In primo piano · La scoperta

Il riscoperto codice autografo di Giovan Battista Vecchietti, avventuriero, bibliofilo e poeta (ms. BAV Vat. Lat. 8853)

Lo studioso arabista francese Jean-Baptiste Duval, in visita al direttore della Tipografia medicea orientale, Giovan Battista Raimondi (1536-1614), un bel giorno di dicembre del 1608 ebbe la ventura di trovarsi davanti uno dei più peculiari collaboratori della Tipografia, ovvero Giovan Battista Vecchietti. Scrive il Duval (dal ms. Parigi, Bibliothèque nationale de France, Ms. français 13977, c. 223v; cfr. Angelo Michele Piemontese, Giovan Battista Vecchietti e la letteratura giudeo-cristiana, in «Materia Giudaica. Rivista dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo», XV-XVI, 2010-2011, 483-500, in part. p. 488): «a la mesme heure que je l’entratenois [Giovan Battista Raimondi], arriva un aultre sien amy, interprète de la langue persiene, homme grand de corps, noir de visage, lequel porte perpétuellement des lunettes attachés sur le nez. Il s’appelle encore Joan Baptista Vecchietti, a faict plusieurs beaux voyages, ayant été mesmement esclave».

In effetti non si può dire che il Vecchietti (1552-1619, se ne veda una biografia con amplia bibliografia in Mario Casari, Vecchietti, Giovan Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, XCVIII, 2020, ad vocem) non avesse fatto bei viaggi e vissuto belle avventure. Come ci informa il fratello minore Girolamo in una lunga lettera scritta nel 1620 dopo la morte di Giovan Battista (8 dicembre 1619; la lettera si può leggere in Lettera di Girolamo Vecchietti sopra la vita di Giovambattista Vecchietti suo fratello, in Jacopo Morelli, I Codici manoscritti volgari della libreria Naniana, In Venezia, nella stamperia di Antonio Zatta, pp. 159-191), i due fratelli Vecchietti visitarono e soggiornarono  in paesi come l’Egitto, la Siria, la Persia, e l’India, trovandosi non di rado a difendere sé stessi e i propri beni da ladri, truffatori, spie, e anche pirati, e riportando in Italia, oltre a una incredibile competenza linguistica, una gran quantità di preziosissimi manoscritti arabi, copti, giudeo-persiani, ebraici, turchi e persiani fra i quali la più antica versione del Libro del Re, o Shahnameh, di Ferdowsi, oggi alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (ms. Magl. III 24: vedi copertina).

Giovan Battista Vecchietti, che comprendeva arabo, ebraico e persiano, mostrò estremo interesse per i manoscritti poetici, annotandoli con glosse e osservazioni, e, forse, provando a comporre una poesia in lingua persiana (attribuita però a Giovan Battista Raimondi in Mahnaz Yousefzadeh, The Sea of Oman: Ferdinand I, G.B. V., and the armour of Shah ‘Abbās I, in Rivista degli studi orientali, XC, 2017, pp. 52-74).

Se nell’ambito della storia delle biblioteche e delle relazioni fra Italia e Oriente quello dei Vecchietti è un nome importante, nell’ambito dell’italianistica invece è stato finora conosciuto solo di riflesso, o meglio giusto perché a lui Gabriello Chiabrera dedicò, oltre a una canzone morale e un bell’epitaffio (Sul punto, ch’io morii, contava gli anni), l’intitolazione del suo primo dei dialoghi poetici, appunto Il Vecchietti. Dialogo intorno al verso eroico, riconoscendo quindi all’avventuriero fiorentino una competenza poetica che non sembrerebbe emergere dai magri 9 sonetti che la bibliografia attuale gli riconosce (cfr. Virginia Cox, An Unknown Early Modern New World Epic: Girolamo Vecchietti’s Delle prodezze di Ferrante Cortese, 1587–88, in «Renaissance Quarterly», LXXI.4, 2018, 1351 – 1390, in part. p. 1356 e n. 25). Eppure nell’epistola inviata a Giovan Battista Strozzi il Giovane il 24 gennaio 1620 (Gabriello Chiabrera,  Lettere 1585-1638, a cura di S. Morando, Firenze, Olschki, 2003, n. 357, pp. 278-279), il poeta savonese ebbe a commentare così la morte del Vecchietti: «Creda V.S. che tutto, che gli anni del Sig. Vecchietti fossero assai, e che io sia indurato a’ dispiaceri, tuttavia ho sentito acerbamente il suo morire… Degli uffici humani, credo che se suoi componimenti non si perdono, egli non havrà bisogno, sì era egli di alto spirito e di gentile… Dio faccia che la prole aspettata dal Sig. Gio. Battista suo e nostro venga come la disideriamo: è sangue di che Italia è buona, e però questo parto sarà pregio di lei». Stando a queste parole, Chiabrera e Strozzi il Giovane, due fra i più importanti intellettuali e poeti del primo Seicento, conoscevano e stimavano la produzione del Vecchietti (i componimenti), e attendevano la pubblicazione di un’opera (la prole aspettata), qualificata come «il sangue di che Italia è buona». Sono parole importanti, essendo state scritte dal poeta considerato il maestro del classicismo secentesco.

