dal corpo. Per procedere, dunque, dopo o prima di Bene, si impone l’etnografia ordinaria, focalizzata sulla dimensione quotidiana dei processi di incorporazione della figura attoriale. È questa l’antropologia del teatro.

giovanni.pizza@unipg.it

 

 

L'autore

Giovanni Pizza
Giovanni Pizza è professore ordinario di Antropologia medica e culturale presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione (FISSUF) nell’Università di Perugia e direttore della Rivista “AM” della Società italiana di antropologia medica (SIAM), ora pubblicata in open access. Tra i volumi monografici curati vi sono: Figure della corporeità in Europa (“Etnosistemi, Processi e dinamiche culturali”, A. V, N. 5, CISU, Roma 1998); con H. Johannessen, Embodiment and the State. Health, Biopolitics and the Intimate Life of State Powers (“AM. Rivista della SIAM”, N. 27-28, Argo, Perugia-Lecce 2009); con A. F. Ravenda, Presenze internazionali. Prospettive etnografiche sulla dimensione fisico-politica delle migrazioni in Italia (“AM. Rivista della SIAM” N. 33-34, Argo, Perugia-Lecce 2012) ed Esperienza dell’attesa e retoriche del tempo. L’impegno dell’antropologia nel campo sanitario (“Antropologia Pubblica”, V. 2, N. 1, Clueb, Bologna 2016). È Autore di numerose pubblicazioni, tra le quali i seguenti libri: L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione (Carocci, Roma 2020); Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura (Carocci, Roma 2015); La vergine e il ragno. Etnografia della possessione europea (Quaderni di Rivista Abruzzese, Lanciano 2012); Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo (Carocci, Roma 2005); Miti e leggende dei pellerossa (Newton Compton, Roma 1988).