In primo piano · Interventi

Pasolini e la necessità di morire  

L’idea di Pasolini sul senso del vivere dell’uomo è ben descritta da lui stesso: «L’uomo […] si esprime soprattutto con la sua azione […] perché è con essa che modifica la realtà e incide nello spirito. Ma questa azione manca di unità ossia di senso, finché essa non è compiuta. […] Finché io non sarò morto nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile. È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso[…]La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi, […] e li mette in successione, facendo del nostro presente […] un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile […]. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci» (W. Siti – S. De Laude, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Tomo I, Milano, 2004, 1560-1561).

Subini sostiene che effettivamente «Pasolini coltiva l’idea della propria morte – intesa, fin dal giorno della morte del fratello, quale supremo atto sacrificale – come una vera e propria ossessione, figurandosela e mostrandocela innumerevoli volte per il tramite della crocifissione di Cristo. La morte nell’opera pasoliniana si manifesta come una realtà da interpretare poiché, non potendo essere compresa nella sua immediatezza, richiede di essere velata, ossia proiettata su un piano simbolico. Tra i vari modelli culturali elaborati dall’uomo nel corso della sua storia, quello ereditato da Pasolini ha la sua radice nel simbolismo cristiano: Cristo che muore e risorge» (T. Subini, La necessità di morire, il cinema di Pier Paolo Pasolini e il sacro, Roma, 2008, 16-17).

Ancora Pasolini: «La morte determina la vita, io sento così […]. Per me la morte è il massimo dell’epicità e del mito. Quando le parlo della mia tendenza al sacrale, al mitico, all’epico, dovrei dire che essa può essere completamente appagata solo dall’atto della morte, che secondo me è l’aspetto dell’esistere più mitico ed epico» (W. Siti – S. De Laude, Saggi sulla politica e sulla società, Milano, 2006, 1318-1319).

Attraverso queste parole si intravede l’attenzione di Pasolini al significato della morte che da sempre ha accompagnato la sua vita e le sue opere. Egli amava ricordare che «finché l’uomo vive è inespresso perché ha un futuro, con la morte la vita acquista un senso perché non è più modificabile, è passata» (W. Siti – S. De Laude, Saggi sulla politica e sulla società, Milano, 2006, 1574). La morte è necessaria, la morte qualifica la vita dell’uomo come uno specchio in cui l’uomo stesso si riflette e, dialogando con sé stesso, trae le somme della propria esistenza.

Nell’analisi del pensiero di Pasolini e della sua “visione” di morte, la mia attenzione si è volta ad un passo del Vangelo di Giovanni. In esso si narra l’episodio di Gesù a Gerusalemme cercato da alcuni pagani, accorsi nella città Santa, per vedere Colui del quale si raccontavano cose prodigiose. In questo racconto ho trovato una grande similitudine tra il pensiero di Pasolini e la risposta di Gesù data ai suoi discepoli. È il racconto tratto dal Vangelo di Giovanni (12,20-33) del chicco di grano che caduto in terra se non muore, rimane da solo, ma se muore fa molto frutto: «Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”».

Credo non ci sia brano più appropriato per accostare il pensiero di Pasolini alla bellezza e alla verità di questo passo del Vangelo, poiché tutta la sua vita è stata una continua ricerca dell’Infinito, infatti lui stesso diceva: «Cristo, lo cerco da per tutto» (P. P. Pasolini, Le regole di un’illusione, Casarsa della Delizia, 1996, 104), proprio come i pagani dell’episodio di Giovanni. Impressiona pensare che l’apertura alla bellezza della Verità era stata già inaugurata da Gesù di Nazareth, ma che gli uomini del suo tempo, coloro che avevano in mano le chiavi del potere cultuale, tale accesso lo avevano chiuso proprio a chi non apparteneva al loro popolo: ai pagani appunto. Non è stato forse questo il grido inascoltato di Pasolini, quando già adolescente, abbandona la fede cattolica perché inizia a capire che la religione ormai era diventata questione elitaria ed aveva abbandonato gli umili e gli indifesi? Non è stato forse questo il suo grido di condanna verso una Chiesa troppo ricca di “teorie astratte” e per “niente povera e umile”?

