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Ancora sul tarantismo: la tela infinita può rispiegarsi

L’immagine che ne deriva è quella di una fitta rete discorsiva,
una tela infinita, che continuamente si disfa e si ricompone…
Sergio Torsello

Nel 2021 Vincenzo Santoro ha pubblicato due nuovi lavori sul tarantismo pugliese. Di uno è l’Autore. Si tratta del libro Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale, il volume di cui discuteremo qui. Di Percorsi del tarantismo mediterraneo è invece il Curatore.

Questi due libri escono a sessant’anni dall’apparizione, per i tipi del Saggiatore di Milano, della Bibbia del tarantismo: La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, capolavoro di Ernesto de Martino (1961a). Essi sono connessi tra loro non solo per Autore / Curatore e tematica, ma anche perché entrambi sono apparsi ad Alessano (provincia di Lecce) per ItinerArti Edizioni, la nuova casa editrice di Antonio Santoro, fratello di Vincenzo, con copertine disegnate rispettivamente da Donatello Pisanello (“Il tarantismo mediterraneo”) e Marialucia Musca (“Lineamenti arati”).

Alla monografia, pur senza disarticolare la nozione di “Mediterraneo”, Santoro affida gli esiti della sua ricerca in biblioteca, luogo dove ricostruisce e/o attraversa numerose ed effettive delocalizzazioni del tarantismo salentino “doc”, passando in rassegna una letteratura talora conosciuta, talora ignota anche agli specialisti del fenomeno.

Nella curatela, che ha dedicato ai Percorsi, egli raccoglie saggi di Sergio Bonanzinga, Marco Lutzu, Goffredo Plastino (tre etnomusicologi) e Gino L. Di Mitri (uno storico). Gli antropologi della musica trattano rispettivamente della Sicilia, della Sardegna e della Calabria. In un saggio collocato al termine del volume contravvenendo all’ordine alfabetico, quasi come fosse una postfazione erudita, lo storico, invece, riflette sul tarantismo attraverso gli sguardi scientifici di quanti ne hanno elaborato la teoria, come nelle audaci sinestesie tra colori e suoni proposte sia da padre Matteo Zaccolini da Cesena, vissuto tra il 1574 e il 1630, sia dallo stesso de Martino, vissuto tra il 1908 e il 1965, che, nel medesimo anno 1961, continua a scrivere di Tarantismo (de Martino 1961b) anche dopo il celeberrimo Commentario storico della Terra del rimorso.  È uno spaccato del Mediterraneo sub specie tarantistica che riesce a scongiurare la nostalgia socioculturale della disarticolazione di questo mare-territorio, inteso in questi lavori come spazio reale che trova un’area centrale nel Mezzogiorno italiano.

I due libri compongono un dittico che nel 2021 non solo ha coperto il sessantesimo anniversario della pubblicazione della Terra del rimorso, ma ha ripreso anche spunti emersi al convegno svoltosi a Nardò (provincia di Lecce) all’avvio dell’estate del 2019 per celebrare il sessantesimo anno della “spedizione” dell’équipe demartiniana in Salento, avvenuta nel giugno 1959. Nella vicenda italiana dell’antropologia si conoscono molte «patrie elettive» della memoria culturale antropologica del nostro Paese. Il Salento è decisamente tra queste.

È bene ribadire qui cos’era il tarantismo studiato da de Martino e dalla sua squadra etnografica interdisciplinare.

Connesso al culto di san Paolo, il tarantismo consisteva nella cura rituale dell’avvelenamento derivante dal morso della tarantola. Il rituale avveniva attraverso una danza terapeutica basata sul simbolismo dei colori e sulla musica prodotta a pagamento dalle orchestrine locali costituite da violino, tamburello, organetto e chitarra, generalmente nell’ambiente domestico e al cospetto di un’immagine del santo.

Secondo gli storici della medicina il tarantismo era riuscito a ingannare la Chiesa mascherando la sua natura selvaggia e mostrando l’aspetto terapeutico per non finire sul rogo, altrimenti vi sarebbe stato destinato quasi sicuramente. Nel campione prodotto dall’équipe etnografica e secondo de Martino esso era soprattutto femminile: le tarantate, si definivano così, costituivano un problema serio per le famiglie che le accudivano.

