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Un gigante italiano in Giappone: le ceramiche di Nino Caruso in mostra a Kyoto e Gifu

Nemo propheta in patria, dice l’adagio. Adagio facilmente applicabile a tanti artisti italiani contemporanei, e a maggior ragione ai maestri dell’arte della ceramica. Arte tanto antica quanto relegata alla produzione di utensili poco pregiati. Non a caso nell’Italia del classicismo e dell’artista ‘divino’ che imponeva alla materia la forma delle proprie visioni, le ceramiche più venerate erano quelle che, modellate a mo’ di scultura, nascondevano l’umile terra sotto smalti e invetriature.
La storia di Nino Caruso (1928-2017), ceramista italiano celebrato in tutto il mondo, è in questo senso molto emblematica, ed è emblematica l’ultima grande mostra da lui organizzata. Era il 12 del 2015, e, dopo infinite resistenze da parte degli amministratori della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, finalmente Caruso riusciva a far approvare, e quindi a programmare, organizzare, allestire e inaugurare la rassegna La scultura ceramica contemporanea in Italia, che ospitava 180 opere di 63 artisti italiani della ceramica, a partire da Leoncillo Leonardi, del quale ricorreva il centenario dalla nascita. La mostra, che ebbe una buona copertura mediatica anche all’estero (cfr. ad es. http://www.lesceramophiles.org/actu/rome-expose-la-ceramique-italiennen.html), era destinata a offrire agli artisti italiani della ceramica quelle luci della ribalta da sempre negate. «Con la mostra alla GNAM», scriveva Caruso, «si prende atto di una realtà culturale diffusa in Italia ma mai rappresentata in un contesto istituzionale» (cfr. https://www.huffingtonpost.it/2015/03/11/la-scultura-ceramica-contemporanea-in-italia_n_6848452.html).
Lo GNAM era, tuttavia, in fase di avvicendamento amministrativo. Mancavano soldi e personale. Gli artisti dovettero personalmente organizzare e pagare le spese di spedizione e di assicurazione delle proprie opere. La situazione peggiorò giorno dopo giorno, fino a che, non essendo stato sostituito il personale del museo, fra aprile e maggio visitatori e artisti trovarono a più riprese sbarrate le porte del museo, senza alcun preavviso (https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/06/06/gnam-senza-personale-mostra-chiusaRoma20.html?ref=search). Nino Caruso scrisse numerose lettere al Ministro dei Beni Culturali, senza ottenere risposta. E così, malgrado il notevole afflusso di pubblico, i problemi non furono mai veramente risolti. Dopo la data di chiusura della mostra, fatta terminare il 7 giugno malgrado la proroga all’11 ottobre fosse già stata calendarizzata (https://insideart.eu/2015/06/07/la-gnam-annulla-la-proroga-della-mostra-di-ceramiche-perche-senza-personale/), Caruso scrisse una lettera aperta, intitolata significativamente Caro Ministro, aspettiamo una sua risposta, che esordisce: «La mostra della scultura ceramica ha una storia molto antica ed è bene che lei sia informato e possa così comprendere la mia insistenza e quella degli artisti interessati per ottenere da lei una risposta» (https://www.artribune.com/tribnews/2015/07/il-calvario-di-curare-una-mostra-alla-gnam-di-roma-lartista-nino-caruso-scrive-al-ministro-franceschini-dialogo-inesistente-allestero-mai-nulla-di-simile/).
Nino Caruso morì nel 2017, a pochi mesi dalla pubblicazione della sua biografia, Una vita inaspettata (2016), interessante racconto di come la scoperta della vocazione di ceramista si accompagnasse da una parte alla ricerca di un’identità, propria e collettiva, e al contempo a un instancabile bisogno di viaggiare nel mondo ed entrare in comunione con altre ‘identità’, artistiche e umane. Non a caso il suo manuale di Ceramica Raku (1982) esordisce parlando proprio delle emozioni profonde che il rito collettivo di foggiatura e cottura delle ceramiche raku gli aveva offerto durante l’apprendistato statunitense. Oltre a quel libro, tanti altri suoi scritti sono ancor oggi strumenti e materia di studio per tanti ceramisti italiani (alcuni di essi unicum nel panorama della nostra lingua, quantomeno di quelli non in traduzione): Ceramica viva (1979), Decorazione ceramica (1984), Ceramica oltre (1997), e il Dizionario illustrato dei materiali e delle tecniche ceramiche (2006).
Di famiglia siciliana ma nato a Tripoli nel 1928, Caruso si trasferì in Italia nel 1940, e dagli anni Cinquanta a Roma, dove conobbe Renato Guttuso e gli artisti dell’avanguardia romana. Esordì nel mondo della ceramica da autodidatta, con opere che si riallacciavano alla tradizione mediterranea, vissuta come un complesso discorso interidentitario. La terra è in questo senso uno strumento, ma anche la sostanza materiale madre di ogni identità personale e collettiva.

