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Il fascino del passato

Di Katia Sassoni non conoscevo fino ad oggi l’attività poetica. Ora ho colmato quel vuoto. Ho letto queste poesie, che occupano una settantina di pagine, e l’ho fatto con vero interesse, con vero piacere, scoprendo nella Sassoni la stoffa d’una poetessa autentica. Sui contenuti di queste liriche Maria Gioia Tavoni ha scritto cose giuste nella sua Introduzione: << L’amore, il tempo, gli affetti sono i temi centrali che vengono a costruire il mondo poetico dell’autrice>>. Tutto vero. Per parte mia, vorrei iniziare partendo dal titolo, che necessita di qualche spiegazione per chi prenda in mano per la prima volta questo volumetto. Aprite il libro alle pagine 56-57, e troverete un componimento intitolato Sotto la cattedra. Inutile dire che l’intitolazione complessiva –Canzoni sotto la cattedra– riprende il titolo del componimento in questione. Siamo in una scuola elementare, la scuola dove insegna la poetessa. Disordine, chiasso, schiamazzi, questo il comportamento dei bambini che al mattino entrano nell’edificio: <<I bambini sghignazzanti>>, scrive la Sassoni, <<imitano i loro non-padri / deliziano l’aria di urli e schiamazzi / sbattono gli astucci sui banchi>>. Hanno un obbligo le maestre, un obbligo militaresco, quello di funzionare da generali che mettono perfettamente in ordine la truppa bloccandone le intemperanze. Non possono, le maestre, sottrarsi a quell’obbligo, deprecato dalla poetessa; verrebbero cacciate. La scrivente individua però una via di fuga, che si direbbe apparentata coll’antica problematica del doppio. Affronterà, certo, la <<dura fatica>>; ma una parte di sé, la parte migliore, la parte più segreta e più sua, la sottrarrà a quel dovere. In che modo? Sistemandola sotto la cattedra, nascondendola, esonerandola dal difficile rapporto con quei bimbi maleducati. Che cosa fa, là sotto, la sua <<anima>>, così la chiama la poetessa? Ascolterà antiche canzoni, ripenserà a quando era innamorata, recupererà insomma una parte del suo passato. Siamo di fronte a una forma di sdoppiamento, con un sé presente impegnato nel suo difficile lavoro e un sé passato che la consola, le infonde un sentimento di pace e di speranza.

Perché sono partito da questo componimento? Per spiegare il significato del titolo della raccolta, e al tempo stesso per focalizzare un nodo tematico che mi pare decisivo nella raccolta stessa. La poetessa vive ed opera, come è ovvio, nella dimensione del presente, dell’oggi. Ma quel presente non lo ama; non lo ama perché è fatto, il suo presente, di lavoro, di fatica, di obblighi, di ritmi obbligati ed opprimenti, di mortificazione della parte più autentica dell’io. Ebbene, questa critica del presente non si trova soltanto nella lirica di cui abbiamo parlato; la s’incontra in molti di questi testi, associata il più delle volte a uno scoperto amore per il passato. È in due poesie, Amico tempo e Gestione del tempo, che s’incontra la più esplicita condanna del presente, del presente proprio e di quello collettivo. Che cosa si legge, in Amico tempo? Si legge che erano amici, una volta, la poetessa ed il tempo. Non c’era contrasto fra loro, ma affiatamento. Era giovane, allora, la poetessa; nutriva in sé <<un oceano d’amore e di sogni>>; non disturbavano il suo fantasticare i fragori della modernità, le radio, le automobili, le <<pettegole vespe>>. Ora che è adulta quell’affiatamento è caduto. Scrive la Sassoni: <<Sei mio nemico, / adesso, / quando mancano le ore / per leggere, per capire, / per chiedere perdono, / per avere ancora la speranza / di vivere / secondo il giusto tempo>>. Il suo nuovo tempo insomma, quello della maturità e del lavoro, è fatto di fretta, di ritmi accelerati, d’impossibilità di riflettere e di fantasticare. Le aveva già dette il Pascoli, queste cose, in una lirica di Myricae intitolata Solitudine. L’uomo moderno, aveva scritto il poeta romagnolo, è un uomo <<cui falla il tempo>>; ed è perciò che le persone in cui ci si imbatte sono persone <<irrequἴete e stanche>>.

Che il nuovo tempo della Sassoni sia strutturato in questo modo è detto ancor più esplicitamente nella seconda composizione, Gestione del tempo, pungente analisi d’una temporalità che il filosofo Bergson avrebbe definito non qualitativa ma quantitativa. È il tempo della fretta, del calcolo, dell’illibertà quello che vien fuori dai versi che vi leggo: <<Hanno calcolato il mio tempo; / quello che si chiama lavoro / per esser sicuri / che io produca per intero. / Hanno interrogato / percentualizzato / relazionato / verbalizzato: / dieci telefonate al giorno / quattro lettere al mese / due pratiche esportazione frutta a trimestre / quando le pesche maturano / possono divenire tre. / E ancora un certificato di iscrizione, / sei attestati per importare semi oleosi, / una relazione sul commercio Italia-Svezia>>.

