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La poesia di Zanini fra storia ed elegia

Sostiene Valerio Magrelli che esistono parole munite del potere, al loro manifestarsi in un testo letterario, di dissolverne qualunque aura poetica, qualora naturalmente quest’ultima, in quel dato testo, sia presente. Qualcosa come un virus informatico che cancelli ogni apparenza dallo schermo. Tra queste parole fa spicco per valore emblematico la parola gabbiano, quanto Magrelli va ribadendo da tempo con ottime ragioni e non senza andare incontro a qualche rischio: i gabbiani, si direbbe, sono gente permalosa (“Ho fatto male a dirne tanto male / e per questo si vendicano. / Scesi dall’alto dei loro tramonti / vengono a pascolare davanti al mio portone //…”). Tali considerazioni tornano per un attimo alla mente in apertura del magnifico volume che raccoglie l’opera in versi del poeta istriano Ligio Zanini (Rovigno d’Istria 1927 – Pola 1993): sì, perché il volume ha per titolo Favalando cul cucal Fileîpo (Rovigo, Il Ponte del Sale 2023, 318 pp.) che tradotto dal dialetto istroromanzo rovignese di Zanini diventa più o meno Parlando col gabbiano Filippo. Naturalmente, e va detto subito, il punto è proprio questo: qui non sarà più il caso di parlare di un qualsivoglia gabbiano – ne possiamo per fortuna fare a meno – ma di un qualcos’altro che in virtù della sua assai diversa veste, innanzitutto fonica, può permettersi di assurgere a figura numinosa e andare a spasso per le cinque raccolte che l’antologia mette insieme senza conoscere impugnativa.

Il volume, che esce per le cure attentissime e partecipi di Rodolfo Zucco, presenta infatti le cinque raccolte pubblicate in vita dal poeta – in un arco di tempo che va dal 1966 al 1993 e da Scheiwiller a Scheiwiller – più un mannello di 26 poesie disperse in periodici; un materiale nell’insieme cospicuo e uniformato dal curatore nella grafia fin dai titoli delle singole edizioni (Buleistro / Buleîstro ; Tiera vecia-stara / Tièra viècia-stara…), quanto rimanda alla storia stessa di questa poesia, dal suo tardivo venire in luce – Zanini inizia a scrivere negli anni sessanta – al suo progressivo filologico precisarsi, nell’esattezza delle scelte lessicali mai disgiunte dalla musica del verso.

Molteplice è l’importanza di questo corpus poetico – che andrà un giorno completato con le due raccolte rimaste inedite – in rapporto a un idioma ormai sul punto di perdersi (se ne segnalano oggi non più di duemila parlanti nella zona costiera meridionale dell’Istria) come in riferimento a un dramma collettivo che coinvolge non solo le migliaia di profughi al termine della Seconda Guerra Mondiale ma anche chi ha scelto – in qualunque modo tale scelta sia avvenuta – di rimanere, pagando prezzi elevatissimi come la stessa biografia del poeta racconta. Giovane precocemente antifascista Zanini decide infatti di restare e impegnarsi nella nuova Repubblica Federativa di Jugoslavia, crede nelle promesse del socialismo e nel partito che ha guidato la resistenza contro i nazisti e i loro alleati italiani: vi aderisce, ma se ne allontana presto, al momento della rottura tra il maresciallo Tito e il Cominform, tanto da subire nel ’49 la deportazione a Goli Otok – l’Isola Calva su cui non cresce arbusto – uno dei lager più disumani del “socialismo reale”. Vi resta tre anni ai lavori forzati e al suo rilascio vive poveramente dei più disparati mestieri, autorizzato a riprendere l’insegnamento in una scuola elementare solo nel ’59, a Salvore, sulla costa settentrionale della penisola istriana che si presenta anche sotto il profilo linguistico lontana dalle sue radici. Un nuovo senso di spaesamento lo spinge a riappropriarsi mediante la scrittura di una realtà che sente a lui preclusa, a ricostruirne i tratti facendo rivivere un paesaggio che è insieme intimo e di civiltà, imperniato largamente sul mare e su una costa bella e aspra su cui ogni attività deve fare i conti con la dura fatica del giorno dopo giorno. Si tratta di un paesaggio che può rivivere solo grazie a un idioma di necessaria “purezza” e questo vuol dire per Zanini riscoperta e ricerca nel segno del suo amore per le parlate dei pescatori di Rovigno – ma è egli stesso pescatore provetto con amo e fiocina – e dei contadini dell’entroterra, nella consapevolezza che quella lingua e quel mondo sono avviati a scomparire, quanto diviene amarissimo riscontro degli ultimi anni di vita difronte all’esplodere della follia dei nazionalismi che mina ogni convivenza e diversità. L’elegia istriana che interessa l’intera produzione poetica di Zanini ha questo fondo, duro drammatico e insieme amoroso, mentre conferisce al natio istroromanzo rovignese, e proprio al suo crepuscolo, quello statuto letterario che fino a quel momento gli era mancato. O meglio, come suggerisce Rodolfo Zucco trovando l’immagine in Zanzotto, gli conferisce un’“anima idiomatica” e in questo consiste il suo enorme valore al tempo stesso letterario e civile. In base a tali coordinate potremo così andare incontro ai colori mutevoli del mare e ai suoi venti, a chi lo abita nelle profondità e a chi lo sorvola – vorrei tacerne il nome – e alle fragili imbarcazioni che lo solcano come le locali battane o i fantasiosi bragozzi dei pescatori chiozzotti, legati a un ricordo dell’infanzia (“Braguòssi cui uòci, / cun Maduòne / e Banbeîni / su li vile culureîde”). E la pesca, difronte alle feroci dimensioni del consumo, è essa stessa esercizio di resistenza e convivenza – oggi diremmo ecosostenibile – come il poeta confida al cucal Fileîpo che lo viene a trovare ogni giorno sulla battana: “Sensa ingurdeîsie, nama par veîvi / e lassà veîvi, cume fiva da sièculi / i vièci Curadeîni” (Senza ingordigia, soltanto per vivere e lasciar vivere, come facevano da secoli i vecchi Corradini).