È interessante che, dopo tante altre sperimentazioni, e una lunga serie di esperienze nell’ambito dell’insegnamento artistico a tutti i livelli, a partire dagli anni Ottanta sarà proprio la riflessione sull’attualità del tempo antico a essere ripresa nella serie dei ‘mitovasi’, che concretizzano in forme metastoriche il recupero di tecniche  antiche, come il bucchero o la terra sigillata, alla ricerca di un’ideale comune fondo mitopoietico dell’animus mediterraneo.
A livello mondiale, tuttavia, non c’è dubbio che Caruso fosse conosciuto, e anzi sia fondamentale, soprattutto per la sua ricerca ‘modulare’, avviata verso la fine degli anni Sessanta. Caruso infatti elaborò, mediante innovative tecniche di intaglio del polistirolo (da usare come modello per creare stampi per colare l’argilla), moduli scultorei raffiguranti bassi e altorilievi continui, concepiti come complementari rispetto a supporti parietali. In questo modo la ceramica diviene parte integrante della progettazione spaziale. Lo studio dei ritmi musicali e dei chiaroscuri, necessariamente variati da edificio a edificio a seconda dell’illuminazione e della tipologia costruttiva, ha portato Carruso a un serrato dialogo con designer e architetti, e aperto nuove prospettive, anche in senso industriale, all’uso della decorazione ceramica. Questo spiega perché, malgrado il pregiudizio che vorrebbe la ceramica ‘arte minore’, Caruso fosse ben conosciuto in ambito italiano, ma spiega anche perché le mostre a lui dedicate avvenissero quasi esclusivamente negli ambiti della progettazione architettonica e spaziale.

L’equivoco in un Caruso ‘quasi architetto’ si rileva, ad esempio, nella pagina di Wikipedia a lui dedicata, che al di là dei dati biografici di incontri con altri artisti, mostre e premi, tratta unicamente dei suoi lavori modulari. Ma già nel catalogo della mostra Arte Architettura Spazio urbano, l’opera di Nino Caruso (Casa dell’Architettura di Roma, 23 maggio – 12 settembre 2014, a cura di Flavio Mangione e Cristiana Vignatelli Bruni) Gillo Dorfles, peraltro molto fine nel rilevare anche gli aspetti umanistici dei motivi continui di Caruso, scrive: «la ceramica… gli ha permesso di raggiungere la dimensione architettonica… È solo tenendo conto di questa duplice natura della sua arte… che è possibile affermarne la singolarità e la pregnanza». Questa interpretazione si giustifica nell’ambito di quella mostra, che, nata come parte della rassegna La Ceramica in Architettura, intendeva promuovere la sinergia tra architetti, artisti, studiosi dei materiali ceramici e la produzione artigianale. Dorfles in effetti rileva la concezione modernista di un’arte modulare e spazialmente integrata. Ma è un approccio che mette in secondo piano la ricerca tattile e materica di Caruso, e che rischia, se generalizzato, di scambiare la superficie di un’arte (per quanto estesa o modularmente estensibile) per la sua sostanza. E infatti nel medesimo catalogo Flavio Mangione scrive: «per quanto Caruso si sia speso per far conoscere questo particolare e affascinante mezzo espressivo, la ceramica in ultima istanza risulta sempre un mezzo e non un fine del suo lavoro. Quello che interessa sono le potenzialità plastiche, seppur amplificate dalle proprietà superficiali del materiale» (Punto, linea, supericie… volume e spazio, p. 20).

