L'italiano dei nuovi italiani

Silvio Mignano intervista Eliza Macadan

Nata nel 1967 a Județul Bacău, nella regione moldava della Romania, Eliza Macadan è un’importante poetessa e traduttrice romena. Poliglotta (la sua prima lingua non è stata nemmeno il rumeno ma il moldavo), Macadan ha vissuto per dieci anni in Italia e scrive molto nella nostra lingua, oltre che in romeno e francese, e oltre a conoscere il russo e l’inglese. Ha pubblicato in Italia le raccolte di poesie Frammenti di spazio austero (Libroitaliano, Ragusa, 2001), Paradiso riassunto (Joker, Novi Ligure, 2012), Il cane borghese (La Vita Felice, Milano, 2013), Anestesia delle nevi (La Vita Felice, Milano, 2015), Passi passati (Joker, Novi Ligure, 2016), Pioggia lontano (Archinto, Milano, 2017), Pianti piano (Passigli, Firenze, 2019). Ha ottenuto in Francia il Premio Leon Gabriel Gros 2014 per Au Nord de la Parole. In Italia Anestesia delle nevi è stato finalista ai premi Camaiore e Fabriano 2015. Molte delle sue poesie sono scritte e concepite in italiano e questo fa di Eliza Macadan un caso molto atipico di autrice italiana, anche perché, a differenza di altri autori che sono transitati da una lingua all’altra, la poetessa rumena non ha mai del tutto abbandonato la scrittura in altre lingue. E’ da poco uscita per la casa editrice argentina Espacio Hudson Ediciones la traduzione di Pianti piano (Llantos Despacio,  2020) ed è in preparazione presso l’editore francese La passe du vent la sua raccolta dal titolo Lettre de Bucarest.

Direi di partire dalle origini: qual è la sua formazione linguistica? In che modo ha imparato il francese e l’italiano, oltre naturalmente al romeno, e in quali momenti della sua vita?