Un mondo dunque di relazioni sottili e tenaci, di antichi gesti come quello della nonna che bacia e butta nel fuoco le briciole di pane cadute a terra, come farebbe con le immagini consunte dei Santi,  (“se ’l caiva la lu basiva, / li meîngule, quile minoûde, / la li butiva sul fogo / cume i Santi vièci…”), di piccole presenze cui talvolta il poeta cede la parola: poveri passeri prigionieri dell’inverno, formiche cieche che con l’arcobaleno smarriscono la via del ritorno, garusoli, paguri fino ai pesci senza nome (“In puòchi sensa nom i signemo rastadi, / puòchi ‘nda ingrumide / e ciari i crissemo duòpo ingianaradi” [In pochi senza nome siamo rimasti, pochi ci raccogliete e in pochi diventiamo adulti]). E sono, questi ultimi, immagine di un contesto assai più vasto, a riprova della notevole qualità metaforica e allegorica di una poesia impegnata con perizia nella costruzione di un microcosmo che chiama in causa la condizione umana, e in cui pertanto da più condivise e universali esperienze sarà possibile venire a rispecchiarsi. Tali esperienze il mare, ambiguo simbolo di salvezza, col suo libero muovere idealmente affratella; ce lo ricordano questi bei versi consegnandoci un sia pur tenue motivo di speranza: “E l’aqua, scurendo, / favièla in Curènta / da tanti paisi / ca uò veîsto / e da tanti mudi da deî; / favièla in oûna sula manièra, / par fasse cunprendi / da doûti i paisi ca vido.” (E l’acqua, scorrendo, narra della Corrente di tanti paesi che ha visto e di tanti modi di dire; parla una sola maniera per farsi comprendere da tutti i paesi che vede.)

marcovitale58@gmail.com

 

 

 

L'autore

Marco Vitale
Marco Vitale
Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano dove al lavoro in biblioteca unisce la traduzione letteraria e le collaborazioni editoriali. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011. La sua poesia è raccolta nel volume Gli anni (Nino Aragno Editore 2018, premio Luciana Notari e premio Dino Campana 2019, premio internazionale Gradiva 2020) e comprende cinque volumi di versi.

È stato tradotto in tedesco da Maja Pflug (Ein Winter, Josef Weiss Editore, Mendrisio 2008) e in inglese da Barbara Carle (Emblems of Sleep, Gradiva, New York 2020). Collabora a “Cenobio”, a “Poesia”, a “Succedeoggi” e fa parte della redazione delle Edizioni di poesia Il Labirinto.

(foto di Dino Ignani)