Sono versi che non hanno bisogno di commento. Ora, alla negatività del presente la Sassoni sembra cercare un’alternativa; questa alternativa la trova nella dimensione del passato. Il passato ha una parte grande in questa raccolta; grande e significativa, trattandosi del vero e proprio polo positivo, del luogo della libertà, della felicità, dell’amore, di ciò che latita nella dimensione dell’oggi. Può essere il passato della sua famiglia: ed ecco la lirica dedicata al padre, ecco le due belle poesie che hanno al centro la figura materna. Ritorna in sogno, nella prima, la madre morta, portando con sé la pasta necessaria per confezionare le raviole, quei dolci che danno il titolo al componimento. La madre della seconda è invece una madre contadina, che torna dall’orto <<sudata e stanca>>, che sa <<di terra e di gallina>>. Aveva però, quella contadina, quel tanto di cultura che le consentiva di regalare alla figlia il suo primo libro, David Copperfield, e di leggerlo insieme a lei sera dopo sera. Sono commoventi, queste poesie; ed è commovente l’arretramento al passato che si registra nei primi versi d’un altro testo, Fuga di Natale. Qui non entrano in scena la madre ed il padre; il quadro s’allarga, portando alla ribalta non questa o quella figura ma un intero mondo, il mondo delle generazioni precedenti con le sue abitudini e i suoi riti: <<Natale, i nostri vecchi / sapevano regalarlo davvero; / con i loro pazienti preparativi / le loro intoccabili tradizioni / i loro gesti avvolti dal mistero / dell’attesa profumata di pesce marinato>>.

È anche un altro passato a popolare di sé queste poesie, quello d’un grande amore, sbocciato un tempo e successivamente sfiorito. Non che manchi, in questo genere di liriche, un importante corollario, il tentativo di recuperare quell’amore, di richiamarlo in vita, di inaugurarne una nuova fase. Ma si tratta di tentativi votati al fallimento; il passato non si lascia rivitalizzare; non accetta di ritornare se non nella forma del ricordo. Poemetto in ricordo di un amore s’intitola appunto uno di questi testi, particolarmente ammirevole per il suggestivo trattamento dei pronomi personali, io e tu, l’io della donna e il tu del partner maschile. Erano uniti, un tempo, quell’io e quel tu; formavano una cosa sola; ripristinarne l’unità risulta impossibile. Scrive la Sassoni: <<un tempo noi: / che andavano ovunque / uniti-/ fummo non più noi- / fui io; / fosti tu>>. La simbiosi è venuta meno. Ma ecco il ritorno del tu, della persona un tempo amata, che si era allontanata dalla donna. Potrà, quel ritorno, ripristinare la magica unità di allora? Non potrà: <<Io ero qualcosa / che non stava più / in quel che eravamo stati noi>>; <<Penso, non trovo, / quel che –noi- / fummo / -insieme>>. Il passato insomma non può ritornare; o può farlo soltanto in forme deludenti, inappaganti, imparagonabili all’ebbrezza d’un tempo.

Un felice passato è anche quello della Casa in collina, il più lungo di questi componimenti. Il diagramma è quello stesso della lirica precedente. La casa eponima del testo è il luogo dell’amore fra un uomo e una donna. Ma ecco intervenire la crisi, e con la crisi la separazione: <<Dall’amore che affranca>>, scrive la Sassoni, <<si passò al lutto di un veloce addio>>. Lui si trasferisce in città; lei resta nella casa in collina, e tra quelle mura tenta di ritrovare il brivido della felicità. Ma Il presente, anche in questo caso, vanifica quel tentativo, caratterizzandosi ancora una volta come lo spazio della felicità negata, dell’impossibile realizzazione di sé, dei propri sogni, delle proprie speranze. Scrive la poetessa: <<Lei restò nella casa / in collina cercando / il suo paese rosa / ma mai lo trovò>>; <<Salpava una stagione di sgomento / verso un futuro privo di speranza>>. È un’esule in casa propria, vien fatto di dire, la donna ritratta negli ultimi versi; e come tale sembra partecipe d’una problematica molto cara alla poesia moderna, dal Cigno di Baudelaire, testo fra i più alti di questo scrittore, alle liriche pascoliane del Ritorno a San Mauro.

