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L’esperienza dell’amore nel carcere  

Non esiste niente al mondo di più inutile della poesia. La poesia non salverà il mondo perché non risolverà alcuna guerra né ci restituirà indietro i nostri cari defunti. La poesia non darà le chiavi di casa ai detenuti di Rebibbia e di Regina Coeli; non darà loro il calore dei propri figli, il bacio lungo e dolce dell’amata. Non darà loro la possibilità di andare a fare la spesa, sentire il calore insopportabile che sale dall’asfalto fino al cielo, di innamorarsi in una metro, tra i cattivi odori della città – non darà loro lo sguardo verso un cielo ampio e largo o verso il mare che si stende fino a giù giù giù e tu non lo puoi afferrare, ché gli occhi non bastano. Noi siamo ragazzi con gli occhi a righe e il cuore a colori, mi disse una volta un detenuto di Poggioreale, a Napoli. Quante volte lo sguardo di tutti noi – noi cosiddetti “liberi” – è stato limitato da altre cose – altre barriere altri confini – eppure nel nostro cuore è riuscita comunque a crescere una strana Gioia?

La poesia è inutile e come tutte le cose “inessenziali” è necessaria. Siamo stati abituati all’idea che le cose più importanti nella vita non si vedono: l’amore, il dolore, la stessa gioia; non le possiamo prendere tra le mani, restano inconsistenti, tragicamente impalpabili; ed è così, perché l’essenziale è invisibile agli occhi scriveva Antoine de Saint-Exupéry. E questo da una parte è consolatorio, perché ci porta a una dimensione che ci scavalca, che supera la nostra a volte insopportabile fragilità, perché siamo certi che l’amore va oltre la morte fisica, e che se amiamo qualcuno e quel qualcuno muore, muore soltanto il suo corpo ma l’amore rimane e ce lo insegna Dante nella Commedia col suo amore per Beatrice che trova la sua pienezza addirittura nella morte di lei – perché è attraverso di lei che guarda il volto di Dio; dall’altra parte è triste, perché nella nostra umanità è insita la volontà di vivere nelle cose del mondo – abbiamo bisogno di guardare e d’essere guardati. Le cose importanti perciò non si vedono a occhio nudo eppure le cose che si vedono sono comunque segni di quell’amore che Dio ci ha messo lungo la strada; si ama una donna per la propria luce, ma anche per il tratto del suo volto, per la curva del collo e dei seni; si amano le mani, le gambe, si ama la sua voce, il suo respiro, il viso e il sorriso – perché quell’imperfezione nella guancia, quel tratto sbavato è segno della sua unicità e irripetibilità: perciò, segno anche dell’amore dell’uomo per lei: l’uomo la ama attraverso quell’imperfezione, quello sbavamento. Per cui, l’amore non si vede ma appare come abbagli nei luoghi del corpo della persona amata; appare quando la nostra commozione pare strabordare dal nostro cuore quando si assiste a un tramonto sanguigno o a un bambino che corre che ride. Segni simboli d’amore nel mondo. Questo è anche ciò che noi siamo. Perciò, privare qualcuno di questi segni significa privarlo della sua umanità. I detenuti non assistono mai a un tramonto o a un bambino che corre e che ride.

La risposta di un detenuto napoletano sulla natura della poesia
La risposta di un detenuto napoletano sulla natura della poesia

Qui arriva la poesia. Arriva quando non possiamo più mettere il nostro amore dentro l’imperfezione della guancia della persona che amiamo. Arriva quando il nostro sguardo non incontra più la superficie gonfia del mare, quando le nostre mani non raccolgono più le mani dei nostri bambini.

La poesia arriva quando tutto ciò che ci rimane è una stanza vuota e piena di polvere e le nostre orecchie sono piene di grida e il nostro naso è tutto pieno di fumo – e non c’è altro. Arriva, la poesia, quando cominciamo a piangere di nascosto, perché siamo uomini e gli uomini non possono piangere mai – così ci hanno insegnato. La poesia arriva quando la nostra umanità comincia a scomparire dietro i bordi cupi del nostro peccato. La poesia è inutile perché non fermerà le guerre e non ci salverà dalla nostra disperazione mortale, dai nostri dolori; ma ci riporta, irrimediabilmente, alla nostra umanità perduta. La poesia, per i detenuti delle carceri di Regina Coeli, Rebibbia e Poggioreale, dove ho il piacere di lavorare, diviene una compagna di viaggio che li riporta verso il  loro centro – che li traghetta verso casa. È così doloroso guardare persone vive che abitano dentro corpi già morti. È così insopportabile, per me, guardare un uomo che non diventa un uomo ma che diviene un’ombra. L’ombra di un uomo. Qualcosa che si vede e non si vede, un grumo di buio che potrebbe anche essere pugnalato ma che non sentirebbe niente – e neppure morirebbe, perché questa condizione è peggiore anche della morte. Quante volte mi hanno detto che probabilmente non ce l’avrebbero fatta; qualcuno mi disse che mettere una bomba e far esplodere tutto sarebbe stato meglio di vivere così.