Il 29 giugno, il giorno di san Paolo, recandosi a Galatina, “feudo” simbolicamente immune al morso della tarantola, quelle donne manifestavano convulsioni che i medici avevano definito “isteriche””, una designazione che investiva la loro salute mentale e che sembrava più calzante allora non solo perché ancora esisteva l’isteria intesa come malattia dell’“eros precluso” (solo nella seconda metà degli anni Ottanta nel secolo scorso è stata tolta dall’elenco delle malattie mentali), ma anche perché  all’esterno e all’interno della cappellina di san Paolo, in assenza delle musiche rituali, la danza regrediva a vera e propria patologia.

Nondimeno de Martino decostruì quel malessere, denaturalizzandolo e anticipando molti dibattiti contemporanei. Il suo irriduzionismo antropologico tenne certo in conto l’approccio medicale e rispettò la (bio)medicina, prendendola sul serio, pur non temendo di criticarla o di decostruirla. L’antropologo sostenne che il tarantismo non fosse riducibile a malattia mentale (isteria), a una pura finzione delle donne (carnevaletti) o a un avvelenamento fisico (latrodectismo) ed espose le prove della’«autonomia simbolica» (de Martino 1961a: 59) del fenomeno in cinque indici: 1. L’immunità del “feudo” galatinese. 2.  La ripetizione annuale del rito terapeutico. 3. La prevalenza delle donne. 4. La distribuzione familiare. 5. L’età del primo morso. Essi testimoniavano l’irriducibilità del tarantismo a malattia:

Immunità locale, ripetizione stagionale e calendariale, schiacciante prevalenza della partecipazione femminile, distribuzione familiare e elettività del primo morso per l’età compresa fra l’inizio della pubertà e il termine dell’età evolutiva orientavano la ricerca verso una interpretazione simbolica del tarantismo, cioè verso una interpretazione in cui taranta, “morso”, “veleno”, “crisi”, “cura” e “guarigione” acquistavano il significato di simboli mitico-rituali, culturalmente condizionati nel loro funzionamento e nella loro efficacia (de Martino 1961a: 51).

Inoltre, nel commentario storico (e de Martino sapeva proprio fare lo storico allorché, da abile sommozzatore, si tuffava nelle profondità del tempo) egli aveva messo in opera una metodologia nuova dove già delocalizzava il tarantismo dal Salento, confrontandolo con quello di altre regioni d’Italia e anche di altri Paesi del mondo, come Santoro non manca di notare parlando di questo ampio comparativismo come di una insolita “larga tela” demartiniana (pp. 122-125).

A ben vedere, però, lo sguardo riduzionista non era relativo soltanto al sapere (bio)medico, ma riguardava anche le scienze sociali, poiché gli etnologi avevano classificato il tarantismo tra la «possessione rituale» o le «cerimonie di tipo sciamanistico» realizzando quella «riduzione al tipo» di cui de Martino pure scrisse (1961a: 187), un po’ per una ritrovata fedeltà di scuola al metodo dell’individuazione storiografica dello storicismo crociano, un po’ perché egli era uno studioso molto leale e quindi, in ogni caso non intendeva mettere in sordina l’analisi critica delle procedure antropologiche ed etnografiche di allora: non si trattava, infatti, di valutare il disordine mentale, quanto piuttosto l’ordine simbolico finalizzato a dare un significato culturale alla sofferenza.

Esaminando, però, tutti gli scritti demartiniani su tale fenomeno, anche quelli successivi alla Terra del rimorso, Santoro osserva:

È dunque abbastanza evidente come l’autore della Terra del rimorso usi i concetti di “trance” e “possessione” e le loro implicazioni interpretative senza particolari riserve, anche se probabilmente con una certa oscillazione definitoria che a volte produce qualche elemento di contraddizione (p. 127).

Ora, sia l’uso frequente sia l’“oscillazione definitoria” derivano proprio da quella tensione critica, decostruttiva e disarticolante che alimenta la scrittura di de Martino. Lo segnalai qualche tempo fa:

Rouget ha ragione quando osserva che de Martino sottovaluta l’evidente identificazione con il ragno che caratterizza la performace delle tarantate e che fa del tarantismo un caso “classico” di possessione. […]. Tuttavia la critica di Rouget conserva un limite e la posizione demartiniana assume un potenziale vantaggio, una apertura virtuale che la rende più interessante alla luce delle attuali riconsiderazioni del concetto di possessione. Rouget, infatti, sembra animato da uno scrupolo tipologico: sostenere che il tarantismo è un caso di possessione. Inversamente il limite demartiniano non è quello di rifiutarsi di ascrivere il tarantismo alla possessione, ma piuttosto sta nel fatto che egli non dia seguito al programma di ricerca che da tale rifiuto dovrebbe partire: de Martino non avvia, cioè, l’analisi del simbolismo del ragno […]. (Pizza 1996: 269-270).

