In primo piano · Libro d’artista

Di un professore e di una private press. Maria Gioia Tavoni dialoga con Matteo Totaro

Nato nel 1985 a Manfredonia, Matteo Totaro vive a Monte Sant’Angelo fino al termine degli studi classici, quando decide di trasferirsi a Bologna per frequentare la facoltà di Lettere dell’Alma Mater Studiorum. Amante della poesia e della musica, intraprende un percorso di ricerca sulla poetica del cantautore Paolo Conte che, accanto alla tesi di laurea su Roberto Roversi, costituisce l’esito finale del suo percorso accademico. Vincitore di concorso indetto per l’insegnamento nella scuola secondaria, Matteo ottiene la cattedra di Italiano e Storia nel Liceo “Primo Levi” di Vignola. Docente scrupoloso, segue i suoi studenti con partecipazione anche nel lungo periodo della chiusura degli istituti a causa della pandemia, sperimentando nuove forme di apprendimento online.
Come sia pervenuto, quasi per caso, ad amare tutto ciò che si compendia nel libro d’artista, sarà lui stesso a dirlo, ma ancor prima delle domande che gli rivolgerò, voglio presentarlo non solo come studioso di Roberto Roversi, ma anche come suo giovane amico e pupillo.
In una piccola piazza di Monte Sant’Angelo, Matteo ha deciso di aprire la sua private press Officina del giorno dopo, in ricordo e memoria di Officina, la rivista fondata a Bologna nel 1955 da Roberto Roversi, Pier Paolo Pasolini e Francesco Leonetti. Devozione e riconoscenza hanno permesso alla sua bottega di essere compresa fra quei benemeriti opifici che ancora si pongono al servizio dell’arte “fabrile”.

Che cosa hai trovato di nuovo e sorprendente a Bologna, città scelta per gli studi universitari, rispetto al tuo paese in Puglia?

Sono arrivato a Bologna nel 2004 un po’ per caso. Una serie di imprevisti e coincidenze mi hanno portato nella stessa città in cui mia madre, a inizio anni ’80, si era laureata al DAMS. Ricordo perfettamente la malinconia del primo viaggio notturno in autobus; ero seduto accanto a un poliziotto a cui, una volta in stazione, mostrai con leggero imbarazzo un bigliettino con l’indirizzo dell’appartamento che avevo preso in affitto qualche mese prima e che avevo visto di persona una sola volta. Non ero sicuro, in quell’alba di fine settembre, di riuscire a ripercorrere da solo il tragitto che credevo di aver memorizzato. Le strade di Bologna mi parevano tutte uguali, così come devono risultare a chi mette piede per la prima volta nel capoluogo emiliano…
I mesi iniziali in città sono stati piuttosto eccitanti; provavo una strana sensazione, un misto di euforia e inquietudine tutt’altro che paralizzante. Giravo di continuo per conoscere vie, monumenti, piazze, con il “Tuttocittà” ripiegato nel taschino dei jeans e una mappa con i percorsi degli autobus. Non c’erano ancora gli smartphone e quei pezzetti di carta sbrindellati mi facevano sentire al sicuro. Ma per conoscere davvero Bologna non bastavano le guide cartacee, bisognava tuffarsi nel flusso degli eventi culturali che si moltiplicavano giorno dopo giorno e che si sovrapponevano uno all’altro senza soluzione di continuità. All’epoca avevo un debole particolare per il cinema d’essai e scelsi il Lumière come rifugio personale. Mi meravigliava il numero di studenti che affollavano la sala anche durante l’ultima proiezione delle 22.30 per vedere i film di Germi, Petri, Rosi. Era questo l’elemento più sorprendente: la folla di persone che partecipavano con entusiasmo a ogni appuntamento cinematografico, musicale, letterario, politico. Avere la possibilità di condividere con così tanta gente le passioni che in paese, fino a quel momento, avevo sempre coltivato da solo (o al massimo con pochissimi amici) era molto gratificante. Ecco, forse è stato questo l’elemento di maggiore sorpresa: sapere di non essere più “soli”, di poter conoscere centinaia di persone con le mie stesse passioni, o almeno con interessi affini. 