Non che l’interesse di Caruso per i diversi aspetti della sua ceramica (artigianale, scultoreo, industriale, architettonico) non manchi di discontinuità, e per questo parliamo di ‘fasi’ della sua arte. Ma rimane sempre al centro del suo percorso artistico l’interesse per il rapporto anche estremo fra la spinta alla discontinuità delle moderne tecnologie costruttive e la persistente attualità di tradizioni millenarie. I motivi dei suoi bassorilievi continui tendono sempre a riconnettersi alla sostanza della materia impiegata, siano essi ispirati alla decorazione di monumenti sumeri, steli egizie, colonne greco-romane, o alla scrittura pre-colombiana, ai rapporti armonici, o a movimenti ondulari. Sul piano dell’estetica Mangione a nel medesimo saggio (p. 23) ricorda il precedente ‘precolombiano’ della Ennis House di Frank Lloyd Wright, usato nel 1982 da Ridley Scott per filmare gli interni di alcune scene di Blade Runner. D’altro canto la fantascienza andava elaborando un’estetica quantomeno convergente con quella di Caruso: basterà ricordare la ricerca grafica di H.R. Giger, già conosciuto dalla fine degli anni Sessanta per le sue opere sui ‘biomeccanoidi’, punto di partenza per lo xenomorfo e gli interni della nave aliena dell’Alien del medesimo Scott.

 

Gli spazi architettonici degli edifici nei quali lavora Caruso sono creati da architetti, ma poi ridefiniti dalle suggestioni umanistiche scaricate lungo le superfici visibili dai movimenti di luce dei motivi dei suoi rilievi. Caruso non è architetto, ma, come un’edera, ricopre e connota gli spazi architettonici a lui affidati. Con le sue sperimentazioni modulari, che negli ultimi anni divengono sempre più libere e meno riproducibili (con chiaro ritorno a un’idea artigianale della ceramica), Caruso entra ‘in dialogo’ con l’architettura: ma si tratta del tipo di dialogo che spesso gli architetti pretendono di avere con quel ‘contesto’ che essi concepiscono come invariabilmente passivo e ancillare.
In Caruso, ed è questo che fa di lui un vero scultore, è sempre rimasto l’artigiano, ovvero l’approccio di chi ritrova nella terra la continuità con chi l’ha lavorata per millenni, e che usa tale consapevolezza per reinterpretare la storia del mondo e delle sue genti. Ritengo che almeno in principio fu questo aspetto a colpire i critici giapponesi, quando nel 1964 due suoi vasi della serie arcaica, presenti alla prima International Exhibition of Contemporary Ceramic Art di Kyoto, fecero dire allo scultore e critico Yanagihara Yoshitatsu che Caruso lavorava come un ‘vero artigiano della ceramica’. In seguito il ceramista Satonaka Hideto, colpito dalla ‘rustica’ modellazione dei vasi, si avvicinò allo stile di Caruso.
È piuttosto evidente che è in gioco una distanza culturale, fra Italia e Giappone, che necessita di una minima analisi. In primis per il fatto, non banale, che in Giappone l’arte della terra, la ceramica, è a tutti gli effetti considerata una delle più importanti della tradizione nazionale (tutt’altro che ‘minore’, quindi). I maestri di ceramica giapponese, sparsi sul territorio e specializzati in tecniche e stili diversi, discendono talvolta da antichissime tradizioni o da famiglie di ceramisti. Le loro opere, soprattutto quelle che hanno una funzione in cerimonie come quella del tè, sono considerate fra gli oggetti d’arte più pregiati di qualsiasi collezione pubblica e privata. Allo stesso tempo i maestri di questa arte si considerano a tutti gli effetti degli artigiani, tanto più quando la metodologia di lavoro si mantentiene vicina a quella dei loro avi. Manca, in effetti, la separazione concettuale e gerarchica che in Occidente distingue la scultura vera e propria dalle arti ‘utili’, e in quanto tali minori.

