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“FreeFromChains”. Dialogo con Zingonia Zingone

La foto di copertina è di Sally Prissert

Poetessa, scrittrice e traduttrice, è cresciuta tra Italia e Costa Rica. Zingonia descrive questo suo costante spostarsi con le parole di una canzone di Facundo Cabral: “No soy de aquí, soy de allá”, “Non sono di qui, sono di là”. Lei sente di essere “sia di qui che di là”. La maggior parte delle sue poesie è scritta in lingua spagnola, ma tante altre sono in italiano. Alla domanda sul perché la scelta di una lingua o un’altra, Zingonia risponde che non è lei a scegliere la lingua con cui scrivere, ma è la poesia che si manifesta in quella lingua precisa. Si appassiona alla poesia all’età di dodici anni e vi si affaccia dapprima guardandola come valvola di sfogo, e nel tempo la vedrà sempre più come luogo e terra dell’esistenza, contenitore dei grandi temi della vita dell’uomo – tra tutti spicca quello della maternità.

Zingonia, poetessa e amica: ci siamo incontrate la prima volta un paio d’anni fa, grazie all’amico comune Davide Rondoni, tra i maggiori poeti del nostro tempo. Davide è capace di far cucire rapporti belli tra le persone, crea legami. Parlammo quel giorno della possibilità di fare, accanto a te, laboratori di poesia nelle carceri di Rebibbia e di Regina Coeli; incarico che accettai – con un po’ di timore iniziale –, ma che mai avrei pensato essere così fondamentale nella mia vita. Un lavoro intenso, profondo, è quello che si fa in carcere: come hai cominciato, e perché?

In genere le cose importanti nella vita non sono quelle che ti vai a cercare ma quelle che cercano te. Sembra ti capitino per caso ma nel coglierle e viverle ti rendi conto della loro rilevanza e capisci che in realtà non si tratta di un caso ma di un’opportunità che ti viene data per crescere, per fare un salto di qualità come persona. Questa vicenda è andata proprio così. Otto anni fa un amico di vecchia data mi ha offerto un caffè. Parlando del più e del meno e venuto fuori che faceva il volontario nella Terza Casa Circondariale di Rebibbia. Sempre parlando del più e del meno, gli ho attaccato il mio classico bottone sulla poesia come ascolto, come sguardo sulla realtà, come ricerca di quella voce che abita nei nostri abissi. Questa cosa l’ha colpito e mi ha chiesto se fossi disposta ad andare in carcere per fare una lettura di poesie o, meglio ancora, mettere su un laboratorio di poesia. In quel momento mi sono vista sfilare davanti tutti i miei limiti, ma senza pensarci troppo, gli ho detto di sì. Così, nel giro di pochi giorni sono stata convocata dalla direttrice del carcere per una lettura di poesie. La settimana dopo ne ho fatta un’altra e poi, con l’assenso di una decina di detenuti, abbiamo dato inizio al laboratorio avremmo poi battezzato FreeFromChains, cioè liberi dalle catene.

Il laboratorio consiste nel leggere e commentare poesie su un determinato tema, fare esercizi per stimolare la creatività, scrivere poesie sull’argomento scelto e, in fine, condividere i propri testi con gli altri. Questo processo, spingendoci verso il confine di noi stessi, dove abitano anche i nostri fantasmi, ci fa scopre che siamo “altro” rispetto a quello che sapevamo di essere. Basta mettersi in gioco. Anche chi non possiede il dono della scrittura, riesce in qualche modo a trasformare in bellezza le sue ferite. È da questa costatazione fatta insieme ai detenuti del primo laboratorio che nasce il nome FreeFromChains.

Quindi, cara Asia, perché questi laboratori in carcere? Perché i detenuti che decidono di partecipare lo fanno liberamente e quando parlano del corso dicono: sguardo nuovo, rinascita, respiro, amore… Il resto è vanità.

Quanto sei cambiata da quando hai cominciato i laboratori di poesia in carcere? Quanto tutto questo ha influenzato la tua maniera di guardare alla vita?

Non ti saprei dire se sono cambiata. Più che altro penso di aver provato cose che prima conoscevo solo a livello teorico. Ad esempio, ho sempre saputo che una persona non è l’atto che compie, cioè l’atto criminale va condannato ma la persona che lo commette è comunque chiamata alla redenzione. Però in carcere ho avuto il privilegio di vedere la trasformazione di persone che, preso atto dei loro errori, hanno deciso di cambiare. Questa è un’esperienza estremamente emozionante che ogni volta mi riempie di speranza e mi spinge a essere una persona migliore.

Poi, riflettendo su un tema che porto spesso in carcere, cioè “lo specchio”, mi viene da dire che in carcere mi sono specchiata in tanti volti diversi che mi hanno fatto vedere cose di me che prima non vedevo con chiarezza. Insomma, diciamo che in ciascuno di loro c’è qualcosa di me, o in me c’è qualcosa di ciascuno di loro.

