Interventi

Rolf Schott e i suoi amici

Foto di Karoly Kérenyi scattata nel 1948 da Rolf Schott nella terrazza della sua casa romana
Foto di Karoly Kérenyi scattata nel 1948 da Rolf Schott nella terrazza della sua casa romana

Lo studio degli archivi di grandi personalità fornisce sempre delle gradite sorprese: non fa eccezione a tale proposito quello di Rolf Schott, conservato, insieme al suo fondo librario, nella Biblioteca Comunale Augusta di Perugia. Nato a Magonza nel 1891, Schott era cresciuto alle soglie del Novecento, consapevole dell’eredità dell’epoca morente come ebbe a dire in una conferenza del 1965: «il grande secolo andava tramontando, ma l’arte, la musica, le lettere, lo spirito creativo occidentale tardarono ancora per decenni a volatilizzarsi». È proprio in questo spirito creativo che egli sviluppa la sua opera: non solo letteraria come poeta, romanziere, drammaturgo (tra i suoi libri più conosciuti Reise in Italien. Erlebnis und deutung, Dresden 1924; Die Inseln des Domes, Zürich 1950), ma anche artistica come pittore e illustratore di libri, senza trascurare quella di storico dell’arte classica e moderna (ancora attuale è la sua monografia Michelangelo: der Mensch und sein Werk, Hamburg 1962), nonché di storico delle religioni. Un percorso che nei primi decenni del XX secolo lo porterà a entrare in relazione, grazie anche ai numerosi viaggi compiuti in varie città europee, con i più importanti protagonisti del periodo, quali gli scrittori Thomas Mann, Hermann Hesse, Karl Kraus, Hugo von Hofmannsthal, il filosofo Oswald Spengler, lo storico delle religioni Karl Kerényi, e molti altri.

A seguito di molteplici articoli scritti contro il nazismo e con l’avvento al potere di Hitler, nel 1933 Schott abbandona la Germania per riparare a Roma, dove nel 1938 si converte al cattolicesimo («Sono battezzato protestante, ma ho fatto a Roma l’abiura con tutta la mia famiglia per abbracciare la vera Chiesa cattolica», come scrive lui stesso in una pagina autobiografica). Sono anni di ristrettezze economiche e Schott si guadagna da vivere, traducendo in tedesco anche libri di propaganda fascista (Benito Mussolini, Die Lehre des Faschismus, Firenze 1937; Galeazzo Ciano in der Kammer der Fasci und Korporationen, Roma 1939). Con l’armistizio dell’8 settembre e con la successiva occupazione nazista di Roma la situazione di Schott si fa estremamente complicata e la sua vita diviene a rischio. A soccorrere lo sventurato interviene la Santa Sede e più in particolare la Biblioteca Apostolica Vaticana – forse per opera del suo Prefetto, Cardinal Giovanni Mercati -, come si ricava da alcuni documenti presenti nell’Archivio. Viene realizzato per Schott un lasciapassare per la Città del Vaticano, con una occupazione creata al momento come «Disegnatore per la Biblioteca Vaticana e dell’Archivio tecnico del Governatorato»; in un documento del Governatorato del mese seguente (14 ottobre), l’incarico presso la Biblioteca è perfino retrodatato al 1936 per non instillare dubbi nei tedeschi. Mutate le sorti della guerra, nel giugno del 1944, è Monsignor Giuseppe Monticone, Archivista generale della “Sacra Congregazione De Propaganda Fide”, a dover difendere Schott dai sospetti degli Alleati, attestando «che il prof. Schott, venuto in Italia per sfuggire alla persecuzione nazista ha sempre nutrito sentimenti contrari al nazi-fascismo, e che perciò non è possibile ch’egli commetta atti comunque ostili agli Alleati». All’interno delle Mura Vaticane Schott entra in contatto, tra gli altri, con Alcide De Gasperi, il quale lo esorterà, alla fine della guerra, a riprendere il proprio lavoro di artista e scrittore, cosa che effettivamente gli farà ottenere grandi soddisfazioni e riconoscimenti pubblici, come la Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania nel dicembre 1966. Schott muore nel 1977 e il suo corpo riposa nel Camposanto Teutonico all’interno della Città del Vaticano.

