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Pasolini e il cinema sovietico

L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni

Nel 1969, nella rubrica “il caos” che teneva per il “Tempo”, Pasolini pubblica un pezzo intitolato I servi sciocchi. Nel breve articolo riferisce le “orrende dichiarazioni” rilasciate dal regista sovietico Sergej Jutkevič “a proposito del cinema italiano (ch’egli ha visto a Venezia). Di Porcile dice ch’è un esempio della nefandezza che può essere raggiunta da un “regista occidentale”. […] Lo stalinismo evidentemente non si esauriva in Stalin. Il linguaggio da precettore servile e saccente degli intellettuali sovietici non è affatto cambiato dagli anni Cinquanta in poi. Il nostro regista non conosce una parola d’italiano, vorrei sapere come può giudicare un’opera come Porcile per metà (la più importante) fondata unicamente sull’emissione orale di un testo di poesia. Ciò non solo è bacchettone ma disonesto. […] E allora aggiungiamo che il “Festival di Mosca” è il più vergognoso di tutti i Festival. Neanche nella più retrograda parrocchia “occidentale” è concepibile una simile sciocca e beota esigenza di divertimento da ragazzini scappati da scuola. E pensare che avevano avuto il coraggio di invitarmi! Basta: il mito dell’Urss non solo è finito, ma ha finito col diventare un mito negativo e minacciosamente ridicolo. Parlo s’intende della classe dirigente, non della nazione russa. […] Che […] dei servi sciocchi come Jutkevič […] siano considerati tali, e non passino per portavoce del popolo russo: chiuso in un inesplicabile e tragico silenzio.”

Eppure, sei anni prima della pubblicazione di questo articolo, nel 1963, Pasolini aveva utilizzato nella Rabbia dei brani di un film proprio di Sergej Jutkevič, Rasskazy o Lenine (1957). Perché notare questa apparente contraddizione, questo cambio di giudizio così radicale? Perché la metà degli anni Sessanta segna un passaggio decisivo nel pensiero di Pasolini. Inizia ad essere sempre più radicalmente centrata la sua critica assoluta al modello dello sviluppo neocapitalista, che implica una altrettanto assoluta critica al modello sovietico (e in seguito anche cinese), critica complessa, che va letta appunto all’interno di quella alla Nuova Preistoria. Pasolini riconoscerà alla Russia sovietica, fino all’anno della morte, la possibilità di “salvarsi” dall’omologazione del consumismo, dalla mutazione antropologica che aveva distrutto la Storia, la Tradizione, la Vitalità innocente dei giovani, l’ambiente (il paesaggio urbano “antico” e quello naturale). Ma nello stesso tempo non le perdonerà mai il suo ruolo di superpotenza e la mancanza di libertà interna. Non le perdonerà, insomma, di aver tradito gli ideali dell’Ottobre, e di non poter quindi adempiere fino in fondo, con coerenza, il compito di unica concreta alternativa alla distruttività del Dopostoria neocapitalista. La Rabbia, unicum nella produzione pasoliniana, poema costruito con spezzoni di cinegiornali e materiale documentaristico, oltre che dal film di Jutkevič, è certamente un esempio chiarissimo della costruzione del tema della critica al neocapitalismo e allo “stalinismo” (ossia la politica imperialista russa e l’asservimento al potere centralizzato). L’uso dell’immagine di Lenin con un filo d’erba in bocca (tratta dal film del regista sovietico) ha una sua importante rilevanza all’interno di questo tema. Preferendo un Lenin cinematografico a quello “vero”, rintracciabile nei documentari disponibili presso l’archivio di Italia-Urss, Pasolini aveva potuto proporre un’immagine altrimenti impossibile da trovare, quella di un Lenin steso sul fieno con in bocca un filo d’erba.