Quali sono i temi che affascinano di più gli studenti di poesia, e quali gli autori? Perché?

Sicuramente il tema più gettonato è l’amore. Non posso generalizzare perché ogni persona ha una sensibilità diversa, ma se dovessi trovare una caratteristica come, direi che è proprio quella di celebrare l’amore o aggrapparsi all’idea dell’amore. Ovviamente questo deriva dal fatto che interagiscono con le persone amate solo durante i colloqui o via email, quando tutto va bene. In questo ambito, Pablo Neruda è un autore che piace molto, soprattutto per la sensualità della sua opera. Ma la cosa si fa interessante quando la poesia li porta a scoprire l’amor che move il sole e l’altre stelle, cioè quando vengono spostati dalla dimensione autoreferenziale e invitati a riflettere sull’amore non come possesso ma come forza liberante. Un poeta che hanno apprezzato è il nicaraguense Ernesto Cardenal che fa dell’amore il centro del suo Cantico Cosmico.

Altri tre autori che ogni volta fanno centro sono: Dylan Thomas con il suo travolgente fiume d’immagini ed emozioni e Oscar Wilde la cui Ballata del Carcere di Reading invita all’immedesimazione e ritorna spesso nei loro versi anche a distanza di mesi.

Viene accolto con grande entusiasmo anche lo stimolo creativo che offrono i quadri impressionisti, espressionisti e surrealisti. Insomma, comunque direi che non è tanto importante il tema quanto il modo in cui viene messo a fuoco.

Viaggio del sangue (CartaCanta editore, 2020) è uno dei tuoi libri, “dedicato dalla poetessa madre all’evento del figlio […], una visionaria mappa mistica e astrale, confessione transoceanica, inaspettata ricapitolazione […] La donna in qualche modo rinasce dal figlio, come accade nella Pietà di Michelangelo, o meglio rinasce come consapevolezza del mondo nell’esperienza della maternità”, scrive Davide Rondoni. In un libro intenso sintetizzi l’esperienza della maternità, non come tappa o evento della vita ma come viaggio appunto, come – forse unica – maniera per “ricapitolarsi”, per nascere una seconda volta. Nel carcere, i detenuti sono forzatamente privati dei loro affetti più cari. Tu sei prevalentemente dentro carceri maschili, eppure anche il ruolo del padre non è da sottovalutare: quanto queste mancanze emergono dai loro componimenti? Gli uomini e i ragazzi di Rebibbia sono padri, nonni, zii e figli anzitutto; come vivono a loro volta questo “viaggio del sangue”?

Anche in questo caso, non si può generalizzare ma mi viene da dire che quando uno finisce in carcere c’è sempre un perché che è all’origine dell’atto criminale, e spesso questo perché ha a che vedere con il sangue. Penso alle storie di abbandono, alla violenza, ai genitori che costringono i figli a partecipare di meccanismi che condizioneranno la loro libertà. Molte volte è proprio questo sangue che, anche inconsapevolmente, porta a delinquere. Poi ci sono famiglie prigioniere del proprio sangue, i cui membri si trovano tutti dietro alle sbarre: padri, madri, figli, zii.

Io non penso che la poesia sia in grado di salvare una persona, ma penso che attraverso la poesia si possa intravedere la composizione del sangue che scorre nelle nostre vene. E questo è già un inizio.

Inoltre, come dicevo prima, la reclusione fa vivere con grande intensità i rapporti di sangue, proprio perché viene meno la quotidianità famigliare. La mia esperienza si limita al carcere maschile dove la poesia viene spesso usata per dire nel miglior modo possibile alle madri e alle compagne “ti amo, mi manchi”, e ai figli “papà non ti lascia mai”.

L'autore

Asia Vaudo
Asia Vaudo è nata nel '98 ed è scrittrice e poetessa. Tra le ultime pubblicazioni: la raccolta di racconti "Essere altro", (Edizioni Ensemble, 2020), la plaquette "storie di vecchi e di pane" (Lamberto Fabbri, "i quaderni del circolo degli artisti", 2021), la biografia "A Mauro, falla finita! La vera storia del boss della banda del buco" (CartaCanta Editore, 2023). Nel 2020 vince il Premio di poesia nazionale "Innesto"; nel 2022 è finalista al Premio Internazionale Europa in versi - sezione giovani. Riconoscimenti arrivano anche dal Premio Internazionale Alda Merini, dal Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti e dal premio Campiello Giovani. Oggi lavora a Roma nelle carceri di Rebibbia e di Regina Coeli a Roma e di Poggioreale a Napoli, dove tiene laboratori di poesia per i detenuti. Insegna la lingua italiana presso la casa famiglia San Paolo VI di Roma a bambini e mamme rifugiati. Collabora con Il Cenacolo delle Arti di Lamberto Fabbri con interviste settimanali a grandi autori della letteratura e dell'arte italiana contemporanea.