I partecipanti al corso incontrano ad ogni lezione grandi autori della letteratura mondiale. Per questo si sentono meno soli, perché quando capiscono che il loro dolore è stato il dolore di un altro poeta, nasce nel loro cuore un po’ di sollievo. Abbiamo letto e discusso le poesie di Neruda, di Salinas, della Pozzi, di Ungaretti, di D’Annunzio… abbiamo esplorato la visione di tantissimi autori della letteratura passata e contemporanea, talvolta scontrandoci con quel pensiero lì o con quel verso. I miei poeti hanno scritto poesie sull’amore, sulla morte, ma anche sul pomodoro, sulla cipolla, hanno scritto inni al caffè, alla tv, al cuscino. Ultimamente abbiamo scritto una poesia che s’intitola I panni spasi, partendo dalla bella immagine dei panni stesi a Napoli.  E allora i panni spasi sono Persone che sfilano, danzano / s’abbracciano, si amano – senza un cuore / senza voce – senza la parola /   senza un corpo – si amano / come dei frutti sull’albero stanno appesi / corrono stando fermi /sono tante bandiere […] Personaggi dai mille volti / che si esibiscono nella grande sceneggiata / napoletana. Panni spasi: / occhi che ti guardano dall’alto / – ti seguono – borbottano – fanno parlare / nel loro vuoto contengono / milioni di storie – tracce / di corpi – sudore, lacrime, sangue / stanchi di tutto ciò quando sono spasi / si rilassano / sospesi tra il loro filo-madre / e la linea rossa dell’orizzonte.

Far scrivere chi non ha mai scritto – o chi ha scritto ma non ha mai avuto chi lo ha letto – significa assistere a un piccolo miracolo; significa vedere un uomo, nella maggior parte dei casi un uomo grande, tutto tatuato, all’apparenza forte e tanto sicuro di sé divenire un bambino; rimpicciolirsi dentro la pienezza del verso che risucchia e che libera l’anima; significa guardare al trionfo di stupore di chi non sapeva più stupirsi; significa rieducarsi alla bellezza e liberarla da  se stessi per spargerla nel mondo. Come avviene ogni volta che si porta alla luce qualcosa, qualcuno. Un figlio, una poesia. Il processo è lo stesso – è simile il viaggio. C’è l’apertura, il concepimento, la gestazione, l’attesa; e poi il dolore, la liberazione, accanto a quell’ombra assai certa della morte; morte che non avverrà – non ancora avviene, perché spazzata via dallo squarcio di luce che porta il suono del primo gemito del bambino, il primo suono del verso che s’incatena al bianco immacolato del foglio e gli dice: sono arrivato nel mondo e qui rimarrò per tutti i secoli che verranno.

vaudoasia@gmail.com

 

L'autore

Asia Vaudo
Asia Vaudo è nata nel '98 ed è scrittrice e poetessa. Tra le ultime pubblicazioni: la raccolta di racconti "Essere altro", (Edizioni Ensemble, 2020), la plaquette "storie di vecchi e di pane" (Lamberto Fabbri, "i quaderni del circolo degli artisti", 2021), la biografia "A Mauro, falla finita! La vera storia del boss della banda del buco" (CartaCanta Editore, 2023). Nel 2020 vince il Premio di poesia nazionale "Innesto"; nel 2022 è finalista al Premio Internazionale Europa in versi - sezione giovani. Riconoscimenti arrivano anche dal Premio Internazionale Alda Merini, dal Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti e dal premio Campiello Giovani. Oggi lavora a Roma nelle carceri di Rebibbia e di Regina Coeli a Roma e di Poggioreale a Napoli, dove tiene laboratori di poesia per i detenuti. Insegna la lingua italiana presso la casa famiglia San Paolo VI di Roma a bambini e mamme rifugiati. Collabora con Il Cenacolo delle Arti di Lamberto Fabbri con interviste settimanali a grandi autori della letteratura e dell'arte italiana contemporanea.