A distanza di un anno dalla morte, le opere più recenti di Caruso sono state messe in mostra presso alcune gallerie italiane: nel gennaio 2018 presso la Galleria Arte e Pensieri di Roma, e fra 30 giugno e 2 settembre presso la Bottega Bertaccini di Faenza. Tuttavia la prima vera retrospettiva mirante a dar conto di tutte le fasi artistiche dell’arte di Caruso è stata organizzata quest’anno in Giappone. Due grandi istituzioni pubbliche, ovvero il Museo di Arte Moderna di Kyoto (National Museum of Modern Art, Kyoto, o MoMAK, dal 4 gennaio al 16 febbraio 2020) e il Museo di Arte Ceramica Moderna di Gifu (Museum of Modern Ceramic Art, Gifu, dal 27 febbraio al 12 aprile 2020), hanno ospitato un centinaio di opere del maestro italiano in una grande rassegna significativamente intitolata ‘Forms of Memory and Space: Nino Caruso – Giant of Contemporary Italian Ceramics’. L’allestimento è stato curato da Daicho Tomohiro, direttore del MoMAK, con la collaborazione del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza.

Non ho potuto visitare la mostra in prima persona, poiché i problemi derivanti dalla diffusione del Covid19 e le relative restrizioni a viaggi non necessari (e nel mio caso una vera e propria quarantena, essendo appena rientrato dall’Italia), mi hanno costretto a Tokyo per tutte le settimane finali degli allestimenti. Grazie alla generosità della signora Kasumi Ito, che si è recata di persona al Museo di Arte Moderna di Kyoto, ho tuttavia avuto accesso al catalogo. Nel libro, intitolato come la mostra Forms of Memory and Space: Nino Caruso – Giant of Contemporary Italian Ceramics, a cura di Daicho Tomohiro – Hanai Motoko – Fuke Risa (The National Museum of Modern Art, Kyoto), Kyoto, The National Museum of Modern Art Kyoto, 2019, di 262 pp., delle quali 29-172 a colori e le rimanenti in bianco e nero, sono pubblicati in doppia versione giapponese e inglese i contributi di Claudia Casali, Andrea Caruso, Aoyagi Masanori, Daicho Tomohiro, Hanai Motoko e Stefano Caruso.

