Interventi

Balbettio

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

Ho scritto queste pagine per il volume Eunoé. Liber amicorum per Giorgio Agamben, apparso presso Quodlibet di Macerata nell’aprile 2022 in pochi esemplari, per festeggiare gli 80 anni del grande pensatore. Fra l’Eunoé di Purgatorio XXVIII, che restituisce “la coscienza d’ogne ben fatto” e il Protoeunoé di Paradiso XXVII, cielo dei beati che “non ha altro dove / che la mente divina”, scorre l’amicizia, somma forma della benevolenza, in cui l’Amico è invitato a specchiarsi e immergersi.

Balbettìo riprende e fa scorrere in nuova corrente le acque già confluite in Flatus vocis. Metafisica e antropologia della Voce (Il Mulino 1992; Luca Sossella 2021), dedicato a Giorgio Cardona, «alla sua voce viva, ancora», e a G. Agamben, «amico, maestro della ‘potenza del pensiero”, Gegenüber di un dialogo ininterrotto».

Il balbettìo rifiuta di cominciare perché rifiuta di finire: come ha scritto Agamben stesso, «télein significa tanto “compiere, finire”, che “iniziare”». Solo nella potenza-di-non, nel fallimento del linguaggio come evento che articola la voce, l’ineffabile trova espressione. Ripubblicare queste pagine su Insula europea significa in primo luogo offrire eco dialogica alla Voce amicale, ineffabile: tracciare il piccolo solco di un torrente nel territorio desertico della “rete”, dove si affollano anonime, balbettanti, le speranze e le illusioni più segrete, che alla voce tornano a legarsi come al labile, necessario soggetto del proprio esistere: «Car il faut bien durer un peu plus que sa voix» (R. Barthes, Le grain de la voix, 1981).

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Balbetta, zoppica la Voce, mentre tenta la soglia della Parola in cui prender dimora. Incespica, rifiuta di avanzare articolandosi. Intimidita ma tenace, sembra voler rimanere sull’uscio ove il suono invita al senso, e la prima sillaba dovrebbe unirsi alle altre dando vita al significato: quella sillaba inaugurale, che non intende spegnersi, conservandosi nel balbettìo da cui è bloccata. Trema, non riesce a contenere l’ineffabile che soffia potentissimo dentro la mente e il cuore, flatus vocis fragile e dirompente.

La barbarie del balbettare è etimologica: è segno dell’alterità, dell’improprietà. Nell’Iliade i Kâres sono barbaróphonoi, perché parlano abbaiando “bar-bar”. Battarízo, traulízo o psellízo sono i verbi con cui si indicava l’evento del non riuscire ad articolare la sillaba. Ma come tutti sanno balbettavano anche oratori sommi quali Demostene, forse per l’accalcarsi delle sillabe sulle labbra. Secoli più tardi i detrattori maliziosi ridevano di Giulio Camillo che intendeva insegnare l’arte della memoria e del discorso, e invece nella sua mente e sulla sua bocca si affollavano tutte insieme, impronunciabili, le parole, le idee, le immagini dell’universo, mentre lui cercava di disporle nel Teatro della Sapienza.

Tartaglia è il nome di un personaggio della Commedia dell’Arte che, appunto “tartaglia”, balbetta; due grosse lenti da miope accrescono la sua goffaggine. Nel canovaccio della Pazzia di Dorindo di Basilio Locatelli «Tartaglia si ride di Dorindo che piange li morti, facendo lazzi con il ridere et piangere; alla fine si risolve a trovare Zani per mangiare». Però anche il celebre medico bresciano Niccolò Fontana, capace di risolvere le equazioni di terzo grado, fu soprannominato Niccolò Tartaglia, perché “tartagliava”, avendo subito lesioni alla testa e alla mascella da bambino, nel 1512, durante il sacco di Brescia ad opera dell’esercito francese.

Difetto ed eccesso, comico e tragico, riso e pianto si sovrappongono generando il grottesco. «Nel riso e nel pianto è in questione una impossibilità di dire. […] Che il linguaggio sia, che il mondo sia – questo non si può dire, se ne può soltanto ridere o piangere. […] Il problema della commedia si può formulare in questo modo: come può una impossibilità di dire produrre il riso, essere gioiosa? […] Il linguaggio non serve assolutamente a comunicare qualcosa, serve, proprio per questo, soltanto a far ridere. […] Mostrare, nel linguaggio, una impossibilità di comunicare e che questo faccia ridere – ecco l’essenza della commedia» (G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, 2015).