Di tale libro poetico, manoscritto o a stampa, sono tuttavia sparite le tracce. Oggi però possiamo affermare che la situazione è cambiata, grazie all’identificazione del codice Vat. Lat. 8853, giacente per secoli anonimo in mezzo alle carte e ai libri di Giovan Battista Strozzi il Giovane e di altri accademici Alterati di Firenze. Di questo manoscritto fornisco di seguito alcune informazioni esterne e interne, in attesa di due assai più ampi contributi che in sede scientifica ne discuteranno l’uno gli aspetti codicologici ed ecdotici, e l’altro quelli tematici, con particolare attenzione alle poesie scritte in Persia e India.

Il manoscritto Vaticano si presenta ricco di correzioni e annotazioni, ed è diviso in fascicoli numerati, oggi tuttavia rilegati in disordine. La mano che scrive il codice, ovvero sia le poesie sia le correzioni e ogni tipo di annotazione marginale, è identificabile con sicurezza con quella che scrisse le ultime lettere firmate del Vecchietti (cfr. l’epistola inviata da Napoli a Strozzi il Giovane il 26 marzo 1619, nel ms. Firenze, BNC, Magl. VIII 1399, cc. 256-259). Il codice Vaticano è quindi autografo, scritto e in via di revisione durante gli ultimissimi anni di vita del poeta, come testimoniano le annotazioni di revisione scritte nel margine superiore, c. 1r «Rivisti in Napoli alli 23 di / Agosto 1616»; e c. 65r «Rivisti in Napoli alli / 24 di maggio 1619». Il libro, contenente 473 testi (dei quali però 91 sono copia di componimenti già presenti in altre carte, pur in diversa redazione), si presenta come una raccolta sì organica, ma in fase di risistemazione, probabilmente proprio in vista di una pubblicazione che non avvenne mai.

Nel libro sono presenti poesie scritte dal Vecchietti nel corso di tutta la sua vita: dalla giovinezza romana e fiorentina, agli anni dei viaggi nei paesi levantini, agli ultimi anni napoletani. I quali ultimi peraltro dovettero essere intensissimi, poiché circa 120 sonetti risultano composti nel triennio 1616-1619, a partire dal sonetto Dopo cotanti ricevuti torti, datato 16 settembre 1616 (c. 202v). A questi si devono aggiungere 30-32 poesie probabilmente presenti in un fascicolo perduto.

Interessantissimi i sonetti scritti nel Vicino Oriente, e in particolare quelli persiani. Ecco infatti ricomparire quelle poesie alle quali il fratello Girolamo accennava nella biografia, e dedicate alle città persiane di Persepoli, Yazd, Hormuz, e soprattutto Shiraz, della quale Vecchietti esalta la grande tradizione poetica (c. 245v: «Per queste fresche e fortunate rive / … incoronati de la sacra oliva, / cantando andar que’ chiari almi poeti / … Famosi cigni di Smirne e di Manto, / e voi di Flora di sì chiaro grido, / chiamate ancor questi serenieri al canto!») ma anche ai grandi fiumi d’Oriente, come Nilo, Tigri e Eufrate, Indo, e Gange. Ecco poi le poesie dedicate alle tombe dei poeti persiani e indo-persiani, spesso (ahimè) non nominati, forse perché in attesa di rubriche mai scritte, e di difficile identificazione (es. c. 250r: «Questa è la fonte già cara e gradita / tanto al più colto de’ poeti persi, / … Hor, sotto sponda di smeraldo, ordita / di fiori bianchi vermigli gialli e persi, / volve sue lucid’onde, e roca invita / i peregrini di sudore aspersi»: forse Saadi di Shiraz?). Ecco poi le poesie dedicate al compianto per disavventure come la cattura e la schiavitù, ovvero il sonetto Là presso ove il Roman ch’Utica honora (c. 214v).

Ma soprattutto ecco le tante e affascinanti poesie dedicate ai giardini persiani, luoghi che Vecchietti descrive con una estasi che non si riconosce nella tradizione italiana, e che sembra piuttosto da ascriversi alla lettura dei poeti persiani. E più di una poesia appare quasi aspirare a una sorta di palingenesi poetica, con l’evocazione delle Muse fiorentine a raggiungerlo in Persia, e a unirsi a quelle persiane (c. 225r):

Io che bevvi in Castaglia et Ippocrene
de l’usato tra noi dolce licore,
al cui gorgolio, al cui vago tenore
temprai le rime et accordai l’avene,
scorto tra persi hor più felici vene,
di lor lieta onda ebbro già fatto il core,
e l’alma acceso di divin furore,
di al ciel alzarmi poetando ho speme.
Voi, sacre Muse del mio tosco lito,
che sì m’amaste, che per tanta via
seguito havete li miei error diversi,
poiché ven fanno alto e cortese invito,
prendete in grado (o nobil compagnia)
stare tra le ninfe de’ be’ fonti persi.

Da una lettura anche rapida del manoscritto emergono quindi non solo poesie di indubbio valore letterario, ma anche una ambizione sperimentale che, forse con un certo anacronismo, potremmo considerare ‘interculturale’. Emerge cioè il desiderio, e anzi la gioia, di un intellettuale viaggiatore e poliglotta, di dar nuova linfa artistica alla tradizione italiana, ampliandone i canoni classici di riferimento, e innestandovi suggestioni e colori del mondo persiano.
Anche per questo ritengo che il libro delle Rime di Giovan Battista Vecchietti meriti un’edizione critica, alla quale dedicherò i prossimi anni di lavoro.

lorenzo.amato2014@gmail.com