Comincerò con l’apprendimento del romeno, perché è stata la mia prima lingua straniera. Fino ai miei sei anni sono stata cresciuta dai nonni materni, in un villaggio della Moldavia romena, a pochi chilometri dal borgo in cui è nato Samuel Rosenstock (Tristan Tzara). I nonni parlavano in casa solo in dialetto moldavo – ma in Romania non esistono i dialetti, esistono solo le parlate, quindi la mia madrelingua era una parlata moldava che esiste tuttora, anche se molto modificata; lo spostamento delle popolazioni ha segnato molto le lingue, anche a livello interno. In Italia negli anni cinquanta era cominciata l’emigrazione dal sud verso il nord, e pur essendo un’emigrazione economica non è rimasta senza conseguenze, immagino, a livello linguistico. A sei anni, dunque, in classe, nella prima elementare, non solo io, ma tutti i 25 marmocchi quanti eravamo, dovevamo imparare a leggere e a scrivere in romeno. È stata una forma di shock, perché lo sforzo dell’apprendimento era raddoppiato in partenza. Lì è entrata in gioco mia madre, che per me era una perfetta estranea – i nonni avrebbero voluto prendermi in affidamento, ma i miei genitori hanno cambiato idea dopo sei anni dalla mia nascita, e mi hanno rivoluto indietro. Mia mamma, con un immenso amore per la poesia romena classica – Eminescu in primis, ma anche Cosbuc, Goga, Alecsandri, quest’ultimo autore drammatico di rilievo, che aveva scritto e pubblicato in francese nel 1850 – ha cominciato a darmi lezioni intensive. Attraverso la letteratura mi insegnava la lingua e non solo: mi insegnava l’interpretazione, la recitazione, mimo e pantomimo, canto – aveva e ha tuttora una voce bellissima, innata, non coltivata, e amava cantare le romanze (tante sui testi delle poesie d’amore di Eminescu). Le posso dire che in terza elementare già scrivevo i miei primi versi, poesie rigorosamente in rima, sulla bellezza della natura nelle varie stagioni (adoravo l’inverno, quello moldavo, da fiaba: era una fiaba, ed io ne ero parte. Di recente ho pubblicato un racconto, su invito, in un’antologia intitolata La stalla aveva per tetto una stella. Sono racconti di Natale pubblicati dalle edizioni Mimep Docete, assieme ad altri 15 narratori italiani noti, e mi sento orgogliosa di essere in loro compagnia, lo confesso, e per l’attenzione che mi è stata accordata. Il mio racconto si chiama La principessa di tre abeti e vi descrivo una vigilia di Natale realmente accaduta mentre vivevo con i miei nonni). Proseguendo, in prima media la prima lingua introdotta nel programma scolastico è stato per me il russo, che ho adorato da subito e che ho anche insegnato come supplente quando avevo vent’anni. Leggevo le poesie di Esenin in originale – la letteratura russa era meravigliosamente tradotta in romeno. Le sfere di influenza geopolitica hanno anche aspetti positivi: una grande letteratura, come quella russa, ha segnato di sicuro i miei primi passi. Poi è entrato in scena il francese, che ha capovolto tutto – con il francese, subentrato al russo, mi trovavo incredibilmente affine, ero a mio agio in questa lingua, tanto da chiedere alla mamma di poter fare lezioni private, a partire dalla seconda media fino all’entrata al liceo – le lezioni, che facevo a casa della mia professoressa di francese, quella che avevo in classe, mi davano l’accesso ai libri della sua biblioteca. Quest’ultima non era niente male, vi ho trovato libri di poesia, racconti, poi, più tardi, romanzi. Per la narrativa, a quell’età, cercavo le traduzioni, mi ripeto, grandi traduzioni. Ero già più matura quando mi sono resa conto dello spessore della scuola di traduzione romena, imbattibile, non era una semplice scuola, era fatta di autori che sotto il regime comunista non potevano pubblicare e si erano convertiti alla traduzione per non morire di fame, per non essere esclusi. La stragrande maggioranza era composta da ebrei con un’immensa cultura nelle lingue e nelle letterature da cui traducevano, veri poliglotti. Vorrei citare qui il nome di una poetessa che gli italiani conoscono, Nina Cassian – lei, suo padre ma anche uno dei suoi mariti erano traduttori di grande maestria e cultura. E ho fatto solo uno dei tanti esempi possibili. Io da subito avevo cominciato a scrivere racconti in francese, più che racconti erano componimenti, ma con uno sviluppato lato originale. Vi introducevo tante metafore – alla stilistica e ai suoi