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La rinascita de “I limoni”

La poesia abita la vita. Non ne sta fuori, mai. Lo sapeva bene l’autore della poesia “I limoni”, scritta nel 1921 quand’egli compiva solo venticinque anni, che prende le distanze dai “poeti laureati” per proclamare che “io, per me” ciò che conta sono – anche – le “strade che riescono agli erbosi fossi”… La sua è una piccola rivoluzione che sì, rompe con la tradizione, ma che al contempo la continua, la esalta, perché se da una parte Eugenio Montale ci racconta che “qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza/ ed è l’odore dei limoni” nel frattempo abbraccia uno stile aulico, elegante, quasi dannunziano, dal quale pare prendere anche i due esortativi “Ascolta” e “vedi”, dei vv 1 e 22, un chiaro rimando a La pioggia nel pineto (1903).

Ed è in questo contrasto, in questo chiaroscuro, che la poesia nel suo significato più pieno prende vita. Se la poesia da una parte ci racconta qualcosa in una forma melodica particolare, che chiede spesso un occhio attento, affinato, dall’altra parla di tutto, “canta” di tutto. Si pensi banalmente alle “Odi elementari” di Pablo Neruda pubblicato postume che raccontano dei pomodori, delle cipolle, del “primo giorno dell’anno” e che paiono ridare un’anima a tutte le cose, alle cose che guardiamo ogni giorno ma che non cantiamo mai, sulle quali il nostro occhio si pone in maniera distratta, apatica.

I limoni – Annuario della poesia in Italia a cura di Francesco De Nicola per Gammarò Edizioni, 2021, accoglie saggi e poesie di vari autori italiani e soprattutto s’interroga sulla poesia, sul suo senso vero e sulle sue radici, domande a cui Giorgio Caproni aveva risposto così: “Credo che non lo sappia nessuno che cos’è la poesia. Credo che per me sia stata una risorsa sin da ragazzo, di me stesso, della mia identità, cercare di capire chi sono e, attraverso di me, cercare di capire chi sono gli altri” (da I limoni, p. 20). Ed ecco che subito s’individua uno dei temi principali da trattare quando si parla di poesia, cioè gli altri, l’altro. “È dunque una tensione anche verso l’altro, in un farsi altro di quel “me” che è “los otros” di Jorge Luis Borges o quell’io che “est un autre” di Arthur Rimbaud che anche nell’incontro della poesia degli altri si generano nuove voci” (dal saggio Versopolis, una piattaforma per i giovani poeti d’Europa di Valentina Colonna, p. 48) perché la poesia non è soltanto un modo per “uscire” dal sé (ché il vero poeta non celebra mai ciò che è, ma racconta di ciò che sente; il vero poeta non scrive per compiacersi, o per vanità, quella vanità che “è sorella della morte”, diceva Leopardi; il vero poeta dietro la sua scrittura, dietro le sue parole diventa trasparente, non c’è più perché accoglie l’altro, prende il mondo intero tra le braccia, vi trema dentro, piange e ride e non ha più il suo corpo tutt’intorno, la sua materia, diventa altro, è altro totalmente) ma è anche una maniera di conoscere altri e altre voci, una maniera di entrare dentro una “comunità poetica” basata sull’incontro e sull’ascolto reciproco. Un “contaminarsi” necessario poiché se la poesia nel suo atto pratico, nel suo essere scritta e circoscritta e messa al mondo vuole una certa solitudine, nella sua “elaborazione” ci chiede necessariamente di stare nel mondo, di vivere a carne scoperta, a nervi tesi; ci chiede il dialogo, l’incontro appunto; la poesia chiede che la nostra carne si faccia altra carne e che il nostro pensiero vada oltre le barriere che spesso sono presenti intorno alla nostra mente; la poesia non ci chiede di sopravvivere, ma di vivere, perché la banalità del quotidiano non basta, non basta mai; non possiamo annaspare, dobbiamo emozionarci e commuoverci. E avere coraggio.

