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Un inedito Capitini critico letterario

Risale alla metà degli anni Trenta, ovvero al periodo in cui Gianfranco Contini assunse la titolarità della cattedra di lettere presso il liceo classico “Annibale Mariotti” di Perugia, l’amicizia tra lui e il filosofo Aldo Capitini. Ne è testimonianza non solo la fitta corrispondenza protrattasi lungo l’arco di tutta la vita (Un’amicizia in atto. Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Aldo Capitini (1935-1967), a cura di A. Chemello e M. Moretti, Firenze, Sismel, 2012), ma anche il reciproco scambio di articoli e libri, spesso accompagnati da affettuose dediche.

Proprio a partire dai libri che Contini dona a Capitini, oggi conservati insieme al suo fondo librario nella Biblioteca perugina di San Matteo degli Armeni, si può intuire come Capitini legga attentamente quanto scrive l’illustre amico, non esimendosi talvolta dal dissentire dal suo pensiero. Se sul caso delle Rime di Dante (Torino, Einaudi, 1939) ho avuto modo di scrivere in questa stessa sede, restano ancora da esplorare in maniera esaustiva le postille che Capitini appone nel volume Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con unappendice su testi non contemporanei (Firenze, Parenti, 1939), soprattutto nei saggi dedicati a Ungaretti e Montale.

In molti casi si tratta di commenti positivi, come provano le annotazioni “bene”, “giusto”, e anche, a livello esemplificativo, la chiosa «punto di partenza per intendere molta poesia d’oggi. citarlo» al seguente passo di Contini: «Ma la “consolazione” specifica d’Ungaretti sta nel puntare tutt’i significati, tutte le possibilità liriche sopra una parola; la quale resta ricca abbastanza, in virtù di quella particolare magia linguistica, perché in essa s’esaurisca il “motivo” o “situazione” poetica, e s’annulli qualsiasi necessità di ricorso a un’enunciazione logica e storica» (p. 41).

In altre circostanze si hanno prese di posizione critiche. Quando Contini scrive «Il fondo su cui s’incide la poesia d’Ungaretti è proprio questo, in universale: un sentimento vivacissimo del concreto; ma, inseparabile, l’avvertimento di cose lontane, di conoscenze inappagabili» (p. 44) Capitini appunta «è il passaggio (mistico) dal desiderio (totale) all’inappagamento (sognante)», e poco sotto «questa di Contini è definizione vaga (e non esatta)». Poco più avanti al passo «Per i conti d’Ungaretti con la storia, si son dati esempi più su; ma dobbiamo insistere sul fatto che, essendosi quella dissolta tutta in espressione e “consolazione”, “stasera” nella poesia di questo titolo (“Balaustrata di brezza – per appoggiare la malinconia – stasera”) è una consolazione decisiva, definitiva» (pp. 46-47), Capitini chiosa «In questa totalità di risoluzione mi pare che il Contini (come altri critici di oggi) ponga un punto d’arrivo che non c’è, non è realizzato (scambia il dover essere con l’essere)».

Molto estese si rivelano le postille ai capitoli su Montale: quando Contini afferma «Insomma: la non-poesia di Montale ha una faccia ben più positiva, significante che non abbia la non-poesia d’un Leopardi» (p. 71) Capitini verga «ma perché la poesia si stacca poco su questa non poesia»; o poco più avanti a margine del passo «La distruzione meridiana è il segno esterno più indicativo di questa figura che è: sciogliersi della vita» (p. 72) si ha «Ma solo in parte, non come fatto centrale».

Grazie a tali osservazioni, si può verificare non solo l’interesse con cui Capitini legge gli scritti dell’amico, ma soprattutto comprendere il suo lavoro esegetico su Montale, nella fattispecie sulle copie in suo possesso degli Ossi di seppia (Torino, Fratelli Ribet, 19282) e de Le occasioni (Torino, Einaudi, 19402).

 

Nella prima silloge egli propone giudizi di carattere prevalentemente estetico: a margine di Non chiederci la parola scrive «per di più sicuro / ma circondato da / del facile ed esteriore»; nella pagina di Meriggiare pallido e assorto si hanno svariati appunti, tra i quali «è scritta a vent’anni / è un po’ una poetica / qua e là qualcosa di più / Vedi la critica di G. Contini»; a margine del v. 10 dove sottolinea il lemma “scaglie” «anche altrove», e infine ai versi finali «il vero Montale»; alla sezione Mediterraneo «Queste liriche al mare sono una confessione ma turbata o eloquente (e questo è segno della debolezza del Montale)»; fino ad arrivare a esprimere le sue preferenze, ovvero Spesso il male di vivere «finora la migliore, ma è appena un movimento, unitario sì (con Delta tra le migliori del libro)», e l’appena menzionata Delta «Questo misterioso attaccamento e questo scandire preciso del migliore Montale, forse la migliore».