procedimenti ero già stata iniziata dalle elementari – la scuola aveva qualcosa di militare, nel senso che l’insegnamento di stampo sovietico, con la pedagogia e la didattica prescritte dalla ricerca russa, aveva il pregio di obbligarti a imparare delle cose, delle tecniche, ti dava delle conoscenze che magari ritenevi assolutamente inutili, tante volte impossibili da capire, ma la loro memorizzazione dava i frutti più tardi. Il francese dunque, sì, mi aveva scelta: questa lingua e questa cultura, con i loro simboli e la loro libertà, mi avevano scelta e conquistata. La libertà è aria, è una forma di respiro, non è un concetto vuoto di contenuto, nemmeno un sintagma, la libertà è sempre altrove, non la si raggiunge mai. Appena pensi di averla afferrata, svanisce. La Francia è stato ed è tuttora il mio esattamente altrove. L’italiano l’ho incontrato in una vacanza d’inverno che passavo in un castello dei Carpazi, una settimana in compagnia degli alunni che avevano meriti eccezionali a scuola – i comunisti premiavano l’eccellenza. Alunni e professori di un intero distretto, sceltissimi – eravamo 15 ragazzi e 5 professori. Abbiamo festeggiato il Natale a Dărmăneşti. Della mia scuola non c’era nessun professore, ero da sola. Nelle stanze eravamo alloggiati con i professori. Noi, le ragazze, con le professoresse. Io occupavo una stanza con una bellissima prof d’italiano – non sapevo che si insegnasse nelle scuole romene l’italiano, e infatti non c’erano cattedre d’italiano, lei insegnava romeno. In quelle sere mi ha parlato di questa lingua, di quanto fosse bella, e aveva detto che mi avrebbe potuto insegnare delle parole – in sette giorni ho imparato i saluti, alcune cose di conversazione, come quelle delle guide turistiche. Lei diceva che me la cavavo bene, ma la verità è che mi era così accessibile, familiare, che mi sembrava non vera – io ero abituata alle difficoltà nell’incontro con le lingue straniere, ora aver imparato tante cose in così poco tempo mi aveva lasciato un’impressione di poca serietà. Tutto quello che avevo imparato con lei, quelle sere (di giorno ripetevamo, lei verificava la mia memorizzazione delle cose imparate), l’ho scordato poco dopo essere tornata a casa – ero in quarta media. Ma lei non l’ho mai scordata – è nella mia mente come una fotografia in bianco e nero, che il tempo non sbiadisce: bella, sensuale, di una femminilità che fino ad allora non avevo incontrato, dolce, calma, serena, con un sorriso eterno, una delle poche donne che non potrei mai immaginare arrabbiate. Non l’ho rivista mai più. Ma c’è sempre. Questa la prima esperienza con la lingua italiana. Il secondo incontro è accaduto nel 1996. Ho già raccontato questo incontro in un’intervista rilasciata per un sito italiano (Poesia del nostro tempo) e preferisco ridare il frammento virgolettato: “Arrivavo a Roma nel 1996, dopo un breve soggiorno in Belgio – ho attraversato la Francia di notte e una mattina presto ero a Torino, dove prendevo un treno per la Città eterna. Pensavo di rimanere non più di tre mesi, ma sono rimasta dieci anni.(…) Ricordo solo suoni, una musica continua in strada, sui marciapiedi, musica che usciva anche dalle finestre dei palazzi, ricordo il sorgere del sole su un Lungomare e la spiaggia a gennaio tutta per me e per alcuni cani randagi. Poi ricordo le mie colazioni al bar del porto con tante sigarette e giornali italiani – guardavo le foto degli articoli e provavo a capire almeno i titoli (le pagine degli esteri, invece, le percorrevo senza grandi problemi di comprensione) – e tanto caffè americano. Il cameriere, inorridito dal sacrilegio di non prendere l’espresso italiano – non sapeva che nella vita le uniche cose americane che non mi hanno delusa sono state il caffè e la democrazia raccontata da Tocqueville – pensava io fossi una turista francese, perché mi rivolgevo a lui in francese e la mia macchina era targata francese. Col tempo siamo arrivati a scambiarci i saluti in italiano, dopo mesi e mesi quando ormai a lui era chiaro che ero più francese che turista. Un anno ho fatto quasi niente, ho esplorato i luoghi, ho percorso l’Italia in lungo e in largo, sono arrivata fino in Sicilia – è stato il regalo di compleanno che mi sono fatta nel 1997, se ben ricordo – e ho deciso che sarei rimasta perché c’era tanta vita da vivere e da scrivere. Poi ricordo che mi sono messa in testa di imparare l’italiano.”

