«Al terzo tentativo uccide la moglie a coltellate». Pochi dubbi, se un artista c’è che rende uguali, livellandoli nell’universo di fantasie genetiche, realtà (cos’è, appunto la realtà?) e fantasie (e cos’è, appunto la fantasia?) quello è l’uomo chiamato Benito. Il giorno della sua morte accadde questo, e questo, tale varietà di questo, lui aveva previsto millanta volte. Destino di un nome, Duce del fascismo quell’altro, Duce della matita quest’altro. Quando chiesi ad Alfredo Castelli e a Silver chi fosse il più grande fumettista italiano di sempre, “sezione” umorismo, non ebbero dubbio alcuno. “Lui”, perché quando c’era lui i fumetti, aggiungo, arrivavano in orario. Il burbero Luciano Secchi, giallista di talento, lo amava con bunkeriana smisuratezza. Sì, quel Max Bunker di cui gelosamente conservo un autografo milanese su un Alan Ford “era” Minuette.
Benito, figlio di un “marciante su Roma”, è la mia giovinezza, l’altro è giovinezza con velleità metafisiche (ma non è che il primo scherzi). Ho imparato più cose dal termolese, e da Schulz il genio uomo-medio, che da tutti gli uomini – dalle donne sicuramente, se tralasciamo le indispensabili qualità fisiche – incontrati in anni e anni di vagabondaggi Nord-Sud, Sud-Nord. A scuola andavo col suo diario – il mitico Diario Vitt, dove “Vitt” sta per “Vittorioso” – e coi quaderni di Linus, bizzarro il primo, elegantissimi i secondi, attrezzi candidissimi che rispecchiavano la mia personalità. Il côté bizzarro era l’omaggio a una fanciullezza, la mia, limitrofa a certo settantasettismo nel quale i linguaggi si sprecavano “senza più ordine” come le danze del Don Giovanni di Mozart. Vorrei ricordare ai pedagogisti (quelli che ci prendono e quelli che non ci prendono mai), che nei Settanta le letture d’obbligo (sic!) erano quelle di Emilio Salgari l’inquieto-malinconico, Jules Verne il potente-malinconico, Marc Twain, lo spiazzante, Vamba l’eroico-resistente, Collodi, l’“esaltante” (Pinocchio fu una sorta di ossessione per Jacovitti), Ferenc Molnar l’impressionante-malinconico e Giovannino Guareschi l’anarchico sentimentale. Utili o fintamente dis-utili a raccontare il mondo nelle sue, la scrivo, chiaroscuralità, il finale qualunque fosse il percorso intrapreso era aperto alla vita, alla continuazione dell’avventura o di una semplice vicenda allocabile nei labirinti del pensiero, e c’era tanta bellezza di scrittura di genio, di possibilità manifeste, colorite, immateriali.
Le letture non desiderate da mamma e papà erano i fumetti naturalmente. Immorali, di poco conto, privi di sostanza, “impressionistici” o “espressionistici” (anch’essi) a seconda dei casi(ni) e dei temi; scollacciati, sciocchi, robina da ultima scelta. Topolino era la vetta (ir)raggiungibile, Giulio Giorello lo sapeva bene, Paperino era forse in rappresentanza dei momenti di transizione, quel tempo della memoria che avresti dimenticato o rivissuto, a volte, col fastidio della raggiunta maturità. Mandrake e Phantom erano pezzi troppo “ottocenteschi”, leggevo Cucciolo e Tiramolla, quelli sì, e le edizioni di Renato Bianconi, con Trottolino e Geppo, «fumetti di scorta» che si servivano di un «mondo semplice e colorato» commentava Salvatore Giordano. A quel tempo c’era da vergognarsene. Forse per quel facilismo esibito che ancora si viveva come “colpa”, così come “colpa” si viveva l’attrazione per il proibito: sesso (quanto bastava) e morte violenta, cioè criminalità e terrore mescolati a un pop-occultismo in pronta consegna. Tanto esorcismo, voglia di pacificare le intemperanze giovanili, volontà di esplorare l’inesplorabile, a suo modo.