Mentre i saggi dei collaboratori italiani (a dire il vero scritti in un inglese talvolta traballante) vertono soprattutto sugli aspetti biografici e bio-artistici di Caruso, con informazioni peraltro utili e precise (e con eccellenti tavole cronologiche inerenti la vita, le attività artistiche, didattiche, espositive, nonché informazioni sull’attuale collocazione di opere di proprietà di enti pubblici, e in fine una buona bibliografia), i giapponesi hanno invece insistito sui vari aspetti del rapporto di Caruso con il Giappone. Questi ultimi sono, per il pubblico italiano, i contributi più originali del libro, poiché fanno emergere elementi della cultura di Caruso che sarebbero difficilmente apprezzabili da un pubblico europeo, che al dialogo interculturale spesso si approccia con un’ottica inconsciamente eurocentrica.
È proprio il saggio di Daicho Tomohiro a suggerire che, data la reverenza offerta a chi porta avanti tradizioni artistiche secolari, l’occhio giapponese ha saputo apprezzare la meditazione di Caruso sulla terra come elemento di continuità identitaria, nell’ambito delle prime esposte a Kyoto nel 1964 (e presenti anche in questa rassegna, catt. 1-12). Caruso dal canto suo conosceva le tradizioni giapponesi solamente a partire da libri in inglese, e pertanto le sue idee di ‘dialogo’ con tali tradizioni avvenivano tramite intermediari piuttosto parziali. La stessa opera di Caruso Omaggio a Kyoto, elaborata nel 1972 (cat. 34), una volta in Giappone mostrava una certa alterità rispetto al contesto culturale genuinamente nipponico.
La sua prima permanenza in Giappone avvenne nel 1982, quando fra marzo e aprile compì nell’arco di 40 giorni un ampio itinerario (il programma completo di quel viaggio è riportato a pp. 193-197 del catalogo). Caruso poté visitare i principali centri di produzione ceramica dell’arcipelago e gli atelier dei maestri più prestigiosi, offrendo anche seminari presso musei, centri di studi e istituti di cultura, e scambiando idee con esperti di tante diverse tecniche artigianali. Fu lui stesso, impressionato dal sistema organizzativo giapponese, e dal grande interesse sia per la tradizione sia per la sperimentazione sulla ceramica, a insistere per la creazione dell’International Ceramics Competition Mino (cfr. sotto). Gli furono inoltre commissionate decorazioni di importanti complessi architettonici pubblici, come quella a bassorilievo continuo del Ospedale Universitario di Tokai (1984), realizzata in porcellana con la collaborazione di Shino Toseki di Tokyo, e il monumento chiamato ‘Il vento e le stelle’, realizzato nel 1991 per il Parco Culturale della Ceramica di Shigaraki (nella foto).
Caruso divenne una celebrità grazie alla sua fase modulare, che giunse in Giappone con la seconda esposizione internazionale di arte ceramica di Kyoto, denominata Contemporary Ceramic Art: Europe and Japan, dove l’innovatività delle sue opere, pur se inizialmente interpretate come sculture astratte, fu riconosciuta come potenzialmente rivoluzionaria. Nel 1973 arrivò al secondo posto dell’International Ceramic Design Competition. Da quel momento in poi Caruso fu invitato a tutti i maggiori eventi di ceramica, fra i quali il Chunichi International Exhibition of Ceramic Arts (1975). A sua volta Caruso invitò in Italia e collaborò con ceramisti come Hirai Tomokazu e Satonaka Hideto, che era fra coloro che per primi si erano accorti dell’eccezionalità della ricerca di Caruso. La conoscenza che dell’arte giapponese che vediamo in Ceramica viva (1979), composto prima del viaggio nel 1982, deriva anche dall’incontro con questi due maestri.