Può anche essere, il passato rievocato con amore, un passato collettivo, quello d’un’intera generazione. È la storia, in questo caso, la storia collettiva a insinuarsi nella raccolta, ed a farlo tra sussulti di nostalgia. È ormai adulta, l’autrice di La papera azzoppata, e fa quel che sogliono fare le donne mature: vede, tocca, riordina gli oggetti di casa, pota rose e annaffia ciclamini. Fa insomma senza entusiasmo, come le chiede la mentalità del suo tempo, l’impeccabile casalinga. Ma non fu sempre così. Non molti anni prima anche lei ha creduto, come tanti altri, alla possibilità di modificare l’esistente, le sue invecchiate e illiberali strutture: <<Qualche anno fa / una decina ormai / anch’io ho creduto / alla forza del cambiamento>>. <<Cercavo la libertà>>, annota la poetessa: ma il risultato è stato fallimentare. Altri principi hanno vinto, sconfiggendo quella generosa ricerca: <<La concretezza e la rigidità / hanno vinto su di me e sul mondo>>. A riproporsi, inutile dirlo, è il contrasto fra passato e presente, la grandezza del primo e la soffocante mediocrità del secondo. Sono morti quei sogni? Sono usciti per sempre dal vissuto della poetessa? La risposta è no, ed è forse in quel no che s’annidano le note più felici del componimento. Certe esperienze non si dimenticano; certi nomi, certi appunti giovanili: <<Eppure non ci riesco / a scordare che in qualche angolo / ci sono ancora i miei vecchi appunti / sull’avanguardia, su Rimbaud e Mallarmé>>. Un giovane e strano poeta concorre a ricordarle quei tempi. Come si comporta quel giovane? In che modo coltiva i suoi sogni? <<Trascorre le ore senza orologio / seduto ai tavolini della città>>. Se mi si passa un inserto autobiografico, quel personaggio mi richiama alla memoria un caro amico, anch’egli votato alla poesia. Si chiamava Giovanni Perich; anche lui passava le giornate al tavolino d’un caffè, ed ivi stendeva le sue liriche. Non lo s’incontra più nelle strade del centro: la morte lo ha portato via esattamente dieci anni fa.

Ma per tornare alla Sassoni, non ci si può congedare dalla sua raccolta senza ricordare un testo che ha avuto diversi riconoscimenti, Forse era agosto. È il passato, anche questa volta, al centro del discorso; ma si tratta d’un passato terribile. Il giorno è il 2 agosto, il luogo la stazione di Bologna. Inutile ricordare a chi mi ascolta che cosa significhino queste coordinate. Significano una tragedia atroce, una strage senza precedenti.  A quella strage la Sassoni s’avvicina in maniera indiretta, evitando d’esibire ai suoi lettori la distruzione, il sangue, lo sgomento e il coinvolgimento d’un’intera città. Era anche lei alla stazione, quel giorno, con la madre ed il suo <<diletto>>; aspettava il treno delle vacanze; ed ecco, durante l’attesa, sfilare davanti ai suoi occhi un piccolo gruppo familiare, padre, madre, un bambino di nemmeno un anno. La colpisce, quel gruppo, come suole colpirla <<ogni cosa bella>>. Il padre, un uomo sui quarant’anni, porta sulle spalle il bambino, che s’è addormentato. Davanti procede la madre, una donna dai tratti orientali. Che cosa fa quella madre? <<Teneva una mano sul piccolo piede del figlio>>, ricorda la poetessa, <<e ci giocava dandogli lievi pizzicotti>>. Partirà infine la Sassoni; e all’arrivo saprà della tragedia verificatasi nella stazione che ha lasciato. Immenso lo sconvolgimento, il cuore e le mani impazziscono. Ma a rendere memorabili questi versi è il dettaglio su cui si chiude il componimento: il correre del pensiero verso quel piccolo piede, e verso gli <<occhi di quel padre felice>>.  Si sono salvati? Hanno preso il loro treno per tempo? Impossibile saperlo. Soltanto una cosa è possibile, ricordare quella scena e immaginare che a quel bambino non sia stato negato di crescere: <<a volte ci penso. Lo immagino correre, fermarsi sudato, / all’ombra di un tiglio, magari fiorito>>.

L'autore

Vittorio Roda
Vittorio Roda è stato professore ordinario di Letteratura italiana nell'Università di Bologna. La sua attività di ricerca si è sviluppata sul terreno della letteratura moderna, e in particolare sui decenni tra fin de siècle e primo Novecento. I suoi principali volumi: Decadentismo morale e decadentismo estetico (1966); La strategia della totalità (1978); Il soggetto centrifugo (1984); Homo duplex (1991); I fantasmi della ragione (1996); La folgore mansuefatta (1998); Verga e le patologie della casa (2002); Letteratura fra due secoli (2007); Studi sul fantastico (2009); Da Carducci alla Grande Guerra (2019).
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