«Come può una impossibilità di dire produrre il riso?». La stessa impossibilità di dire è prodotta anche dalle lacrime: «Non larmes […] sont l’expression de notre impuissance à exprimer, c’est à dire à nous défaire par la parole de l’oppression de ce que nous sommes…» (P. Valéry, Dialogue de l’arbre, 1943). Quella che Valéry definisce «source des larmes» è «il seme del piangere» dantesco (Purg., XXXI 46): limite della parola che, abolita, non «esprime» più la propria «oppressione» ontologica, e lascia che la vocalità pura, singhiozzando, balbettando per il riso o per il pianto, tenti lo slancio oltre il confine della corporeità.

Qui risiede il germe e il senso del balbettìo, gesto vocale di impedimento e di sforzo che genera riso e pianto insieme, camuffando la tragedia del non-poter-dire in comica lotta verso una via di fuga, per trasformare il mutismo in lazzo, l’afasia in rivelazione. Non a caso quando Roman Jakobson fondò la ricerca sui rapporti tra «linguaggio infantile, afasia e leggi foniche generali», citando Karl Bühler dichiarò che «l’unica occasione di osservare il linguaggio umano in statu nascendi ce la offre il bambino». «Le lingue del mondo nel loro sviluppo possono essere in relazione con certi mutamenti del linguaggio infantile». La lallazione infantile, che produce «singole sillabe balbettate, prive di significato», contiene in potenza tutti i suoni e tutte le lingue pensabili. Il balbettìo dell’infans è potenza-di-non-dire. La lingua prende corpo solo nella fase di «transizione dal balbettìo al linguaggio», mediante l’assunzione di un «valore fonematico» da parte del suono. «La dissoluzione dell’elemento fonico del linguaggio negli afasici fornisce un’esatta immagine rovesciata dello sviluppo fonologico nel linguaggio infantile» (Kindersprache und Aphasie, 1944). Il balbettìo esprime il limite, la barriera su cui l’elemento fonico del linguaggio non si esercita in termini di espressione; esso è «presenza di ciò che non è in atto, e questa presenza privativa è la potenza» (G. Agamben, La potenza del pensiero, 2005).

Solo nella potenza-di-non, nel fallimento del linguaggio come evento che articola la voce, l’ineffabile trova espressione. In poesia come nella mistica, e in amore, la lingua dell’estasi raggiunge, negandosi, la vetta estatica del linguaggio. La poesia e la voce mistica chiamano barbagliare questa esperienza fallimentare e contraddittoria della voce incapace di accogliere nel cuore il soffio «esmesurato». Esso diviene stridìo animale, grido erotico e al contempo interminato silenzio interiore: «drent’à lo cor firito, / non se sente de fore». Così nella fulminea lauda-ballata di settenari di Jacopone: «O iubelo de core, / che fai cantar d’amore! // Quanno iubel se scalda, / sì fa l’omo cantare; / e la lengua barbaglia, / non sa que se parlare; / drento no ’l pò celare / (tant’è granne) el dolzore. // Quanno iubel c’è aceso, / sì fa l’omo clamare; / lo cor d’amore è apreso, / che no ’l pò comportare; / stridenno el fa gridare / e non virgogna allore».

Nel Cántico espiritual di Juan de la Cruz, ispirato al biblico Cantico dei Cantici, la Sposa si sente morire mentre ascolta la voce di chi le parla dello Sposo: «y déjame muriendo / un no sé qué que quedan balbuciendo» («un non so che che vanno balbettando»). Nel saggio Lengaje insuficiente (1962) Jorge Guillén fa cenno a «un parlare di Dio che non ha ancora raggiunto la perfezione della poesia»: «Il nostro poeta non si accontenterà mai di “un no sé qué que quedan balbuciendo”. Questi famosi tre “que” – evidentemente volontari – esprimono nel modo più felice una tappa dell’esperienza reale che deve essere superata dalla poesia». Il triplice «que» del verso balbettante («qué que quedan») è il rintocco performativo generato dalla poesia nello sforzo di rappresentare foneticamente l’inciampare della lingua, il suo scheggiarsi dinanzi all’emozione dell’indicibile. E così in Poema, la brevissima lirica che apre la terza parte della raccolta Mandorla di José Ángel Valente (1982), fin dal titolo ispirata a Mandel’štam e a Celan, il vuoto che nasce quando «non resta nulla» sfiora la perfezione: «Cuando ya no nos queda nada, / el vacío del no quedar / podrá ser al cabo inútil y perfecto». Lo stesso anno, in uno scritto sul Cántico espiritual, Valente parlava di una «retracción radical del lenguaje» e di una «imposibilidad de la nominación»: «Por eso, así como en otro momento hemos predicado de la palabra poética la ininteligibilidad, habría que predicar ahora de ella la imposibilidad. La sustancia última del canto es, en cierto modo, la imposibilidad del canto» (Juan de la Cruz, el humilde del sin sentido, in La piedra y el centro, 1982).