A “Pasolini serviva proprio quell’immagine (che nel suo campo semantico comprendeva anche il sé stesso di Casarsa) per rendere l’idea del leader della Rivoluzione russa quale intellettuale immerso nel mondo della Tradizione. Il topos del fiore o lo stelo d’erba in bocca accompagna l’opera di Pasolini dagli esordi di Atti impuri fino a Petrolio. È un topos nato in Friuli, nelle campagne di Casarsa, dove, negli anni Quaranta, Pasolini annota le immagini di fiori, erba, fieno, grano e alberi, che formeranno uno stabile nucleo iconico all’interno del suo immaginario e della sua ideologia. La natura friulana è il deposito uterino dei segni che dicono l’infanzia, la madre, la morte del fratello, l’omosessualità, il ballo, la musica, la religiosità e la perdita della fede, l’approccio erotico/pedagogico ai giovani, le questioni linguistiche, la filologia, la pittura, l’adesione al marxismo. La poesia. Da un punto di vista figurale (o meglio dell’immagine, come avrebbe detto Pavese), essa media due realtà: l’eros concreto e carnale dei giovani contadini (che diventerà poi quello dei sottoproletari romani e infine dei giovani del “Terzo Mondo”), e l’innocenza, forza politica, pura, barbara e sensuale, espressione del Passato. All’interno di questa più vasta figura, l’immagine del fiore, o dello stelo d’erba in bocca, fissa, in particolare, i segni dell’eros di cui è intriso il ruolo pedagogico che Pasolini si assume in Friuli, e dell’innocenza rivoluzionaria appresa durante le lotte contadine nelle campagne intorno a Casarsa che lo condurranno all’adesione al marxismo (come ricorda il poeta, «una volta che ebbi deciso di schierarmi a fianco di questi comunisti contadini, il resto fu facile. Col tempo, lessi i testi e diventai marxista»). Il fotogramma di Lenin all’interno della Rabbia va letto, dunque, attraverso il topos del fiore o dello stelo d’erba, che naturalmente, perde la sua valenza erotica, per enfatizzare quella legata al valore rivoluzionario dell’innocenza contadina, della Tradizione. Il primissimo piano del padre dell’Ottobre, che apre il lungo episodio “sovietico” del film, è accompagnato da parole molto chiare in tal senso – «Una nazione che ricominci la sua storia, ridà prima di tutto agli uomini l’umiltà di assomigliare con innocenza ai padri. La tradizione!». Il punto in cui Lenin appare rappresenta uno snodo fondamentale nel discorso ideologico della Rabbia pasoliniana, proponendo forse il punto più dolente e drammatico del pensiero del poeta negli anni Sessanta – quale cultura può essere davvero rivoluzionaria? Quella contadina e operaia, o quella intellettuale borghese? Lenin, da intellettuale (come Pasolini stesso), appartiene alla cultura borghese, quella che, come insegna Spinoza a Julian in Porcile (l’opera tanto odiata da Jutkevic), ha creato sia i capolavori della letteratura e del pensiero moderno sia il nazismo. Una cultura che ha ridotto in schemi logici l’«innocenza dei padri» […]. Come ripete spesso Pasolini, riprendendo proprio le parole di Lenin, i contadini sono anche dei piccolo-borghesi, che ambiscono a integrarsi nel mondo del Logos. La risposta è quindi complessa, ma può essere individuata nel cinèma del Lenin che scrive Stato e rivoluzione mentre gioca con un filo d’erba in bocca, come farebbe un ragazzo contadino o lo stesso Pasolini casarsese. La Tradizione è rivoluzionaria («la Rivoluzione salva il Passato»), ma perché lo sia effettivamente, deve essere coscienza del presente in progress, non suo vincolo. E deve essere innocente, cioè vitale e non modellizzante. Perciò appartiene sì al mondo dei padri, alla barbarie contadina, ma può (e deve) essere anche parte integrante del pensiero dell’intelligent borghese. Deve cioè conciliare le radici innocenti del Passato (il filo d’erba) con la costruzione culturale (intellettuale-borghese) del Progresso (la scrittura di Stato e rivoluzione), nella prospettiva di una rivoluzione che è «marcia» verso il «totale decentramento del potere», come voleva il pensiero di Lenin e di Marx che lo stato sovietico post-leninista ha tradito. Perché ciò accada, l’intellettuale borghese deve immergersi nell’umile innocenza della Tradizione. Il lungo stelo del fiore degli autoritratti della fine degli anni Quaranta, come il filo d’erba di Lenin, dicono proprio di questo. Pasolini ricerca quell’innocenza prima nei giovani contadini friulani, poi nei sottoproletari romani, e infine nei ragazzi del sud dell’Italia e del mondo, e se ne appropria, carnalmente e ideologicamente, come di una linfa vitale. Il Lenin di Rasskazy o Lenine si finge aiutante del contadino che lo ospita, si confronta con lui, con umiltà, imparando e insegnando. Il Pasolini di Casarsa (ma così sarà sempre, per il poeta) è nello stesso tempo pedagogo e discepolo dei suoi ragazzi e del loro mondo. Lenin lo è dei contadini che ne proteggono la fuga. Seppure privata dell’elemento erotico, imprescindibile in Pasolini, l’immagine dello statista russo sdraiato sul fieno mentre lavora alla teoria e alla prassi dell’Ottobre, è perciò, in qualche modo, un altro autoritratto del poeta, da accostare a quelli del ’46 e del ’47.”