Qual è invece il suo rapporto con la letteratura espressa in quelle lingue, o magari anche in altre? Ha una conoscenza sistematica, organica, delle letterature francese e italiana, o si tratta di un’accumulazione un po’ casuale, fatta di testi che ha via via incontrato e amato? E li legge in originale o in traduzione?

Non leggo più da decenni in russo – di recente ho ricominciato con le poesie di Chodasevic, edite da Bompiani qualche mese addietro. Il russo non sopporta tradimenti, è una lingua che se l’abbandoni si vendica, e ora ho delle grosse difficoltà a livello di lessico ma anche di lettura fluente. Leggo in quattro lingue quotidianamente: romeno, francese, italiano e inglese. Scrivo – almeno la corrispondenza, in queste tre lingue. In casa parlo in romeno. L’inglese non l’ho imparato, l’inglese è una lingua che si insedia, non te ne accorgi ed è già entrata sotto la tua pelle, e non la togli più – c’è in tutto, lo parlano tutti, lo richiedono, lo pretendono. Io amo la musicalità dell’inglese – mi capita di scrivere testi di canzoni in inglese, escono fuori da soli, senza sforzo, è una lingua per eccellenza musicale. Le prime lezioni di inglese le ho prese guardando i film in tivù, agli inizi degli anni ottanta. La Romania non ha mai avuto una industria del doppiaggio – da noi tutto è entrato in originale e sottotitolato. Questo ha tolto una fetta cospicua di spettatori, gli analfabeti che avevano superato una certa età e che non erano più motivati a imparare a leggere (è stato colpito soprattutto il mondo contadino, che, in fin dei conti, non sarebbe mai stato davanti alla tivù), ma ha reso un immenso servizio alle giovani generazioni, che guardando televisione (film e musica) si sarebbero trovati familiarizzati con una o più lingue straniere e anche con una velocità di lettura invidiabile. Preferisco leggere gli autori in originale anche perché ne so qualcosa di quanto si possa perdere nella traduzione, forse non proprio perdere, anzi, delle volte guadagnare, ma è pur sempre un intervento, non è la parola pura, è la parola contaminata.

Pensa che vi siano differenze nel modo in cui lei scrive nelle tre lingue, sia dal punto di vista stilistico, sia eventualmente negli stessi contenuti? Lingue diverse incidono non solo sul come ma anche sul che cosa si decide di scrivere?

Assolutamente sì, non potrei rispondere diversamente, visto che avevo appena detto cosa significa la traduzione e quanto possa modificare il pensiero originale. Un primo “tradimento” avviene nel momento stesso, nell’attimo che trasforma il pensiero in parola – credo che noi non pensiamo in parole, suppongo che il nostro pensiero sia mistero assoluto, che tutti i nostri sforzi di analizzarlo, di teorizzarlo, di farne una materia di studio, siano solo tentativi, forse ci siamo avvicinati qualche volta a una forma di verità riguardo il pensiero, ma non ne conosciamo affatto la portata di questo chiamiamolo attributo umano. Io vedo con gli occhi della mente. Io vedo qualcosa che vorrei riprodurre, ridare, condividere con gli altri nella comunicazione. Quello che io vedo è un fiume, è acqua che scorre, questo è il pensiero, il flusso dei nostri pensieri è, per tante religioni, un temibile nemico, e lo scopo è quello di fermare questo flusso, di rendere immobile il pensiero, di fermare la suo continuo movimento. È un’impresa assai impegnativa. Noi, gli scrittori, facciamo esattamente il contrario, incoraggiamo questo flusso, lo stimoliamo, lo vogliamo accrescere, cerchiamo tutte le possibili ramificazioni, ci lasciamo affascinati dal suo tragitto, lo inseguiamo, e lo fermiamo al punto che decidiamo di mettere sulla pagina, quando siamo quasi stanchi di proseguire. Come me ora. In questa stessa risposta, dove vorrei spiegare e ci sono veramente da spiegare tante mie idee sul tema del pensiero convertito in parola. Sulla lingua mi sono espressa una volta dicendo che le parole sono per me giocattoli, ma non ero perfettamente seria, cioè era il pensiero di quel momento, ora potrei dire che la lingua è un materiale prezioso, ne facciamo dalla lingua contenitori per custodire alcune idee, sensazioni, impressioni, ricordi, ecc. L’italiano è una lingua di zaffiro, la vedo blu, zaffiro stellato, con iridescenze bianche, un mare d’estate, calmo, fresco, e da lontano con odori di Grecia. Il francese è un rubino, mi evoca i gioielli delle sue regine, delle dame di corte, ma anche delle cortigiane semi-aristocratiche. L’inglese è smeraldo, vedo nell’inglese l’oceano come una immensa lacrima, lacrima degli schiavi che sono arrivati lì per costruire mondi nuovi. Il russo è onice, onice all’anello del primo zar che si accinge nella steppa russa coperta da nevi infinite, l’onice è speranza che anche il buio che d’inverno scende presto, non è un buio qualsiasi, ma è un buio che culla, che aspetta il giorno breve ma intenso. Poi il romeno – il romeno è per me ambra. Ci sono tante epoche sconosciute, c’è qualcosa dell’inizio del mondo in questa lingua, perché in questa lingua ci sono i miei inizi. Visto quanti materiali ne ho a disposizione, mi sembra ovvio di creare contenitori, gioielli vari. Sono tutti hand made, non ne ho imparato tecniche avanzate, non ho a disposizione teorie linguistiche raffinate, non so niente e tante volte mi sento una nomade che non sa dove va, ma va. E andando raccoglie suoni, colori, venti, piogge, nevi, fiumi, mari, quel che trova. Questi sono i miei punti di riferimento, poi, sullo sfondo, le voci della gente, tante voci, amici, conosciuti e soprattutto estranei. Siamo tutti estranei in questo mondo, ma ce lo siamo scordati.