Paralizzati nella stupefazione, i versi zoppicanti sono l’esperienza estrema tentata dal linguaggio poetico davanti al tema ineffabile: la paradossale proclamazione dell’impossibilità del canto. Il balbettìo ha uno statuto ontologico e performativo affine a quello dell’iniziazione misterica. Ad Eleusi «la conoscenza poteva essere espressa attraverso nomi, non attraverso proposizioni, e la “ragazza indicibile” poteva essere nominata, ma non detta. E nel nome, aveva luogo qualcosa come un “toccare” e un “vedere”» (G. Agamben e M. Ferrando, La ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore, 2010). Il balbettìo rifiuta di cominciare perché rifiuta di finire: «télein significa tanto “compiere, finire”, che “iniziare”». L’árretos kóre, «la ragazza indicibile», vorrebbe restare nell’indeterminazione, nello stato che Kerényi definiva «l’Indifferenziato originario». Impigliata nelle pieghe del balbettìo, la voce non vuole “finire” affinché la parola “inizi”: insiste a rimanere indifferenziata prima della congiunzione del significante con un significato, non si decide a perdersi come phoné per ritrovarsi come lógos. Balbettare, sbattendo contro la barriera della significazione, significa in primo luogo negare, accogliendo il «principio d’incongruenza» dell’apophatikón, che riconosce la discrepanza, l’imperfezione, lo scarto: più congrui, rispetto all’ineffabile, di quanto siano l’analogia e l’assertività. Nello spazio dell’inconscio e dell’improprio, ove il balbettìo insiste e resiste, si dà solo «congruenza per divario» (G. Agamben, Stanze, 1977).

Qualcosa di simile a un balbettìo è il mantra, che non esce mai dal circolo sigillato della ripetizione. «Sforzati di mantenere, durante la preghiera, la tua mente muta e sorda; solo così potrai pregare come devi», invita Nilo, nella Filocalia. Anche nelle tecniche mistiche del sufismo islamico si glorifica il nome di Allah mediante formule fisse, ripetute in ordine rituale e in toni e registri opportuni. Per il culto dei dervisci è fondamentale il dhikr: “ricordo”, se riferito alla mente, e “menzione”, se riferito al linguaggio. Nella preghiera esicastica dei padri del deserto, mentre la bocca tace, il cuore pronuncia il Nome indicibile. Ogni suo battito è una sillaba; ogni pulsazione del sangue è un soffio della Voce che urge verso la fonazione senza raggiungerla, e si fa eco ponendo in contatto corpo, anima e spirito. La preghiera interiore impone di svuotarsi e di ammutolire, ricordando, ossia restituendo la memoria alla sua patria più intima, il cuore. Al cuore fa cenno anche il francese antico recorder, sostituito dal moderno souvenir, che svolge il latino subvenire; in souvenir non c’è solo il senso di “venire in aiuto” suggerito dai dizionari etimologici, bensì soprattutto quello di “montare a galla dal fondo dell’oblio”.

La lingua poetica «monta come il latte» nel seno della puerpera e della balia. Andrea Zanzotto, nelle poesiole in petèl di Filò (1976), composte su richiesta di Federico Fellini per accompagnare il suo Casanova, parla del «nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte…». Fellini stesso, in una lettera al poeta del luglio di quell’anno, gli chiede che l’«assunto verbale» (cioè appunto le liriche che diventeranno Filò) sia «il riverbero» della sua condizione di «visionarietà stralunata», e richiamandosi ai fantasmatici «trasalimenti infantili ed angosciosi, fiabeschi e terrorizzanti» gli suggerisce che «la sonorità liquida, l’affastellarsi gorgogliante, i suoni, le sillabe che si sciolgono in bocca, quel cantilenare dolce e rotto dei bambini in un miscuglio di latte e materia disciolta, uno sciabordìo addormentante riproponga e rappresenti con suggestiva efficacia quella sorta di iconografia subacquea del film, l’immagine placentaria, amniotica, di una Venezia decomposta e fluttuante di alghe, di muschiosità, di buio muffito e umido».

Proprio Zanzotto, parlando di Paul Celan, ha sintetizzato l’esperienza ultimativa della voce che, ammutolita nell’orrore, riprende a cantare dalle macerie, nelle macerie, balbettando, risillabando la parola («Kleinewiges, / Silben»: «infime / eternità, sillabe») come nel barbagliare dei poeti mistici («buch-, buch-, buch- / stabierte, stabierte»: «sil-, sil- sil- / labava, labava», P. Celan, Les globes e Die Silbe Schmerz, in Die Niemandrose, 1963, dedicata dem Andenken Ossip Mandelstamms): «L’avvicinamento alla poesia di Celan è sconvolgente. Egli rappresenta la realizzazione di ciò che non sembrava possibile: non solo scrivere poesie dopo Auschwitz, ma scrivere “dentro” queste ceneri piegando questo annichilimento» (A. Zanzotto, Verrà la morte e avrà le tue parole, in «Il Corriere della Sera», 27 maggio 1990).

