È iniziata il 3 agosto 2019 e terminerà il prossimo primo dicembre la mostra Fujimoto Yoshimichi: The Centennial of the Birth of a Master of Overglaze Enamels on Porcelain (traducibile grosso modo con “Fujimoto Yoshimichi: a cento anni dalla nascita di un maestro della decorazione soprasmalto su porcellana”; la seconda parte del titolo giapponese è significativamente meno didascalica e più poetica: “Il vasaio che dipinse la vita”, “生誕100年 藤本能道 ― 生命を描いた陶芸家”), che si tiene presso il Musée Tomo. In quello stesso museo si era tenuta, un anno fa, la rassegna su Kawase Shinobu, artista di celadon, e in primavera un’altra interessantissima mostra dedicata a Shoji Kamoda, creatore di lavori in ceramica non decorata.
Non è un caso che questa rassegna monografica su Fujimoto Yoshimichi (Nōdō, 1919-1992), del quale si celebra quest’anno il primo centenario dalla nascita, sia ospitata nel Museo Tomo: molte opere in mostra vengono infatti dalla collezione della fondatrice Kikuchi Tomo (1923-2016), collezionista di ceramica giapponese e amica personale di Fujimoto, da lei sostenuto soprattutto durante gli ultimi anni di vita, quando, ormai malato, creò le serie di porcellane decorate più importanti della sua produzione.
Andiamo con ordine: Fujimoto Yoshimichi, dopo aver studiato presso l’attuale Università delle Arti di Tokyo (Tokyo Geidai), divenne allievo di Tomimoto Kenkichi (1886-1963, nominato ‘Tesoro nazionale vivente’ nel 1955 – se ne veda un’opera, fuori catalogo, nella prima fotto in basso) e Kato Hajime (1900-1968, nominato ‘Tesoro nazionale vivente’ nel 1961 – se ne veda un’opera, fuori catalogo, nella seconda foto in basso), celebrati come eredi e innovatori dell’antica tradizione di decorazione della porcellana con smalti applicati sopra l’invetriatura (iro-e jiki).
La decorazione su porcellana richiede numerosi processi consecutivi: alla modellazione e alla prima cottura dell’oggetto segue l’applicazione della cosiddetta coperta, che è un liquido pastoso a base di silice che, indurito, diviene superfice liscia e vetrosa (ovvero invetriata). Segue la decorazione a smalti opachi, che poi possono essere ulteriormente decorati con applicazione di motivi di varia tipologia.
Fin dalle prime opere Fujimoto richiama nella decorazione a smalto la tradizione giapponese (e più in generale asiatica) della pittura di uccelli e fiori, detta kachōga. Le basi tramandate dai maestri della pittura kachōga vengono però arricchite di elementi realistici, derivanti dall’osservazione del microcosmo naturale rappresentato da un piccolo fiume che scorreva accanto alla casa di famiglia, in prossimità della città di Tokyo. La pratica del disegno dal vivo di uccelli e corsi d’acqua si accompagnava così alla contemplazione dei ritmi naturali della vita animale, e all’apprezzamento dei processi dinamici che si nascondono dietro l’apparente immutabilità della natura. Nella fase iniziale della sua produzione il suo stile decorativo si presenta già molto preciso e individuale, anche se ancora legato a un certo formalismo appreso dai maestri.
Verso la fine degli anni Cinquanta Fujimoto si avvicinò a correnti di rottura con la tradizione, divenendo membro della Modern Art Association e della Sōdeisha (1958), gruppo di ceramisti di avanguardia. Fujimoto si propose così come sperimentatore di forme su argilla non smaltata: l’intenzione di creare qualcosa di nuovo metteva le sue opere in dialogo con la contemporanea tradizione occidentale.
Dal 1962 Fujimoto, ormai affermato maestro, tornò alla sua antica università, la Geidai, come docente del corso di ceramica, ispirando e addestrando molti futuri maestri di quell’arte. Tornò così a sperimentare tecniche di decorazione della porcellana, soprattutto a partire dal 1973.
Nel 1976 gli fu affidata, grazie anche all’intermediazione di Kikuchi Tomo, una commissione prestigiosissima: un servizio completo di quindici portate, per un totale di 230 pezzi, destinato alla famiglia imperiale. Il servizio fu usato dall’Imperatore e dall’Imperatrice Showa una sola volta, dopodiché scomparve per decenni, tanto da guadagnare il nome di ‘Servizio fantasma’ (‘maboroshi’, ovvero irreale o illusorio). Proprio in una precedente mostra del Museo Tomo il servizio è stato mostrato al pubblico per la prima volta. In questa mostra ne sono esposti circa quaranta pezzi.
Ma la vera eredità di Fujimoto, quella più ricercata dai collezionisti e imitata dagli allievi, fu invenzione della tarda età. Fujimoto spese molti anni a elaborare una nuova tecnica di decorazione a smalti e colori sovrapposti, che potesse riprodurre la complessità e la tridimensionalità delle sfumature della pittura su tela o carta washi.
Nel 1983 creò le sue prime collezioni con questa nuova tecnica, chiamata yubyokasai, che gli valse nel 1986 il prestigiosissimo titolo di ‘Tesoro nazionale vivente’ per i suoi capolavori iro-e jiki.
