Invitata a intervenire su come presentare la storia del libro ai ragazzi delle scuole elementari in occasione di un convegno dedicato a questo argomento, mi sono chiesta quale fosse il modo migliore per parlarne. Sebbene non digiuna di cognizioni pedagogiche – ho insegnato per qualche anno nelle scuole elementari – sono purtroppo molto lontana dalla mentalità di un ragazzino di otto anni o poco più.
L’affascinante storia del libro, che per gli addetti ai lavori comincia dai materiali scrittori per giungere alla fruizione, passando per la produzione e la circolazione, non mi è sembrata dapprima una storia facile da raccontare ai ragazzi di questa fascia d’età, neppure attraverso la mediazione degli insegnanti della scuola primaria, mai sufficientemente lodati per la loro attività che consente quel primo bagaglio di apprendimento, in molti casi insostituibile e indimenticabile.
Mi si è affacciata poi una idea: una verifica la potevo fare. Ho pensato infatti di interrogare mio nipote Jacopo dì 11 anni che ho voluto con me in questa piccola avventura – sedeva infatti insieme agli insegnanti anche nella pausa —, ponendogli alcune domande a mo’ di intervista svolta in diversi “round”. Mi sono lasciata guidare dalle sue osservazioni e dalle sue richieste di chiarimenti con la speranza dì individuare uno spazio di quella storia, in qualche modo utile a chi intraprende un viaggio a ritroso nel tempo. Ho limitato al libro a stampa la narrazione, circoscrivendo il torno dei secoli, prevalentemente a quelli in cui il libro si produceva esclusivamente a mano anche perché si possono partecipare e far vivere ai ragazzi alcune esperienze: esistono infatti ancora oggi appassionati artigiani che fanno da sé impressione e, talvolta, legatura dei fogli stampati, i quali sarebbero lieti di accogliere una scolaresca.
A partire dalla domanda: “Quando è nata la stampa?” ho avuto subito piena consapevolezza di come sia difficile inquadrare nella scuola primaria la cronologia, non solo relativamente alle svolte epocali delle grandi invenzioni. Ciò non ha destato in me alcuna meraviglia. Ancora nei primi anni di università si fatica non poco a partecipare agli studenti un concetto storico, perché in loro vi sono ancora forti vuoti quanto alla dimensione temporale. Alcuni giovani alle prese con i programmi universitari non riescono a collocare con precisione nel tempo né un evento né un personaggio, sebbene ricordino magari il nome o il significato generale. È per questo che sono ricorsa, come facevano i miei maestri, all’esempio del succedersi delle generazioni, partendo non già dal trentennio, ma da poco più di un ventennio. Credo che applicare un vecchio metodo per superare difficoltà non di poco conto, sia ancora una buona strada da percorrere.
Jacopo ha infatti pensato ai compleanni della mamma e del papà, a quanti anni avrebbero compiuto i nonni, sia materni sia paterni, e il bisnonno di parte paterna, ancora in vita quando era piccolo il fratello.
Stabilito che in questo anno si festeggerebbe il secolo della nascita del bisnonno è divenuto facile fargli capire che il primo di cento personaggi della sua famiglia è vissuto all’incirca tre secoli fa, e che il tempo che divide i genitori da loro lontanissimi antenati è uno spazio cronologico ancora insufficiente per collocarvi con precisione la nascita della stampa.