Sulla grandezza o meno dei fumetti hanno scritto le menti migliori di più generazioni (i nomi li conoscete), credo che una delle cose più intelligenti l’abbia detta ancora Castelli: se qualcuno sceglie oggi un fumetto è perché lo ha deciso autonomamente sapendo di avere tra le mani un prodotto che è “tautologicamente” quel che è. Sembra una sciocchezza ma è stata una grande conquista. Come chi legge Raymond Chandler o Georges Simenon, due maestri, sa che non ha sotto il naso le “dis-avventure” di Raskòl’nikov ma storie e storiacce hard-boiled e poliziesche. Leonardo Sciascia scrisse che in ogni lettore di prodotti di genere c’è un qualcosa (un pregio, una strana virtù) che confina con la fiducia verso l’altro, per cui in ogni caso il “curioso” si farà placidamente guidare verso un finale astrattamente già “suo”. Un semplice passatempo (un passatempo per mondi infattibili), quello della lettura in parola, ma dallo stile romanticamente arricchente.
Vivevo quel tempo tra le volate intellettuali di Linus e le trasvolate futuristiche dello zio Benito. Scusate, erano altra cosa, loro, anche dai “Marvel” e dai “Bonelli” (perfino dal mito Zagor): paradisiaci tra due altri regni non di questa terra e ben a portata di mano. Era anche un omaggio a quella voglia di “spinto” in-consumata tra filmacci e filmetti italiani, l’azzardo della tivù e ben altra stampa per adulti sbirciata tra una botteguccia e un’edicola davvero ben fornita. Ma tutto a quell’età profumava, freudianamente, di sesso.
Chi è Jacovitti? Cos’è Jacovitti? Assurdo, anarchico, Vittorio Sgarbi lo paragona a Fred Buscaglione (altro uomo di ritmo, traboccante ironia e stile) e a Hieronymus Bosch (indovinate chi ne presentò l’opera completa per Rizzoli editore? Il più kafkiano tra gli italiani, forse: Dino Buzzati). Ci sono due Jacovitti. Il geniale “invasore” di infiniti spazi, il battutista folgorante. E poi: il dannatissimo iconoclasta che non può non piacere. Una cosa è certa: Lui non può lasciare indifferenti i lettori; quando Castelli parla di “fumettari” ho la netta impressione che voglia dire che essi, gli artigiani della matita, ci facciano alquanto. Atteggiandosi oggi, afferma, a Rock star (sfigate), a serial-killer primedonne nei e dei loro mondi paralleli, novelli creatori di nuova “poesia”. Jac no, Jac c’era, non ci faceva. L’ho sempre saputo, me ne diede conferma Silver quando raccontò l’episodio che ebbe come protagonista la figlia, tenuta sotto mira dalla pistola del padre-genio, non ricordo neanche per quale strambo motivo… Jacovitti è come un gas (un nobilissimo gas) che si espande fino a conquistare appunto le menti attraverso gli organi recettori; pare si senta perfino profumo di Jac, pare si possano toccare quelle immagini dinamiche, lucenti e mai prive di qualcosa di tenue, pare che le frequenze di quelle voci invadano lo spazio vitale di ogni lettore. Una specie di opera d’arte totalizzante quella di Benito (perdonate), un surrealissimo dialogo col lettore-utente per narrare a lui, di quelle altezze per le quali ordinario e straordinario raccolgono le proprie forze, alla conquista di una lingua unica.
