Intervento letto il 16 maggio 2019, all’interno del “Dottorato in Culture letterarie e filologiche, Ciclo XXXV”, in occasione della presentazione del numero di «Paratesto» 2018 – rivista annuale ora diretta da Rosa Marisa Borraccini e Valentina Sestini -, dedicato alla memoria di Marco Santoro, che ne fu il fondatore e direttore insieme con chi scrive.
Care dottorande, cari dottorandi,
mi rivolgo a voi ancor prima che ai vostri maestri, a cominciare dal collega Paolo Tinti che ringrazio d’avermi invitato alla presentazione del numero di «Paratesto» dedicato a Marco Santoro, e dalla collega Paola Italia che personalmente non conosco ma della quale ho letto molto e ai cui seminari di editoria online da lei organizzati, ho fatto partecipare giovani di mia conoscenza mentre io li ho seguiti su You Tube.
Mi rivolgo principalmente a voi, cari ragazzi, anche perché le mie parole, che tenterò di organizzare, saranno molto meno ‘impegnate’ di quelle delle protagoniste della giornata, che saluto con affetto e so essere tutte di solida preparazione anche nel particolare settore, a cui fin dall’inizio si è dedicata la rivista intitolata giustamente «Paratesto», rivista che ho avuto il piacere di tenere a battesimo, insieme con il collega, prematuramente scomparso e che è il dedicatario di questo pomeriggio di studio.
Ma c’è un motivo in più se mi rivolgo in primis a coloro che hanno intrapreso il dottorato: è infatti anche perché ho sempre sostenuto che la didattica non è complementare alla ricerca: ne è la base. Si tratta sicuramente di due corni del problema di pari interesse, ma è solo, almeno per come io ho vissuto nell’Accademia, la parte che ho sentito più confacente al mio modo di intendere la scuola.
Inoltre ho sempre detto qua e là, e devo averlo anche scritto, che la lezione dovrebbe scorrere su due binari: incontrare, ovviamente, gli interessi degli allievi, ma sarà meglio articolata se nel contempo consentirà al docente di dipanare il magma che porta dentro di sé. È nell’interesse suscitato da un argomento, e nel confronto con gli studenti, che finalmente può infatti schiudersi il bozzolo lasciando che secerna quei filamenti che portano il docente e il tema trattato lontano, fino a quell’articolazione che può inverarsi in un suo nuovo libro. Didattica intesa come nutrimento tra docente e discente e il frutto che ne può nascere.
Per quanto mi riguarda saggi e libri sono nati spesso così al termine di corsi del ‘vecchio’ ordinamento, quando studenti chiedevano perfino di doppiare l’insegnamento e/o di scegliere una tesi nelle discipline del nostro raggruppamento. Allora anche le tesi venivano ad essere un momento raro di do ut des che mi ha permesso di dar vita a una collana dedicata alle migliori di esse, ovviamente rimeditate, in parte con nuove ricerche e nuove letture; una collana che spero non muoia, dato che alcuni di quei libretti fanno ancora testo.
Le occasioni di scrittura nel mio lungo corso accademico, hanno dunque questa origine. Di ben più alta statura, la pensava tuttavia così pure Piero Camporesi, studioso conteso ancora da diverse discipline tanta è stata la sua solida cultura messa sempre e ancora in luce dalla sua allieva, Elide Casali, che gli ha dedicato un libro dal titolo metaforico Il bambino e la lumaca, analisi viva, in gran parte vissuta, tesa a dimostrare come Camporesi arricchisse il suo bagaglio tempestato delle più varie e profonde conoscenze nel prosieguo delle sue lezioni, che gli consentivano di pubblicare quasi un libro all’anno. In aiuto alla Casali, oltre ad avere avuto la costanza di seguire il maestro nel suo variegatissimo procedere, è stato il sapersi avvalere di ciò che è ancora conficcato nei libri del fondo Camporesi: foglietti, scritte, sottolineature, concetti scritti a mo’ di marginalia, pecette, fortunatamente ora ordinati da Alberto Natale, all’epoca in cui è stato Coordinatore del Centro Studi Piero Camporesi.
Ancora dal mio percorso, ma da ultimo: non è un caso che nel 2006, riunendo con l’aiuto dei collaboratori un insieme di miei saggi sparsi sulle biblioteche, dedicassi il libro «Ai miei studenti di tante età diverse». E che oggi, per i motivi accennati, vorrei meglio poter esprimere con l’anadiplosi: «Ai miei studenti di tante età diverse, diverse come le mie».
Questo parallelismo potrebbe aiutare a far capire che mentre i giovani crescevano e si permutavano, le aule continuavano ad accogliermi ogni giorno con il medesimo sforzo: tentare di far crescere non solo chi avevo di fronte a lezione, ma pure chi cercava di prodigarsi in diverse forme e direzioni, in ciascuna delle sue proprie età.
