avvenimenti · In primo piano

Male di vivere

Il ‘no’ che figura nel titolo sintetizza come meglio non si potrebbe i contenuti di questi componimenti; la loro filosofia, se è lecito esprimersi in questo modo. Il poeta si guarda intorno; e in tutto ciò che lo circonda vede lo stigma della negatività; tutto è disordine, deformità, degradazione; nulla o poco si salva dalla sua condanna. Aprite la raccoltina al primo componimento, e vi troverete subito immessi nella dimensione del negativo: <<Un ricurvo e inutile mondo / dove non v’è mai primavera>>, si legge nei versi finali. Un inutile mondo, insomma, quello che conosciamo, e un mondo dove sono assenti la bellezza e la grazia. Un luogo del ‘no’, si potrebbe dire utilizzando il linguaggio dell’autore. Non esiste il ‘sì’ in questo manipolo di testi? Esiste soltanto, diramandosi in innumerevoli direzioni, la categoria del ‘no’, del negativo, dell’intollerabile? La risposta è questa: il ‘sì’ esiste, ma è un sì tutto particolare, che respinge e capovolge la communis opinio, vale a dire l’opinione della maggior parte degli uomini. Consiste, il ‘sì’, nella categoria della morte, del non essere, del congedo dalle catene del vivere. Si è citato il primo componimento; si percorra a questo punto il secondo e si vedrà ritratto a tutto tondo il profilo di questo ‘sì’. Ecco i tre versi finali: <<A te affido la mia sorte, / dal primo impulso di pensiero / mia dolce, desiderata, adorata morte>>. È una scoperta professione di nichilismo; di un nichilismo che, partendo da qui, percorre come un filo rosso l’intera raccolta: l’io poetico desidera la morte, ama la morte, adora, anzi, questa condizione.

Una cosa occorre però rilevare, ed è che a ben vedere la morte egli già la conosce, la possiede, la trova incistata nelle fibre della sua persona. Il suo vivere è già un non vivere, il suo essere è già un non essere, uno stato d’inesistenza e di vuoto. <<Il mio non essere>>, si legge nell’ultimo verso di Un filo d’erba. E altrove egli parla della sua esistenza come d’una <<vita / rubata già prima di essere spenta>>. Non occorre insomma, dice il poeta, che egli si eclissi fisicamente per trovarsi nelle regioni della morte. La morte è in qualche modo già in atto, già incorporata nella vita, già radicata in lui. Reagisce, il poeta, a questa situazione, tenta di ribellarsi?  No. Nessuna reazione progetta contro questo suo svuotarsi, nullificarsi, condurre una vita che è tale soltanto de nomine. Nessun <<fremito di rivolta>> sembra animarlo. Freud parlerebbe, probabilmente, d’un incontrastato dominio delle <<pulsioni di morte>>, d’un primato di Thanatos accettato senza riserve, e perfino coltivato.

Inutile dire che una posizione del genere proietta ombre funerarie anche al di fuori dell’io, investendo gli oggetti che entrano nell’esperienza del poeta, maggiori o minori che siano. I singoli oggetti, ma anche l’universo nella sua totalità, sono avvolti da un colore cupo, tetro, raggelante. Si parla di <<inutile mondo>>, di <<universo spento>>; e si parla, scendendo alle diverse forme che popolano quel mondo, di <<anonime ombre>>, di <<foglie stanche>>, di <<cielo opaco>>, di <<fioco spiraglio>>, di <<freddi fiori>>; e via di questo passo. Molto conta, come si vede, l’aggettivazione in questo catalogo di cose spente, prive di calore e di amabilità.  È maestro, Di Saverio, nell’uso di aggettivi gravitanti nel circuito semantico del negare, del deprimere, del togliere vitalità e bellezza. È possibile che la figura femminile sfugga a questo tipo di trattamento? Difficile pensarlo. E in effetti anche alla donna, alla donna amata, càpita d’essere respinta nella dimensione del non essere. Si prenda una lirica come Ti ho visto in mille luoghi. Il passato della donna, e del rapporto con essa, tende a scivolare nell’inesistenza; altrettanto dicasi del futuro: <Come una morte la tua assenza  / riempie il futuro di vuoti / e cancella ogni tua presenza / da un passato che ora appare / mai frequentato>>. E poco oltre: <<rischio di perdere ogni tuo ricordo>>. Insomma il passato e il futuro del rapporto con la donna precipitano concordemente, o tendono a precipitare, nella dimensione del vuoto, del non essere, di ciò che non è mai esistito e che mai esisterà.

Sono suggestive, queste poesie; suggestive e originali in questo loro ubiquitario nichilismo, in questa loro aspirazione ad annullare il diaframma che divide l’essere dal non essere, la vita dalla morte. Ha scritto l’antropologo Claude Lévi-Strauss che quello fra la vita è la morte è, parole sue, il <<supremo dualismo>>, il supremo dualismo che ogni individuo ha di fronte. Bene, quel dualismo l’autore di Preferisco di no sembra volerlo annullare; e lo fa, diciamo per concludere, avvalendosi d’un linguaggio delicato, raffinato, capace di aderire senza sforzo alle tematiche –non semplici e non banali- di cui abbiamo parlato. È elegante la scrittura di questo giovane autore, al quale auguriamo, dopo questa prima felice esperienza, un domani fertile di soddisfazioni. Si riproporrà, nelle prove future, il cupo nichilismo di Preferisco di no? Non lo sappiamo; e aspettiamo che a questa domanda il poeta non tardi a darci una risposta.

L'autore

Vittorio Roda
Vittorio Roda è stato professore ordinario di Letteratura italiana nell'Università di Bologna. La sua attività di ricerca si è sviluppata sul terreno della letteratura moderna, e in particolare sui decenni tra fin de siècle e primo Novecento. I suoi principali volumi: Decadentismo morale e decadentismo estetico (1966); La strategia della totalità (1978); Il soggetto centrifugo (1984); Homo duplex (1991); I fantasmi della ragione (1996); La folgore mansuefatta (1998); Verga e le patologie della casa (2002); Letteratura fra due secoli (2007); Studi sul fantastico (2009); Da Carducci alla Grande Guerra (2019).
Ultimi articoli