Nel corso degli anni Sessanta, e poi Settanta, l’interesse degli artisti per il disegno industriale da una parte, e per la rifunzionalizzazione nel senso della riproducibilità delle arti popolari dall’altra, porta anche in Giappone a un’espansione degli ambiti tradizionali della ceramica, a favore della conquista di nuovi spazi di creatività e influenza sociale. In questo senso l’impatto di Caruso fu fondamentale: la sua proposta modulare e le sue originali tecniche di modellazione a stampo furono apprezzate per le innumerevoli potenzialità applicative. Ancora Daicho Tomohiro fa notare, acutamente, come questo interesse nei confronti di Caruso sia, in realtà, un approccio non a tecniche artistiche o di ceramica, ma di disegno industriale.
Un’osservazione simile è offerta nel saggio di Motoko Hanai, dedicato specificamente al rapporto di Caruso con il triennale International Ceramics Competition Mino (che si tiene nella sede della presente mostra, ovvero nel Parco della Ceramica di Mino presso Tajimi, prefettura di Gifu), del quale Caruso fu fra gli inauguratori della prima edizione del 1986, e poi fino al 2002 giudice per ben cinque volte (più di qualunque altro membro internazionale). Di queste cinque partecipazioni, tuttavia, quattro avvennero nell’ambito della sezione dedicata al design della ceramica, e solo una volta della sezione dedicata all’arte della ceramica (e quindi all’arte ‘pura’).
E tuttavia quando portati in Giappone i lavori di Caruso, al di là della ricezione italiana e giapponese, finiscono per comportarsi da monumenti, ovvero come vere e proprie sculture più che elementi architettonici. È lo stesso Daicho Tomohiro che evidenzia il paradosso, analizzando le foto delle opere di Caruso esposte durante il suo giro giapponese del 1982 in tre diverse mostre a Kyoto, Tokoname e Tokyo. Daicho cita il prof. Inui Yoshiaki (Università di Kyoto), che all’epoca sottolineava come le opere colonnari e gli elementi ceramici elaborati come applicazioni architettoniche avessero una presenza non solo decorativa, ma anche monumentale, erede dell’integrazione fra architettura e scultura della tradizione greco-romana. Ma dal confronto con le foto delle medesime opere esposte a Roma e in altre città italiane, Daicho conclude che le installazioni giapponesi non furono in grado di far risaltare il dualismo fra materia e spazio dell’arte di Caruso, essendo del tutto assente in Giappone il contesto di continuità culturale e spaziale alla base del lavoro di Caruso. La scultura non ha nell’uso abitativo giapponese una funzione monumentale o strutturale assimilabile a quella mediterranea. Inoltre la qualità dei locali giapponesi, separati l’uno dall’altro da pannelli di legno e carta che però possono essere spostati e rimossi, impedisce ai bassorilievi continui, ma anche ai portali e alle colonne di Caruso, di avere una ‘sponda’ architettonica alla quale appoggiarsi. Paradossalmente è proprio la modularità ‘vera’ degli spazi giapponesi a impedire l’integrazione dei moduli di Caruso. In questo modo le sue opere, da una parte fortemente ‘mediterranee’ per forme e ritmi, dall’altra elaborate sulla base di una concezione europea dei volumi costruiti, finivano per reclamare nei locali giapponesi spazi di autonomia che le definivano come sculture pure. A essere crucialmente diversa è, d’altro canto, la cultura abitativa dei due paesi, e poco aiuta il giapponismo dell’architettura occidentale novecentesca, che traduce le diverse tipologie di modularità giapponese non in vero movimento, ma in polifunzionalità degli spazi o nella parziale scomparsa dei divisori, nell’ambito tuttavia di una definizione spaziale fissata a priori e non modificabile.