Ben diverso l’atteggiamento ne Le occasioni, dove Capitini si dilunga in analisi più dettagliate, alludendo anche alla preparazione di un suo saggio. In Vecchi versi scrive «Nell’impostazione, nel raccontare c’è qualcosa di ottocentesco e anche di dannunziano; poi il ritmo marcato di Montale. Interessante uno studio sulle parole (verbi specialmente di Montale) potrebbe essere la prima parte del saggio. Non si accontenta della parola comune, ne cerca febbrilmente un’altra più densa (certe volte la poesia di Montale sembra un palcoscenico, ma compreso il retroscena). Finisce bene con quel si scava dopo segno del torrente, insomma tutte le parole care al Montale». Per Buffalo «delle migliori – quadro molto mosso, eccitato e turbinoso (vedi certa pittura francese)». Poco lusinghieri i giudizi per la sezione Mottetti: in Lo sai debbo riperderti e non posso, a partire dal verso finale E l’inferno è certo commenta «cerca di salvarsi ma trova, tutto ciò che riguarderebbe la salvazione, tutto vago affaticato e colpito da tutto ora. Passando da queste mie parole di interpretazione ai versi che cosa si trova di più? Poco. C’è poca distanza (che è il segno della poesia)». Valutazione ribadita anche più avanti «I Mottetti sono pesanti vicini a terra, al riassunto che se ne può fare, si staccano pochissimo sulla prosa (però sono montaliani)». Capitini arriva perfino a glossare le Note poste alla fine del libro, e così accanto a Nel Parco di Caserta verga «citare questa nota per il fare sfuggente di questi poeti».

Considerato che l’analisi su questa silloge si rivela molto più approfondita e meditata di quella condotta su Ossi di seppia, si può ritenere che Capitini volesse cimentarsi a sua volta nell’esegesi montaliana proprio a partire dalla lettura del volume dell’amico filologo, come sembrano indicare da un lato le numerose postille ivi presenti, spesso accompagnate dal verbo “citare”; dall’altro la menzione stessa di un “saggio” glossando Vecchi versi. Ed effettivamente nella lettera a Contini del 24 novembre 1939, Capitini allude esplicitamente a un suo “scritto”: «Questi giorni sono stato anche più con te, per la gioia delle tue parole, per la speranza di avere altro dopo la cosa, per aver mostrato a cento il tuo ritratto, così bello perché io ci vedo quello che sento in te, la persona senza età il fanciullo e l’uomo maturissimo, l’acutezza assoluta e l’innocenza, e per aver studiato il Montale e riletto le tue pagine su di lui. Quello che ho scritto su di lui ho bisogno di staccarlo e di ritornarci: se la poesia cammina su due gambe, la critica su quattro; troppi conti da rendere! Ad ogni modo lo avrai quando mi parrà passabile. Sono dolente di conoscere poche recensioni fatte da Montale; cercherò di vedere qualche critico. L’altra mattina, avevo vagheggiato un periodo di chiusura di questo tipo, dopo averti citato: “Non dispiace a Eugenio Montale, poeta dell’amicizia, che chiami tra noi Gianfranco, di tal forza che potrebbe lanciare ultimatum e invece li trasforma in avvicinamenti, che percorrendo e ripercorrendo il mondo di queste studiate liriche ha gettato i più suscitatori fasci di luce”. Ma è un po’ singolare e ho bisogno di ripensare a questo e al resto (…). Siccome il mio articoluccio su Montale è a margine e molto sospeso, meglio non parlarne» (Un’amicizia in atto, pp. 72-73). Si ricordi, del resto, che Capitini afferma d’aver conosciuto Montale, quando era Direttore del Viesseux, proprio grazie a Contini.

Da una prima ricognizione dell’Inventario del Fondo archivistico Aldo Capitini, conservato nell’Archivio di Stato di Perugia, non sono finora emersi abbozzi di scritti su Montale, ma uno studio approfondito delle carte inedite potrebbe riservare – si spera – qualche sorpresa.

 

 

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