Vitalismo e pulsione di morte, bellezza e minaccia, fascino e distruzione; il serpente conserva una simbologia perturbante che dalle ascendenze bibliche e filosofiche si estende alla cultura di massa intercettando l’immaginario. Dove risiede, dunque, la scelta di questo titolo?
Desideravo un titolo che racchiudesse il senso del romanzo e tale da introdurne l’essenza. Nell’immaginario collettivo, il serpente viene concepito come un animale pericoloso, fatale. Il suo morso è mortale, come la stretta delle sue spire. Ma per altri versi si mostra seducente, affascinante, di diabolica memoria. Mi piaceva l’idea di accostarlo al cuore, organo in cui ci convinciamo risiedano i nostri sentimenti. Un titolo contradittorio, che unisse due sensazioni apparentemente contrapposte ma che invece, per molti versi, sono simili. Anche il cuore, come il serpente, vive d’istinti, di pulsioni, che a volte degenerano. Anzi, il serpente, rimane fedele alla sua natura, pertanto più sincero e spontaneo, rispetto al cuore che subisce le contaminazioni della ragione. L’ho trovato calzante.
Dichiaratamente ispirato a La piscina di Jacques Deray, il suo romanzo presenta un impianto cinematografico ben visibile nella caratterizzazione dei personaggi, nei dialoghi, nelle descrizioni che richiamano il campo lungo … che peso ha avuto la Settima Arte nella sua formazione?
Tantissimo. Sono un appassionato di cinema fin da bambino. Ricordo che una sera, era estate e nella piazza del paese dove trascorrevo le vacanze con la mia famiglia avevano allestito una sorta di cinema all’aperto con un vecchio proiettore e un lenzuolo, ho preferito vedere La strada di Fellini piuttosto che andare a giocare con i miei amichetti. Avevo solo sette anni.
Adoro il cinema degli anni Sessanta, il fascino del bianco e nero, la genialità di alcuni registi, il coraggio degli sceneggiatori. Li trovo vivi, imprudenti e intraprendenti, con un linguaggio semplice ma profondo. Per esempio i film di Dino Risi (Poveri ma belli) o quelli di Antonioni (La notte).
Quando scrivo un romanzo nella mia testa si compongono a mano a mano tutte le scene, come una lunga sequenza cinematografica. Non riesco a scrivere un rigo senza prima averlo visto dentro di me. L’esitazione sul volto di un personaggio o il movimento di una mano di un altro non sono nient’altro che la trasposizione scritta di una scena che ho avuto modo già di osservare. Non saprei dirle se questo sia un vantaggio o un limite. Forse è più semplicemente il mio stile.
E la letteratura? Le venature thriller si percepiscono appieno ma c’è, nella figura di Gabriele, qualcosa che ricorda l’Ospite del Teorema pasoliniano, quell’elemento estraneo che spariglia un ordine fragile e apparentemente rassicurante, svelando le crepe della ‘normalità’.
Ci sono autori a cui sarò debitore per sempre. Mi riferisco a Cesare Pavese, Pasolini, la Morante, ma anche Patricia Highsmith fino ad Almudena Grandes. L’elenco è lunghissimo. Scrittori che mi hanno fatto riflettere, sognare, evadere. In Cuore di serpente convergono molti generi: dal thriller al noir sentimentale, dalla narrativa alla tragedia greca. Per esempio, la struttura me lo ha ispirato proprio Sofocle. Se spogliamo il romanzo da ogni elemento, scarnificando la storia, ci accorgiamo che la villa è il palcoscenico ideale dove i personaggi si muovono. La letteratura è fondamentale. Leggere la più grande scuola di scrittura. E da lì che s’impara. Gabriele è un personaggio chiave della storia, anche se, a mio avviso, il meno sinistro. Ha una missione da compiere e utilizza ogni stratagemma per arrivare al suo scopo. Un vero e proprio ‘detonatore’, che farà esplodere quell’apparente mondo di false certezze in cui si muovono gli adulti.
L’ambientazione non può che portare alla mente uno dei fatti più tragici del nostro passato recente: il massacro del Circeo. Quando ha deciso di collocare sul Promontorio una storia volta a svelare le contraddizioni degli anni Settanta?
Volevo scrivere una storia ambientata in un periodo in cui non ci fosse la contaminazione dei telefonini, né dei social e di internet. La scelta è caduta sugli anni Settanta perché mi sono sembrati idonei per raccontarne i turbamenti, e soprattutto descriverne i fallimenti. Ma quello che succede lontano dal Circeo rimane ai margini. Mi sono concentrato maggiormente su come le contraddizioni di quel periodo storico abbiano influenzato le persone.
Lei ha scelto come epigrafe, oltre a un passo di Dante, la bella descrizione di Platone: “Un ragazzo è, di tutte le bestie selvagge, la più difficile da trattare”. Una porta d’accesso al testo che sembra svelare moltissimo.
Sì, è vero. Gli adulti sono animali addomesticati, spesso tenuti al guinzaglio dalle convenzioni, le relazioni, le convenienze. A volte, preferiscono dare più importanza al contenente che al contenuto, a dispetto dei giovani, inclini all’irruenza, ma più sinceri. Platone usa questa metafora per descrivere l’impetuosità della gioventù paragonandola a una bestia selvaggia pronta a sbranare e a non farsi catturare e di cui gli adulti ne hanno quasi timore.
L'autore
- Carlo Pulsoni è il coordinatore di Insula europea (http://www.insulaeuropea.eu/carlo-pulsoni/).
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