Un anno dopo l’uscita della Rabbia, Pasolini avrebbe realizzato il Vangelo secondo Matteo. Il clima politico era ancora quello che aveva ispirato La rabbia, e, infatti, Pasolini aveva intenzione di dedicare il film alle figure emblematiche della svolta segnata dalla fine dello stalinismo, dal disgelo – Chruščëv, John Kennedy e Giovanni XXIII (alla cui figura, poi, Pasolini dedicherà effettivamente il suo film). Ma Il Vangelo secondo Matteo, film del 1964, precede anche, di un anno, il saggio, pubblicato su Empirismo eretico, che si intitola Il cinema di poesia, e si può affermare senz’altro che già si possano leggere nelle sue scene le riflessioni sulla lingua del cinema e la teoria degli imsegni. Particolare rilievo avrà, nel Vangelo, lo sguardo, l’imsegno degli occhi, e inizierà l’uso poetico della soggettiva. Pasolini cercherà una tecnica che tolga ogni elemento affine all’iconografia cattolica post-tridentina (non cristiana) del Cristo, e in questa ricerca approderà ancora una volta alla Russia. Nel 1964, in una discussione sul Vangelo, Pasolini aveva spiegato cosa aveva spinto lui, ateo e comunista, a realizzare un film su Cristo:

Non si tratta di un caso di coscienza nel senso comune che ha questa parola: molti si sono aspettati da me questo, alcuni con delusione, altri con speranza. A coloro che aspettavano con speranza, cioè ai preti e ai miei amici di Assisi, e a quelli che mi hanno aiutato nelle ricerche filologiche e storiche, rispondo che una caduta da cavallo, come loro speravano, una caduta da cavallo sulla via di Damasco non si è avuta, per il semplice fatto che io disarcionato da cavallo è da un bel pezzo ormai che lo sono, e trascinato, legato alla staffa, sbattendo la testa sulla polvere, sui sassi e sul fango della strada di Damasco! Quindi non è successo niente: non sono caduto perché ero già caduto e trascinato da questo cavallo, diciamo, della razionalità, della vita del mondo. Non si tratta di un caso di coscienza, dunque, particolare di questo momento specifico: è un unico caso di coscienza della mia vita. L’elemento irrazionalistico e religioso è un antico elemento che mi accompagna come uomo e come scrittore da quando sono nato, si può dire […] “Cristo mi chiama, MA SENZA LUCE”. Questi due versi potrebbero essere un’epigrafe che potrei mettere anche oggi al mio Vangelo. […] Il mio è un continuo stato di crisi. In questo senso il mio Vangelo non è altro che la manifestazione più clamorosa di questo mio stato di crisi, che ha avuto in questi ultimi anni, del resto, due testimonianze: una è appunto Il Vangelo ed è una concrezione clamorosa, appariscente, ben chiara e precisa; e l’altra è il mio ultimo libro di versi Poesia in forma di rosa che racconta il mio stato di crisi in maniera immediata, quasi diaristica. […] Con il finire degli anni Cinquanta, il benessere, il boom, la congiuntura, il cambiamento delle condizioni economiche e sociali in Italia, si è avuto un periodo che è stato chiamato della “desistenza”, del disimpegno, dello sbiadirsi della carica iniziale di questa razionalizzazione che ha le sue radici nella Resistenza, dello sbiadirsi e dello stingersi di questa carica in vari tipi di involuzione, in vari tipi di crisi.