Le sillabe di Celan sono infrante, polverizzate, maciullate come da un orrore cosmico. Nello sforzo cosmogonico di ri-creazione, a partire dalla pura voce, dal singulto, dal balbettìo, dall’inciampo che denuncia pochezza e fralezza della Parola, dalla necessità di ri-impastare la materia della Voce per dar forma a una nuova Parola, Celan riconosce pur sempre un movimento verso l’Altro, una dinamizzazione dialettica: «Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore (ein Gegenüber). Lo va cercando; e vi si dedica. Ogni oggetto, ogni essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro, è figura di questo Altro» (Der Meridian, 1960).

In Celan si fa poesia lo sforzo atroce per riconquistare «dentro le ceneri» una vocalità lucente e tessiture luminose di espressione, a partire dalla Fine e dal Silenzio, sullo sfondo della nascita, della morte, della separazione, dell’afasia, dello sbriciolamento vocale. Così si riconquista la sillabazione di un’origine sempre nuova del linguaggio, «un segno recato attraverso il buio, / […]  / e come afona consonante vibrato» («ein durchs Dunkel getragenes Zeichen, / […] / als stumm / vibrieren- der Mitlaut gestimmt»: Schliere, Macula, in Sprachgitter, 1959). In questi versi si addensano le più straordinarie lotte con l’Angelo del Silenzio che la Voce abbia combattuto sulla soglia critica della metafisica occidentale: «Alla notte la parola sottratta al silenzio. // […] // Poiché, dimmi, dove mai albeggia, / se non in lei, / che nelle rive inondate dalle sue lacrime / a soli occidui mostra più volte / dove è semente?» («Ihr das erschwiegene Wort // […] // Denn wo / dimmers denn, sag, als bei ihr, / die im Stromgebiet ihrer Träne / tauchenden Sonnen die Saat zeigt / aber und abermals?»: Argumentum e silentio, in Von Schwelle zu Schwelle, 1955).

Albeggia la parola «sottratta al silenzio» nel balbettìo, sulla riva delle lacrime. Coglieva nel segno Mandel’štam quando scriveva che la fonetica di Dante era stata «creata con l’aiuto di una balia», e aggiungeva che «tra linguaggio e nutrimento si rivela l’esistenza di un nesso inatteso»: Разговор о Данте, 1933). All’inizio del De vulgari eloquentia (I 2) è detto chiaramente che «vulgarem locutionem appellamus eam qua infantes assuefiunt ab assistentibus» (ossia proprio dalle balie) «cum primitus distinguere voces incipiunt» (dunque quando cominciano ad articolare le parole), «nutrices imitantes». Giunto, alla fine del viaggio iniziatico, sulla soglia dell’Essere, mentre sta per cogliere «la forma universal» del Nodo, Dante torna infans, balbetta sillabe succhiando dalla Musa-balia latte e linguaggio: «Omai sarà più corta mia favella, /pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagna ancora la lingua a la mammella» (Par., XXXIII 91 e 106-108. Risuona qui, esaltando l’infans lattante, la voce antica del salmista: «Ex ore infantium et lactentium perfecisti laudem tuam» (Ps., VIII 4).

È forse la rima più straordinaria della Poesia quella che stringe favella e mammella, oralità e nutrimento, parola e latte, suono e senso, voce e sensorialità, «lingua che viene» e «apocalissi linguistica». Essa fa cenno all’istante in cui attraverso una «piccola porta», quasi inavvertito, «entra il messia» (G. Agamben, La lingua che viene, in A. Zanzotto, In nessuna lingua – In nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009, 2015). In questa rima balbettante prende luogo il Logos erchómenos, il dialetto «sentito come veniente di là dove non è scrittura […] né “grammatica”: luogo, allora, di un logos che resta sempre “erchómenos”, che mai si raggela in un taglio di evento, che rimane “quasi” infante, pur nel suo dirsi, che è lontano da ogni trono» (A. Zanzotto, Filò, 1976).

Questo «logos che resta sempre “erchómenos”» è il balbettìo della sillaba poetica, la dantesca redolens pantera «quam sequimur», ma che (disse Zanzotto parlando ai ragazzi di una scuola di Parma nel 1981) «non si fa prendere neanche per la coda». Ed è anche, secondo l’allegoria celata in uno dei più celebri Adagia di Wallace Stevens, il fagiano «veniente» che fulmineo scompare nel sottobosco: «Poetry is a pheasant disappearing in the brush».

corrado.bologna@sns.it

 

L'autore

Corrado Bologna
Corrado Bologna
Corrado Bologna ha insegnato Filologia romanza in diverse Università italiane e straniere, e Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi sui principali autori delle letterature europee. Il suo ultimo libro è Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Luca Sossella, Roma 2022.