Nell’economia di questo breve scritto forse mi sono dilungato un po’ sulla Terra del rimorso di Ernesto de Martino, un lavoro ricchissimo e davvero mirabile. Eppure, ritengo che fosse necessario. Si trattava di evocare questo “classico” studio demartiniano per quanti ne fossero ignari. Anche perché tutti i lavori successivi prodotti da numerosi studiosi locali e no, accademici e no, risalgono a quel testo, vuoi per adesione vuoi per contrapposizione. Non ci si può non dire demartiniani o demartinisti nel Salento contemporaneo.

Qui avevamo un carissimo amico, intellettuale molto raffinato, antropologo militante, morto a cinquant’anni: era Sergio Torsello autore di numerosi studi, sempre eleganti, giornalista del “Quotidiano” di Lecce, direttore artistico del Festival La Notte della Taranta, costruttore di veri e propri ponti tra mondi diversi.

Ora è Vincenzo Santoro, il suo amico-concittadino di sempre, a essere diventato un esperto di tarantismo. Riprendendo le questioni ifologiche in modo da celebrare de Martino sessant’anni dopo, egli ricostruisce la diffusione mediterranea del fenomeno prestando una maggiore attenzione a quei terreni comparativi che lo studioso napoletano non aveva preso in considerazione, stante la brevità della sua ricerca, sia sul campo salentino sia a casa propria a Roma, ancorché, in quest’ultima sede, per un periodo ben più lungo.

Santoro esplora diverse figure del tarantismo che tendono a delocalizzarlo dalla provincia di Lecce e a offrirne la visione più vasta di un fenomeno mediterraneo, che investe le terre emerse da questo mare.

Il saggio si apre e si chiude con un’ineludibile rivisitazione dello studio demartiniano: si parte dal tarantismo acquatico della provincia di Taranto, considerata la “capitale del tarantismo” poiché emergono numerose testimonianze edite e inedite che ne attestano la presenza in molti paesi della provincia (Martina Franca, Statte, Grottaglie, Manduria, Locorotondo…); luoghi pur noti, ma sui quali de Martino non si era soffermato.

La cartografia culturale continua poi, in Puglia, con l’alto Salento e il caso di San Vito dei Normanni, reso noto dal volume di Fernando Giannini (2002). Si parla poi oltre che del tarantismo brindisino anche di quello barese raccontato nel suo diario di viaggio dal filosofo irlandese e vescovo anglicano George Berkeley (1979), vissuto tra il 1685 e il 1753: una delle fonti precedenti a de Martino, ma non usata dallo studioso napoletano. D’altronde molti testi appartengono a questo genere di opere, essendo diventato il tarantismo un luogo obbligato non solo dei trattati medici, ma proprio delle memorie del Grand Tour.

Si prosegue poi con la Campania (Napoli, il Cilento, il Garigliano e la sua pianura, il Sannio) fino a risalire la penisola attraverso la Basilicata e le ricerche più recenti di Giuseppe Michele Gala, dopo averne compiuto la discesa con l’argismo (da argia, il ragno velenoso sardo) in Sardegna, o in Calabria, dove il tarantismo è definitivamente scomparso già negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, o anche in Sicilia, patria di quella classica ottava endecasillabica che incomincia con Stu pettu è fattu cimbalu d’amuri… per giungere poi in Molise, con Mauro Gioielli, in Umbria, con Zeno Zanetti e in Corsica, dove dominava l ragno velenoso cosiddetto “Zinevra”.

Si passano in rassegna in questa ampia “desalentinizzazione” del tarantismo aree mediterranee simili e diverse, già note agli specialisti come luoghi elettivi del tarantismo. Per esempio, la Spagna – che fu indicata anche da de Martino stesso e da Gallini sua allieva –, le sponde meridionali e islamico-orientali del Mediterraneo o anche la Romania delle Rusalie.

