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Carlo Pulsoni intervista Mario Baudino

Mario Baudino oltre ad essere uno dei giornalisti culturali di punta de “La Stampa” (imperdibile la sua rubrica settimanale “Cartesio”), è anche poeta (con la raccolta Grazie ha vinto il Premio Montale e con Colloqui con un vecchio nemico il Premio Brancati), narratore (In volo per affari, Il sorriso del druida, vincitore del Premio Scalea, Per amore o per ridere, Lo sguardo della farfalla, Il violino di Mussolini) e raffinato saggista (Il mito che uccide, Il gran rifiuto, Ne uccide più la penna). Gran parte della sua poesia è stata ripubblicata nel volume La forza della disabitudine (Aragno 2018).

Sorprende il tuo eclettismo: giornalista, poeta, romanziere, saggista. A quale di queste etichette ti senti più vicino?

Risposta difficile; se potessi, cercherei di cavarmela con un “non saprei”, ma provo ad affrontare la questione. Per esempio: in questo momento non sto scrivendo poesie, mentre sono attratto dalla narrativa. Non so se significhi qualcosa, ma penso che in generale i vari tipi di scrittura tendano a imporsi di per sé, ovvero a imporre i loro tempi. Credo però di essere legato alla scrittura di narrazione, che può essere appunto romanzesca, ma non solo. Anche poetica, e persino, sul versante di una più accentuata referenzialità, giornalistica.

Quali sono i tuoi autori di riferimento?

Parlando di moderni, in generale gli anglofoni d’inizio secolo: T. S. Eliot in poesia, Joyce in prosa. Ma anche i cattivissimi come Evelyn Waugh per quanto riguarda il romanzo. Senza dimenticare Somerset Maugham, su su fino a Muriel Spark. Sul versante sperimentale i francesi, come Raymond Queneau. Per gli italiani, Beppe Fenoglio ma anche Carlo Emilio Gadda, Soldati, Landolfi, D’Annunzio – per il quale la parola riferimento forse è un po’ esagerata. Poeti: Mario Luzi su tutti, ovviamente Montale. E Ungaretti. Andando oltre il Novecento, direi che tutta la nostra tradizione è imprescindibile. Se devo dichiarare una preferenza o un legame, direi Ugo Foscolo – che a Gadda com?è noto dava sui nervi.

Gli autori stranieri preferisci leggerli in lingua o in traduzione italiana?

Dipende. La lettura in lingua, quando possibile, è indubbiamente più gratificante, anche se è proprio leggendo in lingua che qualcosa o molto si perde (penso che non si conoscano mai abbastanza le pieghe di una lingua straniera, a meno di non essere specialisti). Diciamo che oscillo.

Qual è il tuo rapporto con gli scrittori contemporanei delle letterature europee?

Li leggo con interesse – gli inglesi e i francesi su tutti -. Ne frequento alcuni. Penso che la letteratura sia piuttosto uniformata, ormai, a livello europeo, per quanto riguarda i canoni espressivi, le valenze stilistiche, insomma la “grammatica”. Poi ci sono i momenti di originalità vera.

Sei stato a lungo inviato alla Buchmesse di Francoforte. Quali sono i tuoi ricordi e come pensi che funzioni oggi il mercato editoriale?

È stata un’esperienza molto istruttiva, direi quasi formativa. La Fiera è quel luogo – come mi pare disse una volta Pasolini, trascinato lì dai suoi editori e piuttosto spaventato -, dove gli scrittori “non contano nulla”. Però è anche il terreno dove capisci che i libri bisogna venderli, perché senza un’industria editoriale non esisterebbero neppure gli scrittori almeno come li intendiamo noi.

Pensi anche tu che il fatto che gran parte degli editori arrivino nelle varie fiere letterarie per trattare il best-seller di turno faccia correre il rischio che molti autori validi non vengano presi in considerazione dal mercato italiano, o sei dell’idea che l’importante sia comunque che il libro sia alla ribalta e che poi da questo possa scaturire anche un interesse per gli autori attualmente considerati di nicchia?

Il best seller di turno esiste, beninteso, ma ha un problema: fra centinaia, migliaia di libri che vengono proposti a un editore, non si sa mai quale sia. Soprattutto adesso, che i diritti vengono scambiati ben prima della pubblicazione del libro, anche di quella in lingua originale. In ogni caso le fiere sono dei mercati, e non credo abbiano ruolo nella promozione della lettura. Riguardano gli editori, gli agenti e ovviamente gli autori – oltre ai librai, i distributori, insomma tutti i componenti del sistema editoriale. Soprattutto nelle grandi fiere internazionali il pubblico dei lettori, anche quando viene ammesso fra gli stand, è un fenomeno secondario. Diverso il caso dei Saloni del libro, dove l?incontro fra lettori ed editori è certamente importante anche per scoprire e valorizzare autori appunto di nicchia.

Quando parli dei Saloni del libro ti riferisci anche a quello di Torino, certamente il più importante in Italia? Quali sono le tue esperienza da giornalista e da scrittore in merito a questo Salone?