Il Vangelo è, quindi, insieme a Poesia in forma di rosa, la prima risposta artistica alla crisi che si acuirà alla metà degli anni Sessanta, quella di Nuove questioni linguisiche. Sarà una risposta formale – l’inizio del cinema di poesia che comincerà ad influenzare anche il mondo letterario di Pasolini – ma anche, e soprattutto, una risposta politica. Tuttavia, la reazione politica alla crisi (personale, sociale e letteraria) dello scrittore, che coincideva con la scelta di rappresentare il Vangelo, era inspiegabile, per molti intellettuali, a destra e a sinistra. Pasolini sarà costretto a spiegare spesso che la lettura del Vangelo lo aveva portato ad una scoperta ideologico-letteraria, non ad una conversione. Lo scrittore, infatti, non negherà mai il suo ateismo. L’abbandono del cattolicesimo, che era coinciso con la perdita della fede, era stato un punto fermo anche della scelta marxista. Se lo scrittore si scaglierà sempre contro il dogmatismo di sinistra, non ammetterà, con la stessa forza, la mancanza di coerenza rispetto ai fondamenti del marxismo, dall’idea di classe all’ateismo. Ma, nel suo eretico amore per il mondo contadino, Pasolini avvertiva – anche esistenzialmente – l’esigenza di non rinnegare la religiosità e la sacralità che a quel mondo appartiene. Ed è proprio questo elemento “irrazionale” e “divino” che lo aveva affascinato nel Vangelo. Perciò, l’opera della crisi, nata dalla coscienza marxista di Pasolini, aveva anche risentito di questo “fascino dell’irrazionale”.

E vorrei poterle dire: sì, è un’opera marxista, ma non glielo posso dire. Io credo che nella mia coscienza di autore lo è (…) i farisei li vedevo come classe dirigente del tempo, la predicazione di Cristo l’ho vista come una rivoluzione fatta con i metodi che poteva impiegare un rivoluzionario allora, cioè dicendo (…) porgi l’altra guancia. E infatti è finito sulla croce. Quindi la mia lettura del Vangelo non poteva che essere la lettura di un marxista ma contemporaneamente (…) serpeggiava in me questo fascino dell’irrazionale, del divino, che domina tutto il Vangelo. Tutto il Vangelo è dominato da questo senso di qualcos’altro (…) E che il marxismo non può spiegare. Fino a un certo limite della coscienza, anzi, dentro tutta la mia coscienza è un’opera marxista (…) così i soldati di Erode (…) li ho vestiti un po’ da fascisti e li ho immaginati come delle squadracce fasciste o come i fascisti che uccidevano i bambini slavi buttandoli per aria. La fuga di Giuseppe e di Maria verso l’Egitto (…) L’ho pensata ricordandomi certe fughe, certi sfollamenti di profughi spagnoli attraverso i Pirenei. (…) Ora, le ripeto, nella coscienza, nel fare il film, l’ho fatto come lo può fare un marxista, con in più questo alone – che cercavo sempre di evitare perché io mi dichiaro e sono non credente -, questo alone metafisico, questo senso della morte, questo senso dell’assoluto che è appunto quell’elemento irrazionale che andrebbe ben precisato, lo so bene, ma che è difficile precisare e che dà al film qualcosa di più di quello che è (…) Io sono in continua evoluzione, e nessun pudore, nessun senso di malinteso realismo mi fermerà in questo: data la fondamentale, ormai, mia ideologia marxista che non potrà mai cambiare e dati gli elementi basilari della mia lotta.