L’amore per la poesia nasce in te prima o dopo gli studi universitari?

Se dicessi che l’amore per la poesia è nato prima dell’incontro con Roversi mentirei. Certo, al Liceo avevo intuito la potenza di Ungaretti e Montale, ma i miei interessi erano indirizzati prevalentemente alla prosa, in particolare ai classici del Novecento; leggevo con grande interesse: Buzzati, D’Annunzio, Kerouac, Hemingway, Salinger. Roversi mi ha fatto conoscere la poesia senza consigliarmi alcun libro; pare incredibile ma è così. A casa sua mi capitava di rispondere al telefono e scoprire che dall’altra parte del filo c’era Tonino Guerra! Era naturale per me tornare a casa e cercare immediatamente e in maniera febbrile tutte le informazioni disponibili in rete sul lavoro del poeta con cui casualmente mi ero appena ritrovato a parlare.
A volte Roberto mi regalava dei volumi ma lo faceva sempre con “timidezza”, perché pensava di darmi un onere, credeva che mi sarei sentito in obbligo a leggere i suoi libri così come lui, per il grande rispetto che aveva per il suo lavoro e per quello degli altri, leggeva tutto ciò che i suoi colleghi, o semplici scrittori in erba, gli inviavano quotidianamente per posta. Insomma, come ebbe modo di affermare in un’intervista Lucio Dalla (che ho conosciuto di persona proprio grazie a Roversi), l’incontro con questo straordinario uomo “fu una vera investitura, una sorta di apprendimento per osmosi, o addirittura per partenogenesi”. È incredibile ma bastava essere nella stessa stanza di Roversi per imparare cose eccezionali.

 

Come hai conosciuto Roberto Roversi e quanto hai appreso da lui?

Una coincidenza più unica che rara. Sono inciampato casualmente nel nome di Roberto Roversi ascoltando proprio Lucio Dalla, in particolare l’album “Automobili”, i cui testi sono firmati (“per protesta”) con lo pseudonimo Norisso. Mi appassionai subito alle tematiche e allo stile tanto che decisi di proporre al mio docente di Letteratura italiana contemporanea una tesi sull’argomento. Poi mi capitò di trasferirmi in un nuovo appartamento e mi accorsi di essere finito nello stesso condominio e sullo stesso pianerottolo del poeta che stavo studiando. 50 centimetri dividevano la mia porta dalla sua! Senza alcuna timidezza (e con l’incoscienza dei miei 21 anni) decisi di suonare al suo campanello e di presentarmi. Da lì iniziò prima una collaborazione, perché Roversi aveva appena chiuso la sua storica libreria Palmaverde e aveva bisogno di un aiuto per risistemare parte dei libri nel suo appartamento di Via Majani, poi un’amicizia che, come ho già avuto modo di scrivere in passato, “ha sconvolto il diagramma cartesiano della mia esistenza”.
Sembra banale dirlo ma da lui ho appreso moltissimo di quel poco che so. Roversi ha plasmato quella parte di personalità che è ancora plasmabile in un ventenne. Ho imparato innanzitutto il rigore nel lavoro: “Bisogna scrivere tutti i giorni e se non si ha niente da dire bisogna quantomeno rileggere e correggere quello che si è scritto prima”, mi ripeteva spesso. Poi ho appreso milioni di altre cose che richiederebbero un libro intero (che forse prima o poi arriverà). Ma rispetto al nostro discorso, mi preme dire che grazie a Roversi ho iniziato a vedere i libri in modo diverso, come oggetti con cui si può stabilire un rapporto estetico, oltre che funzionale; penso si chiami “bibliofilia”. 

In che anno hai aperto la tua Officina del giorno dopo e con quali propositi?