Fissata con approssimazione la data, a cui si è soliti far risalire l’apparizione del libro a stampa, ho tentato di calare il discorso nella realtà multiculturale della sua classe. I compagni polacchi, ucraini, filippini esercitano curiosità non indifferenti: è per questo che ho proposto a Jacopo di interrogare Internet per sapere quando il primo libro tipografico sia nato nei paesi dei suoi compagni di classe. Abbiamo potuto così appurare che in Polonia, precisamente a Cracovia, la prima tipografia si installò nel 1473, in Ucraina a fine Cinquecento, dopo che da Mosca, dove la stampa diede i primi segnali nel 1556-57, il suo inventore Andronik Neveja, si spinse nella periferia, parola da cui deriva il nome ocraina poi divenuto Ucraina (dobbiamo alla tata Anastasia la precisazione); per le Filippine è stato molto più difficile trovare un riferimento: navigando in lungo e in largo siamo riusciti comunque a sapere che furono gli spagnoli ad aprirvi la prima officina nel 1593. Si pensi a quante riflessioni portano gli scarti delle datazioni. Quanto al fatto che un libro antico venisse, quasi sempre, prodotto su carta, mi ha aiutato ad approfondire il discorso. Sapere che la carta non è una invenzione europea, ma che nasce in Cina e poi con gli Arabi si diffonde nei paesi europei a cominciare dalla Spagna per poi radicarsi in Italia nel XIII secolo, ha consentito un approfondimento che aveva come scopo di uscire dallo schema solo ed esclusivamente italiano ed europeo per saggiare le differenze fra i popoli che hanno contribuito alla diffusione e allo sviluppo della carta, provando che ogni invenzione viene poi rimaneggiata e perfezionata secondo la cultura di un determinato paese, di una civiltà. Cinesi e Arabi, che diffusero le conoscenze della fabbricazione della carta di stracci, sono popolazioni portatrici di grande civiltà. L’Italia non è da meno: sono stati infatti gli abitanti di un piccolo comune, i fabrianesi, a rivoluzionare maggiormente il processo di produzione: non solo sostituirono la semplice forma di bambù con quella metallica, ma applicarono la pila a magli per la triturazione delle fibre di cotone e di lino. A loro si deve altresì l’invenzione della filigrana.
Jacopo conosceva la differenza fra la carta e la materia scrittoria usata precedentemente in prevalenza per la confezione del libro manoscritto: una sua insegnante Io aveva portato a visitare l’Archivio di Stato di Bologna, considerato all’avanguardia per il suo laboratorio di didattica. Sebbene gli avesse proibito di toccare il documento — così ha inteso precisarmi mio nipote — l’archivista gli aveva fatto vedere da vicino una vacchetta scritta su pergamena spiegando a tutta la classe da dove e come si ricavasse quella speciale materia su cui gli antichi scrivevano prima della comparsa della carta di stracci. Perché dunque la carta ha contribuito non poco alla nascita della stampa? Davanti ad una enorme pizza che traboccava dal piatto e all’immancabile Cosa-Cola, Jacopo ha risposto che per un libro grande ci sarebbero volute troppe pecore; i numeri così hanno cominciato a turbinare: “Ce ne volevano 800, 1.000, 2.000 o più?”, ecco il dirompente quesito a cui non sono riuscita a rispondere se non con molta approssimazione, facendo presente che non tutti i libri sono di uguale dimensione e che è altresì diversa la composizione di carte e di fascicoli. Di un esempio tra tanti, però, ho potuto avvalermi: gli ho precisato che un collega e amico, ahimè scomparso, in un suo saggio ha provato che per confezionare un ponderoso volume, la Summa Theologica di S. Tommaso, occorreva uccidere almeno 75 pecore.[i]
Che cosa guardi di un libro di svago non di scuola? Questa domanda è stata posta a flashback per intraprendere il cammino verso l’illustrazione e le tecniche usate per inserirle nei primi libri a stampa. Mio nipote mi ha sconvolto per le sue conoscenze: il titolo, ciò che vi è scritto dietro alla copertina e le figure, “che per i più piccoli sono molte di più che non per noi ragazzi di 11 anni” — ecco la sua risposta. Con una ulteriore precisazione: Io sguardo alla quarta di copertina è perché essa offre spesso il sunto del libro, consentendo pertanto di scegliere un libro anziché un altro. Portarlo a considerare che quella parte, per lui così ghiotta, è presente anche nel libro antico (o nell’Avviso al lettore o in altra scrittura preliminare al testo) ha creato quel ponte che mi ha permesso di soffermarmi poi su altre parti del libro, ovvero sulle “figure”, così come Jacopo le chiama, un termine che evoca e rende sempre attuale il volume di Antonio Faeti.[ii] Le tecniche Io hanno appassionato al punto da invogliarmi a porgli un’altra domanda, ovvero se la conoscenza della strumentazione in uso nella tipografia antica sia argomento che possa interessare più i maschi o le femmine. Ho avuto una risposta lapidaria: “Ci sono maschi e maschi e femmine e femmine: dipende dai loro interessi.” Non ho continuato perciò sul tema delle differenti capacità di apprendimento dei pochi concetti che avevo enucleato e che con lui volevo discutere.