Pasolini dovrà, naturalmente, anche spiegare il significato di questo “elemento irrazionale” che lo aveva attratto nel Vangelo, perché non venisse confuso con la fede:

in me questo elemento irrazionale (…) non si configura come speranza nell’aldilà, ma come angoscia e terrore, cioè come incertezza, ma non come speranza nell’aldilà

L’irrazionalità del Vangelo (come quella di ogni mito) non è consolatoria, ma terribile. Questo tratto di “terrore” rimarrà, nel Vangelo, nella violenza del Potere (nella strage degli innocenti, o nella decapitazione di Giovanni Battista e, naturalmente, nella Passione e nella Crocifissione); ma sarà anche un tratto della figura di Cristo, che non avrà nulla della pacificante iconografia cattolica “classica”. Pasolini dichiarerà di non aver voluto ricostruire storicamente il Vangelo, e, quindi, anche la figura di Cristo, che è un’idea, quella della coerenza che si fa terribilità e lucidità, che non concede a chi la segue pace rasserenante, ma lotta per la giustizia. Idea ben precisa, che era entrata nel film dopo che Pasolini aveva meditato la sua lettura assisana:

tutto il Vangelo di Matteo è bello (…) ma quello che mi ha colpito è l’implacabilità, l’assoluto rigore, la mancanza di qualsiasi concessione, l’essere sempre presente a sé stesso in maniera ossessiva, ossessionante, con un rigore addirittura folle, che ha la figura di Cristo nel Vangelo secondo Matteo. Cioè, la chiave di questo film è la frase di Cristo: “Non sono venuto a portare la pace ma la spada”. (…) la chiave in cui io ho fatto il film è questa, è questo che mi ha spinto a farlo.

L’anno prima della realizzazione del Vangelo, in un’intervista a “Il Giorno”, sempre a proposito di cosa l’avesse colpito più profondamente nella lettura di quel Vangelo, e di come avrebbe voluto realizzare la figura di Cristo, Pasolini aveva detto:

la figura di Cristo come la vede Matteo. (…) nulla mi pare più contrario al mondo moderno di quella figura: di quel Cristo mite nel cuore, ma “mai” nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo. Seguendo le “accelerazioni stilistiche” di Matteo alla lettera (…) la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione.

Scegliere l’interprete era, dunque, un compito delicato. Pasolini chiese a Evgenij Evtušenko di interpretare il ruolo di Cristo. Gli scrisse nel 1963:

Caro Evtushenko, non lo sai: ma è da un anno che penso a te. Per una ragione a dir poco sorprendente. Te lo dico con tutta semplicità, perché ormai mi pare di conoscerti di persona, anzi mi pare di avere in te un vecchio amico. Vorrei che tu facessi la parte di Cristo nel mio film sul Vangelo secondo Matteo. Tutto quello che ciò implica, non lo so perfettamente bene neanche io. […] Come mi è nata l’idea? Tu forse sai che io, non essendo un regista… serio, non cerco i miei interpreti fra gli attori: finora, per i miei films sottoproletari, li ho trovati, come si dice in Italia, “nella strada”. Per Cristo, un “uomo della strada” non poteva bastare: alla innocente espressività della natura, bisognava aggiungere la luce della ragione. E allora ho pensato ai poeti. E pensando ai poeti ho pensato per primo a te. Tutto il mondo troverà strano che io abbia scelto per Cristo proprio te, un comunista. Ma io non sono forse un comunista? Le ragioni ideali di questa mia opera sono molto complesse. Ma te le semplificherò trascrivendoti il primo cartello del mio film: “Questo film vuol contribuire, nella modesta misura consentita a un film, all’opera di pace iniziata nel mondo da Nikita Krusciov, Papa Giovanni e John Kennedy”. […]