l’eternità stava in cima alle colline / bruciata dal sole / io l’apprendevo mentre rincorrevo / la linea dell’orizzonte / ad occhi spalancati e / gambe incespicate nell’erba alta / cosa c’è di là? / una foresta un fiume un paese / e un’altra lingua. In questa sua poesia sembra di capire che la scoperta di un altro paese, oltre la linea dell’orizzonte, coincida con quella di un’altra lingua. Si appartiene a un luogo quando ci sia appropria della sua lingua? È sempre così o può accadere anche diversamente?

Può essere così, ma al di là della lingua apparteniamo a un luogo, secondo me. Io appartengo a un luogo mentre lo penso, mentre lo immagino, mentre passo di là, ma appartengo solo se ho questo bisogno di appartenere a un luogo. Se invece il mio bisogno è di non appartenere a un luogo – cosa che mi caratterizza – allora io vado oltre e spero.

In un’altra sua poesia si legge: dormiamo su due / continenti diversi. A me interessa molto il tema dell’appartenenza a due o più mondi contemporaneamente. Si può esistere al contempo in più luoghi, appartenere a lingue e ambienti diversi allo stesso tempo? O questo annulla ogni appartenenza e ci rende un unicum indefinibile?

Ho accennato a questa risposta, poco fa, ora potrei svilupparla un po’: siamo altro che materia, siamo un’altra materia, sconosciuta. Siamo anime. Si è studiato tanto, si è scoperto molto, ma dell’anima, sull’anima, cosa ne sappiamo? Sappiamo che per sopportare la vita dobbiamo far scendere il pensiero nel cuore e da lì, fare il tragitto all’incontrario. Questo dovrebbe essere il nostro cammino. In tutte le lingue, in tutti i luoghi, in tutti gli ambienti, fatto questo, diventiamo un unicum definibile – povere smarrite anime.

Mi piacciono molto questi altri suoi versi: le razze ormai scadute / screpolate dal sole implodono / vola via ogni speranza / e sprofondano per sempre le differenze. Mi riconosco in questa lettura del mondo: l’assenza di razze (tra l’altro ormai dimostrata scientificamente dal genetista italiano Cavalli-Sforza) e il grande equivoco che per difendere le diverse culture occorra esaltare le differenze tra gli uomini e non invece le cose che abbiamo in comune, che sono molte di più. In che modo la poesia può valere quale linguaggio universale, indipendente dalla lingua o dalla cultura di origine, e quanto invece resta ancora legata a quelle origini?