Una ultima manciata di domande verteva sul rapporto arte e libro, essendo a conoscenza dell’ottima impostazione didattica della sua scuola la quale fa scaturire spesso le lezioni da visite a musei e a pinacoteche. Un libro mi ha soccorso: Il libro dipinto, edito a Lecco nel 1998,[iii] rassegna intelligente e calibrata dei più importanti quadri che dall’età medievale al libro dipinto di fine millennio hanno raffigurato personaggi con volumi, o anche semplicemente torni disposti in un ordine casuale da cui sono derivate le nature morte. Per la nostra trasferta padovana abbiamo guardato se nella città di S. Antonio si custodisse qualche dipinto che potesse fare al caso nostro. Ne abbiamo trovato uno a Bologna; alcuni nel Veneto, nessuno a Padova: la maggior parte delle importanti opere d’arte ritrae personaggi con fra le mani un volume, o anche solo libri, i quali tuttavia sono, per Io più, manoscritti. In numero assai inferiore sono i libri a stampa. Ho così potuto riferire a Jacopo che nei volumi, frutto della tipografia manuale, xilografie o incisioni su rame di rappresentazioni di libri, ce ne sono molte, ma che il settore è meno indagato perché le immagini impresse su carta sono considerate parenti povere dell’arte cosiddetta maggiore, anche se in questi ultimi anni si assiste ad una inversione di tendenza.
L’ultima domanda, ricordandomi che i ragazzini sono collezionisti sfegatati (si pensi alle figurine e a tanti altri loro traffici) è stata: sai chi sono i collezionisti?
Silenzio inaspettato. Mi è sovvenuto del libretto di Mauro Giancaspro, il quale prevedeva dapprima la spiegazione della parola morbo che sta per malattia. Il morbo di Gutenber[iv] è infatti un vivace paradigma di come si possa diventare sorta di ammalati contagiosi pur di avere, o meglio possedere, il più grande numero di libri. E così, secondo l’autore, che non si possono più dissimulare i tanti sintomi che affliggono i bibliofili, i quali, quando contraggano l’affezione nel modo più virulento, diventano maniacali tramutandosi in bibliomani. Il breve passo sulla malattia che di solito colpisce i soggetti più a rischio, ovvero “i giovanissimi”, anche senza presupposti “ereditari”, Io ha fatto ridere di cuore.
Le ultime domande possono sembrare fuori tema rispetto alla storia del libro: non è così che io le ho intese. Imparare a vedere; conoscere in chi si annida la passione per il libro sono espressioni anch’esse della ricezione, seppur limitatamente al libro in quanto oggetto e alle multivalenze delle sue sembianze.
Ho terminato con dispiacere l’intervista dopo aver annunciato a Jacopo che in Internet vi è un sito dei miei allievi del Master in editoria cartacea e multimediale, dove si possono cogliere molti passaggi di ciò che ci siamo detti. Jacopo mi è sembrato molto deciso: “Il sito Io guarderà chi vuole saperne di più; a me piace sentire le storie dalla tua voce o da quella dei miei insegnanti”.
Grazie Jacopino, anche se dovrei sgridarti.
(l’articolo era stato pubblicato su «Sfoglialibro», settembre, 2006)
[i] A.I. PINI, Scuole e università, in IDEM, Studio, università e città nel medioevo bolognese, Bologna, Clueb, 2005, p. 41.
[ii] A. FAETI, Guardare le figure: gli illustratori italiani dei libri per l’infanzia, Torino, Einaudi, 1972.
[iii] A. GATTINONI, G. MARCHINI, Il libro dipinto, Lecco, Periplo, 1998.
[iv] M. GIANCASPRO, Il morbo di Gutenberg, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2003.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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