Com’è noto, la cosa non avrebbe avuto seguito e, alla fine, sulla scelta ideologica avrebbe prevalso quella pittorica/iconografica, e per la parte di Cristo Pasolini avrebbe trovato un giovane spagnolo, Enrique Irazoqui, che ricordava i Cristi di Roualt esposti alla Cittadella di Assisi, le icone bizantine e i quadri di El Greco (pittore, tra l’altro, amato anche da Eizenštejn, che ha un suo ruolo importante nel Vangelo). Negli anni Sessanta – ma già negli anni Cinquanta – la poesia di Evtušenko si era distinta per la sua opposizione al falso e retorico ottimismo dell’epoca staliniana. Certo, il poeta non era esente da contraddizioni, sempre in bilico tra opposizione al potere e integrazione con esso. Ma, malgrado questo, (e, anzi, forse proprio per questo), “era la voce della sua generazione”, quella del disgelo. E nel disgelo Pasolini aveva creduto molto. Quindi, in Evtušenko, non aveva solo trovato l’ “espressività della natura” unita alla “luce della ragione”, ma anche il volto del più popolare tra i poeti della svolta sovietica, un comunista non stalinista, che si era rifiutato di aderire ai canoni del Realismo socialista che Pasolini aveva definito molto semplicemente e chiaramente un “errore” in La rabbia. Evtušenko, insomma, era l’imsegno del poeta marxista ma non stalinista, che racchiudeva in sé, come ogni poeta, l’innocenza, e, come ogni marxista, il senso della lotta per la giustizia sociale. Questi due tratti, nel mondo moderno del neocapitalismo, acquistavano un senso più profondo di alterità e di difesa dell’alterità. E proprio questi tratti Pasolini voleva attribuire per analogia al suo Cristo.

Ma il Vangelo contiene un altro importante richiamo alla Russia, e questa volta alla sua grande tradizione cinematografica – è la citazione dell’Aleksandr Nevskij di Sergej Ejzenštejn, e della sua colonna sonora, la Cantata omonima di Prokof’ev. Pasolini ha avuto uno strano rapporto con il padre del cinema sovietico (e per buona parte mondiale). Come avrebbe scritto in Quasi un testamento, lo detestava. Intervistato in un’inchiesta di “Paese Sera” sulla Corazzata Potëmkin, Pasolini risponde:

Io sono probabilmente uno dei pochi intellettuali che non amano Eisenstein. So bene che egli ha un grande talento, e che la sua figura è, forse, culturalmente, il vertice giganteggiante del Formalismo russo. Ma considero le sue opere tutte mancate, eccettuato Lampi sul Messico perché non è stato lui a montarlo (e chi l’ha montato l’ha fatto in modo sublimemente convenzionale). La Corazzata Potëmkin è proprio un brutto film, dove il conformismo con cui sono visti i personaggi rivoluzionari è quello della più faziosa propaganda, ma senza il gusto formale dell’affiche (in questo, allora, era veramente grande Dziga Vertov). I marinai della Potëmkin si muovono come burattini “positivi”. Non basta aver ragione ed essere eroi per essere vivi. Eisenstein si libera da questo suo servilismo propagandistico solo nella famosa “sequenza della scalinata”: lì esplode il suo formalismo (oltre che nel senso storico del termine, anche in quello usuale), e la sequenza è indubbiamente bellissima: ma è proprio essa che mette in luce tutta la piatta e ricattatoria insincerità del resto del film (come la stupenda sequenza dei Cavalieri Teutoni mette in luce la filodrammaticità ridicola di tutto il resto dell’Aleksandr Nevskij, ecc.).