Bianchi dice, a proposito del passo evangelico di Giovanni citato, che «la vita di Gesù, sta volgendo alla fine, la morte è decretata dalle legittime autorità della comunità religiosa, della sua “chiesa”. Ma Gesù riesce a vedere oltre la morte, anzi riesce a vedere nella sua morte una fecondità inaudita: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. L’ora della morte in croce è l’ora della gloria, dell’epifania del suo amore vissuto all’estremo per tutti gli uomini (cf. Gv. 13,1). Quell’ora di cui a Cana aveva detto alla madre: “La mia ora non è ancora giunta” (Gv. 2,4); quell’ora che aveva annunciato come prossima e verso la quale andava con desiderio; quell’ora che era “la sua ora” (Gv. 7,30; 8,20) finalmente è arrivata. Questa è l’ora decisiva, che inaugura un nuovo tempo per la fede, per l’adorazione di Dio (cf. Gv. 4,21. 23), per la salvezza dei morti e dei vivi (cf. Gv. 5,25-29). Per rivelarla Gesù ricorre a una breve similitudine pronunciata con grande autorità: “se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Ecco la necessitas della passione e morte, della croce. La sua morte è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, morire e dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga. Così Gesù legge la propria morte e così ci rivela che anche per noi, uomini e donne alla sua sequela, diventa necessario morire, cadere a terra e anche scomparire per dare frutto. È una legge biologica, ma è anche il segno di ogni vicenda spirituale: la vera morte è la sterilità di chi non dà, di chi non spende la propria vita ma vuole conservarla gelosamente, mentre il dare la vita fino a morire è la via della vita abbondante, per noi e per gli altri» (Cfr. E. Bianchi, Commento al Vangelo di Gv 12,20-33: Il chicco di grano che muore dà frutto).

In questo passaggio ho visto lo stupendo parallelismo con il film Teorema, in cui la serva Emilia, l’unica “superstite” all’incontro con l’Ospite, si lascia sotterrare, non solo per dichiarare la sopravvivenza del sacro ma anche per dimostrare che da questo seme (nascosto) può nascere una società migliore: quella che Pasolini aveva sempre sognato. Infatti, come illustrato da Maggi: «Il chicco di grano ha dentro di sé delle energie che hanno bisogno di trovare l’ambiente ideale per liberarsi e sprigionarsi. Ma se rimane solo un chicco con delle potenzialità inespresse, lo stesso chicco non avrà alcun effetto. L’evangelista qui fa comprendere che in ogni persona ci sono delle capacità e delle potenzialità che gli sono sconosciute e che si liberano soltanto attraverso di sé. E Gesù aggiunge, «Se invece muore, produce molto frutto». Gesù getta una luce molto positiva sul fatto della morte: in ogni persona c’è un’energia vitale che attende di manifestarsi in una forma nuova e la morte è il momento che permette tutto questo. Quindi la morte non imprigiona l’uomo, ma lo libera. La morte non diminuisce l’individuo, ma lo potenzia. La morte non confina l’esistenza della persona, ma la dilata. In ogni persona ci sono delle potenzialità che soltanto nel momento della morte si possono liberare e fiorire. Quindi Gesù toglie della morte qualunque elemento negativo, di distruzione, per parlarne invece come di fioritura di vita, per la vita delle persone» (Cfr. A. Maggi, Commento al Vangelo di Gv 12,20-33: Il chicco di grano che muore dà frutto). Ecco dunque spiegato il perché del mio accostamento di questo passo del Vangelo al pensiero di Pasolini ed alla “sua” necessità di morire. La morte per il poeta non è la fine di ogni cosa, bensì l’inizio di quello che finalmente gli uomini potranno vedere essere stata (veramente) la vita di colui che se ne va, senza che nessuno possa ormai cambiare o aggiungere una sola virgola alla sua storia. Una sorta di “teofania” quella di Pasolini, se pure in chiave laica. Eppure si tratta della stessa “teofania” che Gesù (se pur con sfumature diverse) dichiarerà ai suoi discepoli in risposta ai pagani che lo cercano solo perché hanno visto dei miracoli compiersi. Maggi, a tal proposito, spiega che «Nel messaggio di Gesù con la sua morte si manifesterà il Dio il cui amore è universale e l’amore è il linguaggio universale. Gesù non propone una dottrina riservata a un popolo, a una nazione, a una religione; non propone un linguaggio soltanto per iniziati. Gesù sulla croce rappresenterà il linguaggio universale: “Dio ama tutte le persone indipendentemente dalla loro condotta”. Questa è la risposta di Gesù al desiderio dei greci di vederlo» (Cfr. A. Maggi, Commento al Vangelo di Gv 12,20-33: Il chicco di grano che muore dà frutto).