La poesia? Non lo so. La poesia, diceva un monaco ortodosso, è parlare con Dio. Per me la poesia è quando mi parla Dio. Io solo trascrivo, se faccio in tempo, perché se qualcosa mi distrae, tutto svanisce. E devo aspettare la prossima volta. Linguaggio universale, sì, mi viene in mente il movimento culturale e scientifico internazionale chiamato transumanismo. Uno degli esponenti di questo movimento, il filosofo Nick Bostrom, affermava che i germi del transumanismo si trovano nell’umanesimo rinascimentale e nella filosofia illuministica, e cita Pico Della Mirandola che incoraggiava gli umani a “scolpirsi la propria statua”. Nel XX secolo un ruolo determinante nel diffondere le idee transumaniste l’ha avuto il saggio “Dedalo: scienza e futuro”, scritto nel 1923 dal geneticiano J. B. S. Haldane. Nel 1966 F.M. Esfandiary, un futurista che insegnava alla Nuova Scuola di New York, ha dato agli addetti delle nuove tecnologie informatiche il nome di transumani. Nel 1972, Robert Ettinger pubblicava il lavoro Uomo verso sovra uomo e Esfandiary ritornava nel 1973 con Upwingers Manifesto. Infine, agli inizi degli anni Novanta, l’Università californiana di Los Angeles è diventata il centro del pensiero transumanistico, e vi si tenevano corsi di futurologia. La storia è andata avanti. Ci siamo dentro. Una delle paure più forti dell’essere umano è la paura della morte. Ci sono già le condizioni per farla sparire, perché gli esseri postbiologici avranno la possibilità di vivere all’infinito oppure, in caso di noia, scollegarsi, scaricare le loro conoscenze su sopporti digitali e in caso di ripensamento, tornare in vita, ricaricare le loro batterie elettroniche. Ci sarà poesia? Ma sì! Ci sono già libri di poesia scritti dai robot. Si introducono alcune parole: tema, atmosfera, indice di malinconia/ tristezza/lacrime, incipit, taglio versi, numero parole, finale aperto, chiusa inaspettata, ecc. E noi? Povere anime.

quelli che amo sono sparsi / per il mondo / tra paesini e metropoli / intorno a me questa domenica / mi soffoca con la bava / dell’attesa. La poesia nasce anche dal rimpianto? Può essere una cura o è piuttosto uno strumento per dar corpo e parola alla sofferenza?

Si è parlato molto della scrittura come cura, cura di quella paura di morte che esiste in ognuno di noi, dal momento dello sbarco in questo mondo. Il transumanismo risolve questa paura. E i rimpianti? La sofferenza? Ma quale?! Non ci sarà più il concetto – una parola stoccata su un microchip che custodirà il linguaggio delle epoche sommerse o bruciate. Quelli che amiamo saranno sempre con noi, per me rimarrà così.

Lei è anche traduttrice. Quali sono le maggior difficoltà che un poeta incontra quando indossa l’abito del traduttore e deve rinunciare almeno in parte al proprio modo di scrivere per adeguarlo al testo che ha di fronte? Ci si riesce davvero?

Vorrei finire questa intervista su una nota ottimistica, mi accorgo che sono scivolata troppo, che non ho guidato in maniera adeguata e decisa il flusso dei miei pensieri, mi sono lasciata portare da essi e, non so come, mi hanno fatta volare su un versante pericoloso, da cui sentivo un vento cosmico. Ora torno qui per dire che tradurre poesia dell’altro non è complicato, non richiede studi avanzati di comparatistica, di linguaggio e teorie linguistiche di altissimo livello, almeno non è così per me e non posso parlare che di me. Rinunciare al nostro modo di scrivere, almeno in parte, come diceva lei, può essere salutare. Immergersi nel modo/mondo dell’altro è un’impresa che l’uomo postmoderno, cioè i nostri contemporanei, sono sempre meno disposti a fare. Tutto si centra sull’Io, sull’ego, su se stessi. Qui è iniziata la nostra rovina ma la viviamo come se fosse una vittoria. Ci si riesce, anche se si fa fatica. La stessa fatica che ci vuole per fermare il proprio pensiero.