Non ripercorro in questa nota la ricchezza del volume che ovviamente non passa in rassegna tutte le fonti del tarantismo, ma beninteso solo quelle, edite e inedite, che maggiormente consentono un ampliamento e una pertinenza mediterranei della visione comparativa.

In definitiva, pur riconoscendo a de Martino di avere scritto il libro assolutamente più bello di tutti sul tarantismo, Santoro riesce anche ad andare oltre la memoria della taranta spesso rievocata come scena etnografica demartiniana e non come evento concreto.

Inoltre, si spinge a considerare lo stereotipo territoriale del male “pugliese”, tema che a più riprese fu affrontato da Clara Gallini, che di simboli di appartenenza si occupò spesso.

In tale cornice egli produce un’inversione di genere, defemminilizzando il tarantismo, che in effetti era anche maschile e non interessava solo le donne, le cosiddette “tarantate” e sulla visione “dal basso”, popolare di questo tema conclude con una leggenda tradizionale raccolta nel basso Salento a Sanarica del Capo da Luigi Sada (1949: 61-62) che appartiene a quei miti delle origini di diffusione europea e che risponde alla domanda “perché le tarantole pizzicano soprattutto le donne?”. Lo fanno per vendicarsi, provocando gli stessi danni che la Madonna aveva mandato loro quando. grazie al suo potere, fece convergere tutti i raggi del sole sulle tarantole che, prese di mira da quell’eccessivo calore, furono colpite dalla pazzia. Chiudono definitivamente il testo una nota di ringraziamento, un’ampia e utile bibliografia aggiornata e due indici, dei nomi e dei luoghi.

Sottolineo, infine, lo scrupolo filologico di Santoro, che fa di questo testo un volume buono per ogni tipo di lettore e lettrice: gli stessi specialisti del tarantismo vi possono rintracciare gli squarci, i rattoppi, i nodi e le estensioni che rendono infinita la tela del ragno salentino, ma che al tempo stesso contribuiscono a rispiegarla.

giovanni.pizza@unipg.it

Riferimenti bibliografici

Berkeley, G. 1979, Viaggio in Italia, a cura di M.P. Fimiani e e Th E. Jessop, Bibliopolis, Napoli.

de Martino, E., 1961a, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano.

de Martino, E., 1961b, Tarantismo e Coribantismo, “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, anno 1961, vol. XXXII, fascicolo 2, pp. 187-203.

Giannini, F., 2002, Tre violini. Inediti sul tarantismo, con cd allegato, Kurumuny, Calimera (provincia di Lecce).

Pizza, G., 1996, Sulla “possessione europea”, “AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica”, 1-2, ottobre, pp. 261-286.

Sada, L., 1949, L’elemento storico-topografico nella genesi delle leggende del Salento, Pecoraro, Toritto (provincia di Bari).

L'autore

Giovanni Pizza
Giovanni Pizza è professore ordinario di Antropologia medica e culturale presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione (FISSUF) nell’Università di Perugia e direttore della Rivista “AM” della Società italiana di antropologia medica (SIAM), ora pubblicata in open access. Tra i volumi monografici curati vi sono: Figure della corporeità in Europa (“Etnosistemi, Processi e dinamiche culturali”, A. V, N. 5, CISU, Roma 1998); con H. Johannessen, Embodiment and the State. Health, Biopolitics and the Intimate Life of State Powers (“AM. Rivista della SIAM”, N. 27-28, Argo, Perugia-Lecce 2009); con A. F. Ravenda, Presenze internazionali. Prospettive etnografiche sulla dimensione fisico-politica delle migrazioni in Italia (“AM. Rivista della SIAM” N. 33-34, Argo, Perugia-Lecce 2012) ed Esperienza dell’attesa e retoriche del tempo. L’impegno dell’antropologia nel campo sanitario (“Antropologia Pubblica”, V. 2, N. 1, Clueb, Bologna 2016). È Autore di numerose pubblicazioni, tra le quali i seguenti libri: L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione (Carocci, Roma 2020); Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura (Carocci, Roma 2015); La vergine e il ragno. Etnografia della possessione europea (Quaderni di Rivista Abruzzese, Lanciano 2012); Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo (Carocci, Roma 2005); Miti e leggende dei pellerossa (Newton Compton, Roma 1988).