Come già ribadito, il momento della morte non è un momento di distruzione, ma un’esplosione di vita: il chicco di grano che muore nella terra si trasforma, e diventa una spiga.  La morte dunque è quel momento straordinario che consente all’uomo di liberare tutte le energie, tutte le potenzialità che aveva in sé, in una trasformazione senza fine. Quindi Gesù sta annunciando che la sua morte non sarà una fine, ma sarà un inizio; infatti Maggi osserva che «c’è in ogni individuo un’energia vitale che attende di manifestarsi in maniera nuova e soltanto il momento della morte lo consentirà. E Gesù continua dicendo che “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”: chi vive per sé non si realizza. La realizzazione dell’uomo non dipende dall’esaudire le proprie necessità, i propri bisogni, ma al contrario dall’interesse verso i bisogni e le necessità degli altri. Quindi chi vive per sé, avvisa Gesù, è destinato a perdersi: è la sorte del chicco di grano che rimane solo, che non dà frutto. Mentre chi vive per gli altri – odiare la propria vita significa preferire l’interesse degli altri ai propri – la conserverà per la vita eterna. Gesù fa una proposta straordinaria: quelli che vivono per sé distruggono la propria esistenza, chi orienta la propria vita verso gli altri questi la realizza pienamente» (Cfr. A. Maggi, Commento al Vangelo di Gv 12,20-33: Il chicco di grano che muore dà frutto).

Quante volte Pasolini nella sua vita ha cercato di dire la stessa cosa? Lo abbiamo ascoltato in ogni sua opera e nello sfogo “disperato” delle sue lettere, il grido di chi ha avuto uno sguardo troppo lontano per percepire in solitudine la verità delle cose. La conoscenza, che Pasolini ha avuto dalla sua terra natale, ha plasmato nel profondo la sua appartenenza, infatti lui scrive “gridando”: «Ma tu che cosa hai fatto terra cristiana, per spegnere il fuoco che hai appiccato alla mia carne quando credevo un gioco l’amarti? […]. Tu senza pietà hai tagliato il loglio dal tuo grano: un innocente e puro amore che ti destava. Non puoi perdonare, tu, Friuli cristiano, a uno che la tua lingua schiava liberava in un cuore caldo di peccato» (P.P. Pasolini, La meglio gioventù 1950 -’53, Milano, 1975, 99).

Purtroppo come spesso accade ai “cercatori inquieti”, la sua terra non è riuscita a dargli le risposte adeguate alla sua ricerca umana. Questo per tre ragioni fondamentali, qui delineate da Bocchini: «Primo: la mancanza, in quel popolo friulano, di giudizi culturali e politici articolati riguardo alla problematica italiana e mondiale (capitalismo, imperialismo, ecc.) che il poeta, con la sua vivissima curiosità di intellettuale e di uomo appassionato ai bisogni dei suoi simili, si pose appena uscito dall’adolescenza e in seguito al nazifascismo e alla Resistenza. Secondo: la sensazione che, a differenza del suo Friuli cristiano, la Chiesa “ufficiale” nel suo complesso, allora e negli anni successivi, fosse permeata di fredda, arida ideologia borghese, di grigio burocratismo (come il P.C.I.), di compromessi con il sistema, di ignoranza culturale. Terzo ben più dei problemi ideologici o di peccato storico ha contato per il poeta il limite grave del moralismo (sia pur sano, contadino) incontrato nel mondo friulano» (M. Bocchini, Pier Paolo Pasolini, Una disperata passione 4).

larocca_michele@tiscali.it

 

L'autore

Michele La Rocca
Michele La Rocca nato a Matera il 6 maggio 1977. Ordinato sacerdote il 26 giugno 2004.
Antropologo con Laurea Magistrale in Antropologia Teologica, conseguita nel 2004, e Dottore in Lettere con curriculum in Filologia Moderna, dopo aver conseguito Laurea Triennale in Letteratura, Arte, Musica e Spettacolo con curriculum Letterario. Attualmente, presta il suo servizio pastorale nell'Arcidiocesi di Matera-Irsina, ed è docente di Filosofia e Antropologia del Territorio e Seminario pratico di Religiosità Popolare presso ISSR "Pecci" di Matera. Svolge un lavoro di ricerca di stampo antropologico, in qualità di Assistente ecclesiastico presso l’Università degli Studi della Basilicata, ed è Coordinatore della Consulta diocesana delle Aggregazioni laicali. Responsabile dell’Ufficio Diocesano per la Causa dei Santi, e Delegato Arcivescovile per la Cultura, la Pastorale della Scuola, dell’Università e la Pastorale del Laicato.