La tecnica dello yubyokasai consiste nel dipingere il biscotto bianco con numerosi strati di smalto e colori (incluso l’oro). I colori affondano così l’uno sull’altro, con un effetto finale che richiama molto da vicino le sfumature della pittura nihonga (non troppo dissimili dagli effetti tipici della tecnica ad acquerello). Fujimoto struttura la profondità delle immagini disponendo i colori scintillanti degli smalti in livelli di movimento circolare o spiraliforme, accompagnando o più spesso contraddicendo le curve delle superfici di porcellana.
Le immagini naturali si rifanno ancora all’irenico sostrato iconografico kachōga, ma la rappresentazione è movimentata dalle forti asimmetrie della composizione e dalla contraddizione fra livelli cromatici e staticità dei supporti.
Fujimoto preserva la brillantezza degli smalti, esaltandone la vitalità. I pezzi finiti sono stupefacenti: i colori mantengono un’apparenza liquida e dinamica, e sembrano colare da una dimensione all’altra della porcellana, sciogliendone superfici e contorni in un continuo cromatico di preziosa luminosità.
Le serie di vasi, scatole e superfici dipinte in questi anni si possono così ammirare come veri e propri dipinti tridimensionali, che anche sul piano della potenzialità espressiva non hanno nulla da invidiare alla pittura eseguita su supporti più tradizionali.
Gli ultimi anni, che come anticipato coincisero con periodi di inabilità del maestro dovuti alla malattia, videro un crescendo di espressività e movimento. Le visioni di Fujimoto divennero scintillanti rappresentazioni di dinamismo metafisico, dilaganti oltre oggetti dei quali mettono in crisi le caratteristiche fisiche.
È evidente il dialogo con i maestri della pittura nihonga giapponese, in primis Hayami Gyoshū (1894-1935) e la sua Danza delle fiamme (Enbu, 炎舞, 1925, oggi conservata presso il museo Yamatane di Tokyo). Le fiamme di Gyoshū rappresentano un movimento perpetuo attorno al quale ruotano falene e farfalle. Il fascino misterioso del dipinto è accentuato dal buio che si rafforza all’allontanarsi dalla fiamma.
Fujimoto pone al centro delle sue opere ispirate alla Danza delle fiamme il rapporto fra stasi apparente del supporto di porcellana e cinesi della decorazione. Il gioco delle apparenze, che evoca stati della materia inconciliabili (liquide fiamme che sembrano marmorizzare le superfici), accentua asimmetrie compositive che evocano assenze e mai equilibri. Le figure, farfalle o insetti dai colori sgargianti, si fanno vive e frenetiche, sovrapponendosi e fondendosi l’una nell’altra, mentre lingue di fuoco vorticano attorno al bianco dei vasi.
La materia è instabile: le fiamme si trasformano in fiori che esplodono, fondendo i bordi delle scatole in contrasti di bianchi e rossi vivissimi, solcati da scie di insetti d’oro. È in questo movimento di colori e materia che viene rappresentata con grande forza quell’instabilità costitutiva della bellezza che, io credo, Fujimoto leggeva nell’opera di Gyoshu.
Dopo la morte di Fujimoto il museo Tomo ha presentato esposizioni su aspetti particolari dell’opera del maestro, come il Servizio fantasma o i capolavori degli ultimi anni, ma la rassegna in corso, con 132 pezzi in catalogo, è la più grande di sempre.
Fra le opere esposte per la prima volta vi sono gli splendidi quaderni di disegni, con pagine ricche di studi dal vivo ma anche di progetti per decorazioni di vasi, che possono essere confrontati con la resa finale su ceramica.
Il catalogo, Fujimoto Yoshimichi: The Centennial of the Birth of a Master of Overglaze Enamels on Porcelain / “生誕100年 藤本能道 ― 生命を描いた陶芸家, a cura del Musée Tomo, traduzioni in inglese di Ogawa Kikuko, Tokyo, Kikuchi Foundation, 2019, consta di 151 pagine a colori e in bianco e nero, e risulta piuttosto ben fatto, con belle foto delle opere esposte. Mancano traduzioni in inglese della biografia di Fujimoto, nonché di alcuni apparati didascalici, ma, va detto, tali apparati sono piuttosto minimi, e il catalogo ha valore piuttosto per le immagini dei pezzi esposti (solo in minima parte recuperabili on-line), che sul piano dello studio bibliografico dell’autore.
In conclusione, non posso non raccomandare una visita a questa mostra, importante non solo per chi apprezzi opere in ceramica o porcellana, ma anche per chi sia interessato alle potenzialità della moderna tradizione pittorica giapponese, che in Fujimoto ha avuto un interprete originalissimo e tecnicamente eccezionale.
Informazioni sulla mostra:
Fujimoto Yoshimichi: The Centennial of the Birth of a Master of Overglaze Enamels on Porcelain / “生誕100年 藤本能道 ― 生命を描いた陶芸家
Tomo Musée, Toranomon 4−1−35, Minato-ku (Tokyo-Giappone). Aperto tutti i giorni tranne il lunedì dalle ore 11 alle ore 18
Sito internet del museo: https://www.musee-tomo.or.jp/info_EN.html
L'autore
- Lorenzo Amato è professore di Letteratura italiana presso l'Università di Tokyo
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