Fin qui ho parlato di me, ma sono emerse una dedica e le interpretazioni per eventuali suoi mutamenti; il titolo di un libro; un titolo di un altro libro che ha fatto scuola; ho parlato ancora di dediche; di “polizzine” di leopardiana memoria, racchiuse nei libri di Camporesi, epitesto alla base dell’ultimo libro, non unico, che la Casali ha dedicato al suo maestro. Un ultimo cenno lasciate che lo dedichi a quanto anche i miei attuali studi risentano fortemente della lezione del Genette di Seuils, la cui lettura e adozione devo a un collega, Guido Guglielmi al quale continuerò a rivolgermi ricordandolo sempre per «doverosa» riconoscenza.
Fuori dall’accademia ho cercato di coltivare, soprattutto da qualche anno, un mio personale orticello di ricerca, quello sui libri d’artista, per usare una definizione di comodo, studio che è divenuto pure operatività da poco abbandonata passando come è giusto ‘il testimone’, e che è iniziato a seguito di una bella esperienza con una scolara, oggi direttrice di una importante libreria.
Lo studio intrapreso, che è bibliologico e nel contempo artistico, ha saldato le due maggiori mie passioni, il libro e l’arte, sebbene le avessi in qualche modo già espresse in alcuni miei lavori sul libro antico. Devo tuttavia precisare che è solo qui, nel particolare libro coniugato con l’arte contemporanea, che le mie passioni hanno trovato la loro vera dimensione e collocazione: applicare tutto quel che ho accumulato nel bagaglio delle conoscenze proprie delle discipline del raggruppamento disciplinare in cui ancora mi riconosco, ma senza pormi rigidi steccati entro cui calare gli affondi e le risultanze interpretative, aprendomi altresì ad un ventaglio ampio di nuove conoscenze, grazie alle molte letture anche fuori da quelle più strettamente canoniche.
Il paratesto nei libri d’artista di ieri, ovvero a partire dall’inizio del Novecento, e in quelli di oggi è sovrano, a cominciare dai colophon nella loro duplice collocazione: o posizionati in apertura ai libri, o più vicini ai libri antichi, in calce alle ultime pagine, quasi sempre all’ultima. Sono ‘parlanti’ di più dei più loquaci storici antecedenti; luogo principe in cui si trincera l’editore con il suo vasto paradigma comprensivo a volte perfino di manifestazioni del suo pensiero politico e non solo di quello più latamente culturale. È un luogo pure dello sfogo dell’anima.
Basti ancora dire che in tali libri, fra immagine e testo può esserci intima relazione o, invece, profonde differenze con cui due o più autori si esprimono nell’ iconico e altri solo nel testuale, due strade rette entrambe da conoscenza di supporti iconografici così come di quelli testuali.
E che è importante inoltre dei particolari manufatti l’epitesto, simile o ispirato a quelli di un lontano passato: è rappresentato da cedole per la sottoscrizione, biglietti con impresse le caratteristiche dell’edizione, fogli sciolti con solo le immagini e pochi ragguagli su autore e opera. E brillano i cataloghi con le loro diversissime composizioni e finalità. Si prenda la collezione del Muro di Tessa per essere esposta a Torino: sono documenti a stampa di Fonderie di caratteri di stampa tra fine Ottocento e Novecento. Le sole copertine aprirebbero un capitolo paratestuale di elevata importanza dato il loro splendore liberty, diverso in ogni singolo ‘pezzo’.
Potrei continuare a lungo ma mi accorgo di avervi rubato fin troppo tempo.
Termino con l’ammirazione che ho avuto per la lettura di due mirabili saggi di Gianfranco Crupi sui libri mobili, ora da Crupi magistralmente impostati per essere esposti in ben due mostre apertesi da pochissimo, l’una a Roma, l’altra a Torino, entrambe con grandissimo successo. Si tratta di oggetti librari studiati e esposti al limite da poterli riconoscere solo per i loro paratesti che si mutano essi stessi in testi, e che hanno vita lunghissima nella stampa: dall’epoca incunabola per giungere oggi ai pop-up. Per questo universo paratestuale sono lieta di essere stata chiamata ad esprimere con poche parole, nella introduzione, ammirazione per il tema e per il suo cantore, il collega Crupi da me sempre considerato fra i migliori studiosi delle discipline storico-bibliografiche anche per le sue vastissime ‘intersezioni’.
E infine:
“Aun aprendo” è il motto scritto nel disegno di Goya, conservato al Prado di Madrid che rappresenta un vecchio incanutito da cima a fondo, con la schiena curva e una lunga barba bianca, e i bastoni che a malapena lo sorreggono.
Aun aprendo significa, Imparo ancora,
Per quanto mi riguarda spero di poter prendere il vecchio di Goya, con anche la celeberrima frase, come mio logo. Sono molto anziana, giro col bastone, non sto bene in piedi ma è continua la mia bulimica infantile fame, fame di sempre nuove conoscenze.
Grazie, cari ragazzi e mi scusino i colleghi.
L'autore
- M. G. Tavoni, già professore ordinario di Bibliografia e Storia del libro, è studiosa con molti titoli al suo attivo. Oltre a studi che hanno privilegiato il Settecento ha intrapreso nuove ricerche su incunaboli e loro paratesto per poi approdare al Novecento, di cui analizza in particolare il libro d’artista nella sua dimensione storico-critica. Diverse sono le sue monografie e oltre 300 i suoi scritti come si evince dal suo sito www.mariagioiatavoni.it
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