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La prosa dei poeti

Discorrendo della poesia di Thomas Hardy, in Dolore e ragione, Brodskij scrive che l’importanza del romanziere è tale che risulta difficile “resistere alla tentazione di agganciare il prosatore al poeta”. Ricorda questo passo il poeta Pietro De Marchi in un testo della sua recente raccolta di prose intitolata Con il foglio sulle ginocchia (Casagrande, Bellinzona 2020) e mi sono chiesto se tentazione non generi a sua volta tentazione, nella fattispecie quella di ribaltare la frase ora citata e leggere il prosatore De Marchi alla luce della sua poesia. Mi sono chiesto se, in riferimento alla sua opera, tra versi e prose non circoli la stessa aria, e non solo per affinità di temi, ma per cura e tenuta di stile. La tentazione andava naturalmente verificata almeno sull’ultima sua raccolta di versi (La carta delle arance, Casagrande 2016) e nei precedenti Ritratti levati dall’ombra (racconti del 2013, sempre Casagrande), ma più in generale nel crescente interesse che la prosa dei poeti sta incontrando presso la critica e gli stessi giovani autori.

E questo mentre la lingua del romanzo, in mano agli editor delle grandi case editrici, sembra tendere sempre più allo standard, al facilmente traducibile ed esportabile e “comunicabile”, tanto che di recente un importante italianista ha parlato del romanzo, fatte salve le inevitabili e magari mirabili eccezioni, come di un mero “genere merceologico”.
Una lingua di sobria e concentrata scansione caratterizza l’ultimo libro di prose di Pietro De Marchi, una raccolta che unisce il racconto di memoria alla pagina critica, ma il confine tra i due “generi” è labile; in un attimo l’uno può stingere nell’altro e l’impressione che se ne ricava è quella di un’armonia necessaria e inquieta, convergente su un unico campo gravitazionale. L’incontro tra il personale destino del singolo e la Storia è quanto sta al centro della riflessione di De Marchi e sotto questo aspetto la figura del padre assume valore di paradigma. Sono forse le pagine più complesse del libro in virtù di una doppia angolazione dello sguardo: quello del padre ragazzo arruolato a forza nella “parte sbagliata” della guerra già persa e quella del figlio adulto, cui tocca la visione insieme nitida e partecipe di chi comprende e non giudica e lega il solco di una singola esistenza a quelli che Fortini chiamava i destini generali. Le lettere alla famiglia del giovane artigliere (e giovane studente di Filologia classica), in realtà prigioniero in una Germania di macerie (la sua lettera da Colonia, ci viene suggerito, potrebbero costituire un’ottima nota a piè di pagina della Storia naturale della distruzione di W. G. Sebald), si alternano ai commenti del figlio, dove il pudore della glossa è indice di una pietas profonda, un tratto questo che si ritrova anche negli altri libri di De Marchi e segnatamente nella sua poesia. Vi è addirittura scambio di materiali: una densa prosa presente tra le liriche di La carta delle arance (si tratta di Kaputt) passa tra le prose di Con il foglio sulle ginocchia per minime varianti in una più distesa pagina che costituisce l’argomento del libro. È ancora il padre ad essere chiamato in causa, se riconosce in un’iperbole di Malaparte un quadro “infernale” che ha avuto realmente davanti agli occhi nel crepuscolo della Germania, e gli fa ora distogliere lo sguardo perché la vita si è presa la sua rivincita. È che la stessa poesia di De Marchi, in cui sensibile è l’influsso tanto “narrativo” quanto “musicale” di un maestro come Giorgio Orelli (e di Orelli De Marchi è stato l’eccellente curatore del mondadoriano “Oscar” Tutte le poesie) è parte di quest’indagine, nella quale l’esattezza di referto si mantiene tale nel passaggio dal dettaglio al quadro d’insieme, o meglio nella relazione fra di essi. Costante di questa riflessione è il cambio di passo che avviene tra la generazione dei padri giovani nella grande tempesta e quella fortunata dei figli lungo gli anni di un lunghissimo – e sembrerebbe ora concluso – dopoguerra; ne è prova il limpido Autoritratto non contraffatto che fa parte dei precedenti Ritratti levati dall’ombra, e ricapitola la personale biografia di milanese di origini familiari venete, ma da oltre trent’anni docente di letteratura italiana all’Università di Zurigo. Di qui un ventaglio di bellissimi ritratti nella seconda parte dell’ultimo libro: di Giorgio Orelli, naturalmente, ma anche del cugino di lui Giovanni, di Federico Hindermann, di Dante Isella, di cui vengono ricordati gli affascinanti seminari al Politecnico zurighese. Il dispatrio, uso di proposito un lemma-emblema di Luigi Meneghello – autore pure caro a De Marchi – si presenta così come occasione preziosa per stabilire misure e verifiche, sperimentare nel corso degli anni una voce che trova accoglienza e ragione in un contesto insieme affine e altro. Una voce che sembra non avere fretta, per la calma concentrata con cui seleziona e assembla i suoi materiali, li differenzia, ne studia la tenuta e li fa convergere. Perché, rubo a De Marchi una citazione di Giorgio Orelli, “un libro si fa con la vita”.

marcovitale58@gmail.com

 

 

 

L'autore

Marco Vitale
Marco Vitale
Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano dove al lavoro in biblioteca unisce la traduzione letteraria e le collaborazioni editoriali. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011. La sua poesia è raccolta nel volume Gli anni (Nino Aragno Editore 2018, premio Luciana Notari e premio Dino Campana 2019, premio internazionale Gradiva 2020) e comprende cinque volumi di versi.

È stato tradotto in tedesco da Maja Pflug (Ein Winter, Josef Weiss Editore, Mendrisio 2008) e in inglese da Barbara Carle (Emblems of Sleep, Gradiva, New York 2020). Collabora a “Cenobio”, a “Poesia”, a “Succedeoggi” e fa parte della redazione delle Edizioni di poesia Il Labirinto.

(foto di Dino Ignani)