Quest’ultima osservazione ci riporta al Vangelo. Pasolini utilizza un brano dell’Aleksandr Nevskij, Cant. Op. 78 di Sergej Prokof’ev in due scene del Vangelo: la strage degli innocenti e la decapitazione di Giovanni Battista. Nella prima, è evidente la citazione sia della scena della battaglia sul lago ghiacciato dell’Aleksandr Nevskij (probabilmente quella a cui si riferisce Pasolini quando parla della “stupenda sequenza dei Cavalieri Teutoni”) sia di quella della conquista di Pskov, con la strage della popolazione (e dei bambini) compiuta sempre dai cavalieri Teutoni. Nel Vangelo, i soldati, pronti a lanciarsi sul villaggio per uccidere i bambini, sono schierati come i cavalieri di Aleksandr Nevskij sulle alture intorno al lago; i primissimi piani dei soldati russi ricordano quelli dei soldati di Erode. E infine, la violenza della strage che i soldati di Erode compiono, evoca immediatamente quella dei Teutoni a Pskov.

Nella scena della decapitazione di Giovanni Battista, solo la colonna sonora ci ricorda che anche lì aleggia la presenza di Ejzenštejn. Va ricordato che nel Vangelo la musica ha un ruolo strutturale. Come Pasolini stesso scrive nella prima stesura della sceneggiatura a proposito della scena dell’Annunciazione – “Voce della Profezia (con la musica di Bach, che sempre, motivo ritornante, l’accompagna)”. E a questo tema Pasolini aggiungerà anche quello “della morte” sempre legato alla musica di Bach. Si potrebbe dire così che il “motivo ritornante” dell’Aleksandr Nevskij di Prokof’ev sia legato alla voce delle atrocità del Potere. Le due scene del Vangelo hanno in comune un elemento visivo che esalta e conferma quella Voce – lo sguardo dei soldati. Nel caso della scena della strage degli innocenti, Pasolini stesso evidenzia, nella sceneggiatura, l’importanza dei “primi piani dei soldati assetati di sangue”, ispirati al “gusto ‘espressionistico’ per es. di Eisenstein”. Ma anche nei soldati che decapitano Giovanni Battista, pur senza indicazioni nella sceneggiatura, ritroviamo lo stesso sguardo. Che l’imsegno degli occhi sia uno dei più importanti in Pasolini, lo rivela il peso che esso ha nel marcare la figura della madre (basti pensare agli occhi della Callas/Medea, della Mangano/Giocasta e, infine, di Susanna Pasolini/Madre di Dio sotto la croce). Non meno importante era lo sguardo nell’insegnamento di Mejerchol’d (maestro di Eizenštejn), sguardo che è centrale nelle icone (il regista russo era, come Pasolini, pittore e studioso di pittura, e, come per Pasolini, la pittura ebbe un ruolo fondamentale nel suo cinema).

Così Mejerchol’d parla degli occhi in un attore:

E’ dagli occhi che si distingue un buon attore da un cattivo attore: gli occhi di un cattivo attore non si vedono mai. Gli occhi vanno allenati, concentrando lo sguardo su determinati oggetti, se l’occhio tende a scivolare via dall’oggetto, allora è la forza della volontà che deve tenerlo al suo posto.

Indubbiamente, negli sguardi degli attori di Eizenštejn, allenati come il regista aveva appreso da Mejerchol’d, il formalistico uso degli occhi è più evidente che nelle – peraltro splendide – facce di ‘borgatari’ dei soldati del Vangelo. Tuttavia, l’intensità non è inferiore, e la citazione dall’Aleksandr Nevskij rispetta il pathos della fonte, anche se in una versione più neorealistica. Le scelte formali ispirate a Ejzenstejn, ci conducono anche, inevitabilmente, a una scelta ideologica. I soldati che compiono la strage degli innocenti portano un copricapo che ricorda il fez fascista e sono condotti da cavalieri che ricordano molto i Cavalieri Teutoni dell’Aleksandr Nevskij, figura dei nazisti. L’Aleksandr Nevskij (film del 1938) è esplicitamente opera di propaganda antinazista, che esalta la guerra di resistenza ai Teutoni e alla Chiesa Latina da parte del principe Aleksandr Nevskij, eroe nazionale russo, come metafora della guerra di resistenza al nazismo. Nella prima versione della sceneggiatura del Vangelo, Pasolini scrive in nota alla scena della strage degli innocenti:

riprendere le atrocità dei corpicini uccisi, ricordando le atrocità analoghe accadute durante l’ultima guerra, nei campi di sterminio, ecc.