Il Salone del libro di Torino, che si rivolge sia ai lettori sia agli addetti ai lavori, ed è nato come una manifestazione tutta orientata sui lettori per evolversi in seguito su terreni professionali, mi sembra un tipico esempio di fiera editoriale che ha una forte valenza di promozione della lettura, perché avvicina libri e lettori in un clima festoso e piacevole, e consente percorsi di scoperta – per esempio di piccoli editori – verso libri difficili da trovare normalmente in libreria. È ovvio che poi, guardandolo come giornalista o come scrittore, le sue logiche sono ovviamente quelle comuni al sistema dei media e al sistema, diciamo, del mercato della cultura. Non è nato del resto per sovvertirle, semmai per farle funzionare al meglio”.

Nel tuo Il gran rifiuto scrivi che “il successo dei libri è sostanzialmente imprevedibile. Le modalità della loro accettazione, al fondo, lo sono ancora di più”. A distanza di qualche anno dall’uscita del tuo libro, ritieni di aggiungere qualcosa?

Direi di no. Ho questo convinzione irrazionale – ma empiricamente verificata – che il viaggio di ogni libro è misterioso e imprevedibile. Nelle vicende umane, del resto, previsione tende a far rima con frustrazione.

Il passaparola, come nel caso de L’ombra del vento di Zafón, può decidere le sorti di un libro. Aggiungerei anche la sua eventuale apparizione nei media radiotelevisivi, o nella carta stampata: penso ovviamente al supplemento Tuttolibri del tuo giornale o al Domenicale de “Il Sole 24 ore”. Ci sono ragioni sottese alla segnalazione di un libro o tutto ciò dipende dai gusti e dagli interessi del giornalista di turno?

Aggiungiamo anche la televisione nel senso di certe trasmissioni – adesso quella di Fabio Fazio – che hanno un ruolo potentissimo nella promozione di un libro. Però tu poni una questione molto importante e molto complessa: come si decide di che libro parlare. In Italia escono ogni anno, grosso modo, dai 50 ai 60 mila titoli. Una quantità smisurata ? anche se paragonabile a quelle delle maggiori editorie mondiali: non si tratta certo di un’eccezione – , non solo per una singola persona, il critico o il redattore, ma in generale per il sistema dei media. È evidente che non è possibile esaminarli tutti per poi decidere a quali dedicare uno spazio. Ed è altrettanto evidente che proprio questa enorme mole di titoli obbliga a un larghissimo pluralismo, tanto vasto da confinare col caso. In generale non parlerei perciò di ragioni sottese, ma della difficile gestione di informazioni ridondanti.
Direi che i parametri applicati generalmente sono vari, e naturalmente variano, appunto, da testata a testata. Uno è il gradimento del pubblico: si parla di libri che potrebbero interessare molti lettori, o già li stanno interessando. L”esempio di Zafón è tipico: un fenomeno nato col passaparola e successivamente rilanciato dai media. Ma si può andare molto più in là. Ormai sono sempre più frequenti i fenomeni esplosi su Internet e catturati poi dall”editoria. Già questa è una “storia editoriale” che i media narrano volentieri.
Un altro criterio è la valutazione diciamo autonoma che nasce all’interno delle redazioni: e cioè dal dialogo fra giornalisti e critici, che sono stati sollecitati indipendentemente attraverso i più vari canali (per esempio quella che un tempo si chiamava la “società letteraria”). Consideriamo inoltre il lavoro degli uffici stampa – che nel caso dei grandi gruppi non spingono “tutti” i loro libri, ma insistono su una rosa anche piuttosto ristretta -, degli autori stessi sempre più bravi nelle tecniche di autopromozione, dei fenomeni collettivi come i movimenti e i gruppi, insomma il “mercato della cultura” nella sua totalità; di cui i media sono parte, ma solo una parte. Il rapporto fra tutti questi elementi e parametri, sempre diverso, finisce per definire la formula, “l’anima” di un giornale.

Un aspetto finora poco affrontato ma che a mio avviso merita una profonda riflessione riguarda la vita media di un libro; il mercato editoriale concede ai libri una durata massima di pochi mesi, prima di mandarli al macero. È praticamente impossibile trovare in libreria un romanzo o un saggio dell?anno precedente, se non è diventato nel frattempo un best-seller. Le biblioteche fino a qualche anno fa erano le depositarie di questo patrimonio, grazie anche al deposito legale – ahimé sempre più disatteso -, ma oggi con i tagli ai bilanci riescono a stento a sopravvivere comprando il minimo indispensabile, e ovviamente nella maggioranza dei casi il best-seller di turno per venire incontro ai gusti dei lettori. Cosa si può fare per conservare traccia di questo immenso mare di libri che scompaiono?
Visto che abbiamo parlato di Zafón, potremmo sottolineare che la sua idea del “cimitero dei libri dimenticati” ha avuto tanto successo magari proprio perché quella che tu esprimi è una preoccupazione molto diffusa. Ma un cimitero non è la soluzione. Forse bisogna ripensare a Fahreneit 45. Ray Bradbury aveva avuto un’ottima idea, quando inventò i suoi “uomini libro”. Penso che, biblioteche a parte, il compito di conservare il libro sia affidato ai lettori. Se nessuno lo legge, se nessuno ha cura di lui, un libro muore. La tecnologia informatica sembra da un lato minacciare i libri nel senso che ne mette in discussione la forma in cui da secoli li conosciamo e usiamo, dall’altro tuttavia potenzia enormemente le capacità dei lettori. Per salvare i libri bisogna salvare i lettori: quelli di massa e quelli di nicchia.

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