La poesia è dunque incontro, viaggio, coraggio, è un ri-dire le cose del mondo che il mondo ci dà, un ri-dare in altra forma, in altro suono e altro colore. Eppure la poesia non è sempre un “dare”, uno straripare; c’è una parte di “non detto” che effettivamente distingue la poesia dalla prosa. “La poesia consegna al lettore, insieme alle loro parole e alla loro eloquenza manifesta, anche un luogo fisico disabitato e privo di ogni espressione sonora, però potenzialmente pieno di cose e di senso, che è visivamente e graficamente rappresentato dal territorio bianco a conclusione di ogni verso. È l’invisibile materia oscura, ossimoricamente espressa dal bianco nitido che ci riporta al verso successivo” (dal saggio La parte mancante. Riflessione sulla poesia e i suoi lettori di Giuseppe Grattacaso, p. 117). Interessante il riferimento alla “materia oscura” che effettivamente non è “quello che non c’è”, ma quello che “non si conosce”; di fatto, la materia oscura costituirebbe circa l’86% della massa dell’universo, e ci sorprenderebbe sapere che noi, della realtà effettiva, non conosciamo quasi niente. La poesia seppur quindi chiusa dentro i versi, nei suoi ritmi e musicalità, nei suoi enjambement e nei suoi zig-zag sul foglio, conserva sempre quel margine di non-finitudine, quel bianco che “contiene tutti i colori con sé” in effetti, quella parte sempre e ancora aperta come una finestra che ci fa sbirciare fuori, che ci fa correre verso l’eterno. Una metafora della vita potrebbe essere la poesia: qualcosa di finito che corre verso l’infinito; noi esseri umani che nella nostra limitatezza chiediamo sempre qualcosa di più, cerchiamo quella luce strana e inafferrabile com’era la “luce verde” davanti agli occhi del Grande Gatsby, che stava sempre là, lontana e vicina insieme, sempre irraggiungibile, sempre sua, mai davvero sua. Allunghiamo le nostre mani eppure non afferriamo niente, ma abbiamo fame, fame, fame: la poesia come la filosofia non dà risposte, ma ci lascia lo spazio giusto per porci delle domande, e ad ogni domanda ne seguirà sempre un’altra, e poi un’altra ancora, e così per sempre: il poeta è una creatura strana, s’interroga su tutto, sulla vita e poi su un fiore che nasce; e sa che il suo occhio è “allenato” alla meraviglia perché “gli oggetti sono vivi (…) Sappiamo, oscuramente, che la verità c’è; sappiamo d’averla intravista; forse sperimentata; ma non possiamo ammetterla; nascondiamo a noi stessi ciò che conosciamo: che le cose sono piene di vita, e di significati; e di emozioni; e ci parlano” (dal saggio Il terzo Guido. Omaggio a Gozzano di Vincenzo Gueglio, p. 75). L’occhio del poeta è allora quello che “illumina” le cose, che le fa brillare; e non possiamo permetterci d’avere sempre uno sguardo distratto o indaffarato. Ché la poesia è un dialogo col mondo, con le cose. E le cose tutte ci parlano, parlano con noi; e noi dobbiamo ascoltarle, dobbiamo dar loro la vita – che noi, senza di loro, non avremmo mai.

vaudoasia@gmail.com

 

L'autore

Asia Vaudo
Asia Vaudo è nata nel '98 ed è scrittrice e poetessa. Tra le ultime pubblicazioni: la raccolta di racconti "Essere altro", (Edizioni Ensemble, 2020), la plaquette "storie di vecchi e di pane" (Lamberto Fabbri, "i quaderni del circolo degli artisti", 2021), la biografia "A Mauro, falla finita! La vera storia del boss della banda del buco" (CartaCanta Editore, 2023). Nel 2020 vince il Premio di poesia nazionale "Innesto"; nel 2022 è finalista al Premio Internazionale Europa in versi - sezione giovani. Riconoscimenti arrivano anche dal Premio Internazionale Alda Merini, dal Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti e dal premio Campiello Giovani. Oggi lavora a Roma nelle carceri di Rebibbia e di Regina Coeli a Roma e di Poggioreale a Napoli, dove tiene laboratori di poesia per i detenuti. Insegna la lingua italiana presso la casa famiglia San Paolo VI di Roma a bambini e mamme rifugiati. Collabora con Il Cenacolo delle Arti di Lamberto Fabbri con interviste settimanali a grandi autori della letteratura e dell'arte italiana contemporanea.