Due poesie di Eliza Macadan, da Pianti piano, Passigli, Firenze, 2019.

quelli che amo sono sparsi
per il mondo
tra paesini e metropoli
intorno a me questa domenica
mi soffoca con la bava
dell’attesa
il tuo amico dice bene che dobbiamo
fare una grande famiglia per essere
tutti insieme ma ricordo Sartre
con l’inferno degli altri
che mi abitano di continuo come
se volessero annientarmi
le ore si contano da sole gocciolano
sul mio dolore accucciato
in margine al letto svuotato da tempo
una fitta nell’anima
mi avvoltola nel mio passato
e con la prima sigaretta del mattino
vedo il nostro film buttato
con tatto alla fine del libro
appendice o apocalisse

***

i miei incubi
sono dei lunedì
sopra Hiroshima
quando trema la terra
di notte so che Dio
mi dondola senza di te

nei cortili dei monasteri
colgo misteri soffoco desideri
fioriscono litanie ovunque
dal cielo una luna diurna
scivola piano nel dunque
di un verso terre ignote
con tanta vita quanta morte
crescono ali ai cavalli dell’infanzia
ma non trovo più la sella per cavalcare
gli anni

lasciami qui troverò nomi
nuovi agli arcangeli
preparerò un esercito
in preghiera aspetterò l’apertura
della frontiera

 

L'autore

Silvio Mignano
Silvio Mignano
Silvio Mignano è nato a Fondi il 23 ottobre 1965. È scrittore e diplomatico di carriera: ambasciatore d’Italia in Bolivia, dal 2007 al 2010, in Venezuela dal 2015 al 2019, e attualmente in Svizzera.

Ha pubblicato i romanzi Una lezione sull’amore (Fazi, 1999), Le porte dell’inferno (Fazi, 2001), Pilar degli invisibili, La favola del mercante Docibile e della principessa siriana (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015), Il Danzatore inetto (DeriveApprodi 2018), il libro di favole Il regalo del rinoceronte (Manni, 2004, con illustrazioni dell’autore), le raccolte di poesie Taccuino nero per il viaggio (Caramanica, 2003), Non abbiamo uno sceneggiatore di scorta (Gente Comun, La Paz, 2009), La nostra ribelle buona educazione (Manni, 2011, con prefazione di Enrico Testa, Premio Sertoli Salis 2012 per il miglior libro italiano di poesia del biennio) e I Venerdì Santi (Passigli, 2017), e il libro di racconti El Bolígrafo Boliviano (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015).

I suoi libri sono stati tradotti in spagnolo.

Ha tradotto tra l’altro l’antologia di poesie cubane L’isola che canta (Feltrinelli, 1998, a cura di Danilo Manera), Río Quibú di Ronaldo Menéndez (Fazi, 2009), I miei fratelli Fidel e Raúl, di Juanita Castro (Fazi, 2010, con lo pseudonimo di T. Ferreri) e l’antologia di poeti venezuelani Mezzogiorno in Venezuela (Robin-Biblioteca del Vascello, 2017).
Con lo pseudonimo di Mario Cabrera Lima ha scritto la sceneggiatura del film Haiti Chèrie di Claudio Del Punta, premio Giuria Giovane al Festival di Locarno nel 2007 e premio proprio per la sceneggiatura al Festival di Mons (Belgio) del 2007.

È stato anche presidente del comitato organizzatore della Biennale dell’Arte contemporanea de La Paz nel 2009, quando il Presidente della Giuria era Achille Bonito Oliva.

A Basilea ha curato con Germano Celant nel 2006 Avenue Rotella, l’ultima mostra di Mimmo Rotella ancora vivente, tenutasi presso il Museo Tinguely. Collabora con il mensile italiano L’Indice dei Libri, con L’immaginazione (Manni editore), con Margini, la rivista dell’Istituto di Italianistica dell’Università di Basilea, diretta da Maria Antonietta Terzoli, con Insula Europea, rivista on line diretta da Carlo Pulsoni, e con l’Enciclopedia Treccani.

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