A me ricorda Spengler, pazzo per pazzo… In Jac c’è l’immensa differenza, ermeneutica, tra ciò che è o che è sempre stato e ciò che ogni ente significa per l’uomo o ha significato attraverso l’utilizzo di taluni imbuti surreali. Se passiamo armi e bagagli al significato che utilizza un significante pazzo anzi genialoide e (ovviamente e immediatamente) ci concentriamo sull’ultimo, abbracceremo lo strano mondo di Jac da capire, esso, o forse appunto no. Il segreto è che, in lui, caos e ordine stanno perfettamente l’uno di fianco all’altro così come generale (in una sorta di visione olistica che tutto comprende e poco lascia al mistero del “piccolo”) e particolare (basterebbero i salami con tanto di arti del tutto “inutili” nell’economia della storia) e poi ancora grossolanità, voluta, cercata e raffinatezza nel tratto e nella perfezione delle linee curve. Una cosa c’è forse che abbiamo, tutti, la possibilità di verificare: lo zio Benito è super-bravo a (non) apparire bravo e a farci pensare di non saper pensare, epperò egli rappresenta il punto di vetta di un percorso verso una irrinunciabile grandezza. L’Italia è il Rinascimento. È la musica a teatro ma è anche la letteratura e i suoi fumettisti, non dimentichiamolo mai.
Ma come fai a scordare le battute di Jac? Almeno una generazione è cresciuta con le punture dei suoi spilli, con certe continue prese in giro, coi suoi immarcescibili sciocchi giochi di parole, quasi a voler dire che il suo mondo non fosse il nostro, bensì un mondo quasi confinante per materia (più o meno) e per forma, un mondo cattivissimo ovviamente (che trovo oggi meravigliosamente in-umano). Una presa in giro di chi in fondo bramava prenderci per il naso.
Le ricordo ancora le critiche dei grandi cagionate da “talune” vignette (e non solo quelle di Jacovitti) prive di morale, a volte sesso puro, cattive appunto, dal linguaggio aggressivo, ancor più che nei romanzi gialli. Quei mondi non erano affatto desiderabili, quegli uomini e peggio: quelle donne, che astratte filosofie avevano tentato di ri-formare ovvero erano del tutto inventate, donne oneste, pudiche, timorose, uomini tutti lavoro e genuinità, nell’ordinario di quelle realtà (che poi era straordinario tout court) non esistevano affatto. Né bastava quel lieto fine a riprodurre la mano invisibile di un Dio o della giustizia degli e per gli uomini, ché era la serialità che in fondo ad ogni testo “ingannava”, in special modo i più giovani. Come avrebbero scritto i più grandi poeti: l’utilizzo della penna era oltremodo necessitante; così in ogni fumetto o storia si nasconde(va) induttivamente un pianeta di quasi incredibile malvagità. Sua maestà Diabolik (un altro “Lui”) lo aveva perfettamente compreso seppur nella sua ingenuità fenomenica da titano-punitore. Come fai a credere a Leibnitz dopo aver letto non solo Voltaire ma “semplicemente” Simenon architetto di una società abbandonatasi a una spietatissima crisi valoriale? E Kafka poi? E quanta differenza di gradi c’è nella koinè jacovittiana se la resa è nascosta nella sua essenza “naturalistica”?
Meraviglia tra meraviglie la profondità espressa da zio Jac: ad un tratto di quasi ordinaria cerca di tridimensionalità corrisponde la bidimensionalità (se non addirittura mono) degli accidenti mondani. Posso benissimo spingermi a considerare l’universo jacovittiano come una medicina che prova a sanare le imperfezioni del qui e adesso; quella strana bellezza e quello strambo ordine delle vignette trasferiscono essi stessi valore, nuovo valore, a certa oltraggiosa superficie testuale e meta-testuale. Se la “bellezza” non salverà il mondo se non altro lo spiegherà tra le righe e oltre le righe di un oceano di parol(acc)e.
L'autore
- Marco Iacona, ricercatore e scrittore. Ha pubblicato circa venti volumi. Del suo percorso intellettuale ricorda, finora, la citazione del suo primo libro, in un saggio di un teologo australiano, in compagnia di Joseph Ratzinger e Michail Gorbaciov e il giorno in cui sentì pronunciare, per la prima volta, da Carmelo Bene la frase: «Faccio il possibile per rendermi inutile!»
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