L’Archivio conserva non solo differenti redazioni di opere o inediti di Schott, ma anche numerose tracce dei contatti che egli ebbe con molte grandi figure del XX secolo: si va dal fitto scambio di idee e di materiale di studio con Karl Kerényi, alle poesie con varianti d’autore – per altro sconosciute agli editori – di Hermann Hesse, ai carteggi con Salvatore Quasimodo, Giorgio Vigolo, Alcide de Gasperi, Thomas Mann e i figli di questi, Klaus e Monika. Un immenso tesoro, pressoché inesplorato che riserva sorprese significative. Basti menzionare qualche esempio: il 25 febbraio 1942 Quasimodo lo ringrazia per la «bellissima traduzione di Ilaria» (ovvero Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto), augurandosi che possano vedere presto la luce riunite in un volume le versioni poetiche di Schott: «Ammiro la puntualità di alcune immagini che bene rendono in tedesco quelle d’una lingua così difficile come l’italiano. Lei potrebbe pubblicare in volume, e con onore, le sue traduzioni. Non credo che sia difficile oggi, trovare un buon editore. Le invio la poesia da lei desiderata. Lavori, e senza amarezza: la guerra qualche giorno dovrà pure finire» (9 marzo 1942).

Thomas MannDi particolare interesse è la lettera del 13 dicembre 1946 che Thomas Mann invia dal suo esilio americano di Pacific Palisades. Oggetto della missiva è il rapporto che gli intellettuali tedeschi devono avere con la madrepatria dopo le immani catastrofi causate dal nazismo. Mann dà ragione a Schott sul fatto che bisogna tenersi lontani dalla Germania: «Von Deutschland, da haben Sie recht, hält man sich besser fern. Das Gute und tief Beschwerliche davon hat man ohnedies in sich selbst» (solo la propria anima è rimasta l’unica isola felice dove i bei ricordi possono sperare di non essere spazzati via dalla temperie del presente). Questa frase, posta alla fine della missiva, si allinea perfettamente alla produzione coeva dello scrittore, nella quale egli si sofferma sulle colpe dei tedeschi e sui motivi per cui si rifiuta di tornare in patria. In realtà negli anni seguenti, Mann compirà svariate visite in Germania, sia in quella occidentale che in quella orientale, rispondendo alle critiche con la frase: «Non conosco due stati tedeschi, conosco solo la Germania». Infine la stessa figlia di Mann, Monika che, dal suo “rifugio” di Capri, scrive: «Basta avere dei volumi di Goethe per vivere anche in prigione» (16 giugno 1962).

von BalthasarTra le amicizie di Schott che l’Archivio contribuisce a valorizzare spicca certamente quella con il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988). È noto che questi aveva scritto un’interessante premessa alla raccolta poetica di Schott Ein Glanz aus Dir (Einsiedeln 1965), nella quale esaltava la capacità dell’autore di portare alla luce il Verbo sempre uguale a se stesso che si esprime nelle diverse creature e nelle diverse culture che di esse parlano. Ai complimenti iniziali per aver scritto versi più potenti di quelli delle precedenti sillogi, segue l’idea per cui la poesia autentica è in grado di esprimere la presenza di Dio, creatore di tutto, in ogni cosa e da qualsiasi forma culturale storica la composizione provenga. In tale capacità l’espressione poetica è una forma di mistica. Von Balthasar inoltre aggiunge un accenno indiretto al carattere etico della poesia (e quindi del suo autore), affermando che questa capacità di vedere nella parte il riflesso del Dio Creatore, diviene possibile quando il poeta si pone in stato di umiltà di fronte alla Rivelazione, non innamorandosi narcisisticamente, quasi fosse forma che basta a se stessa, del proprio prodotto. L’Archivio ci spalanca un universo totalmente inedito della profonda amicizia tra i due, testimoniata da un consistente mannello di lettere, cartoline, in aggiunta a svariati libri con dedica. Non si conosce con esattezza a quando risalga la conoscenza tra Schott e von Balthasar: se le prime testimonianze epistolari dell’Archivio sono dell’inizio degli anni ’50, i primi contatti vanno sicuramente retrodatati, visto che all’epoca Schott stava già realizzando traduzioni per von Balthasar. Certo è che i loro rapporti terminano con la morte di Schott nel gennaio del 1977. L’ultima lettera di von Balthasar risale a qualche mese prima, il 28 luglio del 1976, quando il teologo scrive all’amico per consolarlo della morte della moglie Margit: «da questo momento la vita sarà più difficile, ma proprio in questi momenti bisogna superare il dolore grazie alla fede in Dio». Quella stessa fede che il teologo aveva riconosciuto in Schott nella dedica manoscritta al suo Wer ist ein Christ? (Einsiedeln 1965): «grato all’amico e al poeta del Dio luminoso».

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