Questo spiega, secondo Daicho, perché la ricerca modulare di Caruso non poteva essere raccolta che nell’ambito del disegno industriale. Non è un caso, d’altronde, che gli edifici giapponesi commissionati a Caruso siano oggetti modernisti, ben distanti dalla tradizione locale. ‘Il vento e le stelle’ di Shigaraki, in particolare, è una vera e propria installazione permanente, monumento post-moderno al sincretismo delle tradizioni del mondo, che però mostra un fortissimo animus europeo (o, meglio, mediterraneo).
Successivamente al successo dei bassorilievi continui di Caruso è venuta a mancare in Giappone la consapevolezza che Caruso si considerasse uno scultore a tutto tondo. In questo senso l’esposizione di Kyoto-Gifu cerca di compensare questa lacuna, offrendo per la prima volta al pubblico del Sol Levante la possibilità di apprezzare l’ultima produzione di Caruso, ovvero quei mitovasi  (catt. 59-72) e quelle ‘case fantastiche’ (catt. 100-103) che recuperano con forza la sua ricerca più artigianale e puramente artistica. D’altro canto sembrerebbe evincersi che questo recupero in tarda età possa essere messo in relazione con l’influenza dell’approccio ‘artigianale’ sperimentato anche in Giappone.

Come valutare, in definitiva, questa mostra (considerando l’approccio intermediato dal catalogo)? Splendidi e importanti i pezzi esposti, che ne includono non pochi già acquistati o fatti acquistare all’uopo da parte di istituzioni giapponesi (in primis quelle di Kyoto e Gifu). La disposizione è cronologica, e per fasi artistiche. Sono ben messe in evidenza le connessioni con gli ambiti giapponesi, e con artisti giapponesi che a Caruso si ispirarono in modo diretto.

Di grande suggestione anche gli allestimenti: le due sedi della mostra sono infatti legate da tempi antichi all’arte ceramica: Kyoto alle tradizioni più alte (come Kyomizu e Raku), che si riflettono nelle collezioni dei suoi musei di arte antica e moderna, e nelle numerosissime mostre dedicate agli utensili della cerimonia del tè. La prefettura di Gifu dal canto suo è patria della ceramica Mino, che ha sviluppato alcune dele tradizioni nazionali più importanti, come quelle Oribe, Shino, Kizeto, e Setoguro. Aggiungo, en passant, e come pura provocazione ad italicos, che il monumento di Caruso ‘Il vento e le stelle’ sorge a Shigaraki perché tale prefettura, sede dell’antica tradizione di ceramica detta, appunto, Shigaraki, ha pensato bene di investire nella costruzione di un Parco Culturale della Ceramica che richiama artisti e turisti da ogni parte del mondo. Come si vede, sono enormi possibilità di scoperta, artistica ma anche antropologica, che queste realtà istituzionali giapponesi offrono, soprattutto grazie all’efficace coordinamento di strutture diverse.
In conclusione, troviamo il nostro Caruso commemorato in alcuni dei luoghi più sacri della tradizione giapponese. Non solo: la mostra su Caruso avrebbe dovuto, secondo programma, precedere la XIII edizione del International Ceramics Competition Mino, prevista a partire dall’aprile del 2020: l’omaggio a Caruso ‘co-fondatore’ dell’evento non avrebbe potuto esser più significativo. Ma, Covid19 imperante, il concorso è stato rimandato all’autunno del 2021 (cfr. https://www.icfmino.com/english/): notizia negativa per molti aspetti, ma che quantomeno consentirà al sottoscritto (sperabilmente ancor vivo e non più quarantenato) di visitarla e magari riportarne in questa sede qualche notizia.
Nemo propheta in patria, quindi, ma almeno in patria altera i segni di Caruso sono stati letti e apprezzati in modo adeguato. Sarà mai possibile costruire, in Italia, analoghe realtà di incontro intellettuale e artistico, che sappiano valorizzare la nostra tradizione ceramica? Caruso ci aveva provato: la speranza è che altri insistano sulla stessa strada: nella peggiore delle ipotesi potrebbero trovarsi a essere esaltati come dei giganti dell’arte contemporanea nei più importanti musei del Giappone.

Forms of Memory and Space: Nino Caruso – Giant of Contemporary Italian Ceramics /記憶と空間の造形 イタリア現代陶芸の巨匠ニーノ・カルーソ

A cura di Daicho Tomohiro (The National Museum of Modern Art, Kyoto / MoMAK)

4 gennaio – 16 febbraio 2020: The National Museum of Modern Art, Kyoto

27 febbraio – 12 aprile 2020: Museum of Modern Ceramic Art, Gifu

link alla pagina del MoMAK dedicata alla mostra: https://www.momak.go.jp/English/exhibitionArchive/2019/435.html.

link al file PDF con l’elenco completo delle opere in mostra: https://www.momak.go.jp/img/2019/435/carusolist_en.pdf.

La mostra sulla versione inglese di un quotidiano giapponese:

https://www.japantimes.co.jp/culture/2020/01/15/arts/nino-carusos-monumental-contribution/.