Officina del giorno dopo è nata dalle ceneri di Heket, la piccola casa editrice di poesia che ho avviato con Valerio Grutt nel 2013, poco dopo la scomparsa di Roversi. La pubblicazione di “Scalabrino”, un racconto inedito che Roberto mi ha dettato di getto poche settimane prima di morire, stampato con il supporto della tipografia Anonima Impressori di Bologna in 99 esemplari numerati, ha chiuso simbolicamente l’attività editoriale di Heket il cui testimone è stato raccolto da Officina.
Dopo quell’esperienza, e anche qui per una serie di incontri fortuiti tra i quali quelli con Alberto Casiraghy, Luciano Ragozzino e il compianto Joseph Weiss, ho deciso di inaugurare una piccola tipografia in Puglia, a Monte Sant’Angelo, nella mia città natale. Nell’agosto del 2017 Officina del giorno dopo ha aperto i battenti per iniziare a stampare “I Marenghi”, piccole plaquette con una poesia, rigorosamente inedita, e un’opera grafica. Ovviamente non ho potuto che esordire con un libretto contenente tre poesie inedite di Roversi che Antonio Bagnoli, direttore della Pendragon (nonché nipote di Roberto), mi ha gentilmente concesso.

 

Da dove hai preso l’ispirazione per la tua collana di piccoli libri d’artista e quali sono i prossimi progetti editoriali?

Penso che la prima fonte di ispirazione per i miei libretti sia stata la casa editrice Pulcinoelefante di Alberto Casiraghy, non tanto a livello grafico quanto per la poetica espressa, caratterizzata innanzitutto da grande libertà e voglia di sperimentare, oltre che dal desiderio di vivere l’esperienza artistica in modo “collettivo”.
Visitare la private press di Alberto e conoscere il contesto cittadino mi ha spinto a delle riflessioni importanti. In primo luogo mi ha colpito molto osservare come Osnago, un paesino della provincia di Lecco, fosse diventato un importante luogo d’incontro di artisti e scrittori grazie alla “semplice” presenza di un piccolo editore (anche se uomo straordinario e inimitabile, questo va specificato). Avrei potuto avviare la mia private press a Bologna ma non avrebbe avuto lo stesso significato e, non lo nego, l’impresa avrebbe comportato un dispendio economico non sostenibile, considerato lo spirito con cui mi accingevo a partire. Monte Sant’Angelo, invece, poteva rappresentare il rifugio in cui rintanarmi nei momenti di pausa dal mio lavoro principale.

 Non ho ancora apposto l’insegna nella mia bottega ma quando lo farò inserirò sotto il nome la dicitura “Aperti per ferie, orari comodi” per esplicitare la vocazione dell’Officina, un luogo in cui creare collaborazioni e stabilire legami artistici e d’amicizia in totale libertà, perché, come si dice dalle mie parti, “cóse a ffòrze véle na scòrze”.
Sono molto soddisfatto per essere riuscito finora a portare nel mio paese tantissime personalità di spicco dell’ambiente artistico e tipografico, a seguito di incontri spesso anche fortuiti. Ho avuto modo di ospitare nella mia bottega (alcuni anche più di una volta) i poeti Nicola Muschitiello e Valerio Grutt, l’incisore Federico Fusetti, la direttrice della Libreria Zanichelli Coop di Bologna Barbara Sghiavetta, l’illustratore Antonio Rinaldi, oltre che l’insostituibile stampatrice Veronica Bassini, compagna di avventure tipografiche e non solo.
Posso dire che le attività di Officina del giorno dopo si dividono in due parti: la stampa della collana “I Marenghi”, che finora ha visto tra gli altri alcuni tra i nomi più importanti della poesia italiana del secondo Novecento, e gli incontri “estemporanei” con artisti e poeti a cui segue quasi sempre la realizzazione di una stampa tipografica (poster, biglietto, pieghevole). Questa seconda attività rappresenta forse l’aspetto più dinamico e ludico dell’Officina e viene perseguita sempre all’insegna della libertà e della leggerezza.

totaro.m@tiscali.it

 

 

 

L'autore

Maria Gioia Tavoni
Maria Gioia Tavoni
M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it