Stessa operazione compie Ejzenstejn nella scena della conquista di Pskov.

Nell’intervista a Jean Duflot, poi pubblicata in volume con il titolo Il sogno del centauro, Pasolini dice, a proposito dei cambiamenti del cinema, che “Solo trent’anni fa, il cinema nasceva direttamente all’interno di un patrimonio culturale tradizionale; in altre parole, all’interno della letteratura, della pittura, delle arti figurative. Prendiamo per esempio Eisenstein”. Il Vangelo è un film che rientra pienamente in questa tradizione, e la presenza di Ejzenstejn, accanto a quella della pittura amata e studiata da Pasolini, lo testimonia. In questa tradizione l’elemento civile è esaltato dalla pratica che Pasolini chiama pastiche – il gioco delle fonti strania e giustifica allo stesso tempo il contenuto politico. L’uso del cinema sovietico, e il richiamo ad esso, ha un ruolo politico importante in Pasolini. Il riferimento al Formalismo come vetta intellettuale della Russia rivoluzionaria e immediatamente post-rivoluzionaria (gli anni Venti che in Pasolini diventano figura dell’avanguardia storica che si contrappone, per grandezza formale e forza dell’impegno civile, alla neoavanguardia degli anni Sessanta), e dunque a Ejzenstejn, all’interno di un film come il Vangelo fa capire quanto questo film sia intriso di impegno civile. Cristo è un rivoluzionario che i Farisei borghesi (e fascisti) debbono uccidere, come avevano fatto con i loro oppositori i fascisti italiani, i nazisti tedeschi, ma anche i franchisti e gli stalinisti.

Nella recensione ai Taccuini di Aleksandr Dovženko, Pasolini scrive:

offro alla meditazione dei giovani marxisti anche il libro di un regista sovietico che, provenendo dagli anni Ruggenti del formalismo russo, ha dovuto vivere appunto il periodo del culto della personalità e del realismo socialista: Aleksandr Dovženko. Strano, ma anche a lui che faceva film (quei pochi che riusciva a fare) sul nativo mondo ucraino, affrontando i temi della Rivoluzione attraverso la naturale concretezza realistica del poeta, da una parte, e dall’altra attraverso la squisitezza tecnica, così asciutta, netta, inventiva, priva di ogni specie di sentimentalismo, anche formale, della Scuola formalistica – anche a lui, e attraverso la viva voce di Stalin in persona, veniva consigliato di entrare in fabbrica e di vedere in un operaio comunista che vi lavorava l’unico modello umano positivo possibile. Così il povero Dovženko – come il suo amico Majakovskij – come i suoi colleghi più autorevoli Ejzenštejn e Pudovkin – è stato costretto per tutta la vita a difendere la sua ideologia formale adattandosi ad accettare discussioni tanto interminabili quanto cretine. Dall’altezza intellettuale degli anni Venti, in cui si era formato, è stato costretto a degradarsi a un livello intellettuale di una bassezza penosa, tutto fatto di luoghi comuni, di ricatti accademici, di confronti puerili. […]  Il dover difendere il minimo ovvio diritto possibile di un autore, contro un’ignoranza di carattere, sì, franchista o fascista, senza per questo disperatamente venir meno alla fede comunista (rinunciando a qualsiasi specie di «gesto») vale certamente la Siberia; se non è peggio.

In questa nota su Dovzenko è la sintesi del ruolo di un cinema, quello sovietico, che, in tutte le sue sfumature e contraddizioni ideologiche, rappresenta un mondo culturale e simbolico centrale in Pasolini, fino alle sue ultime opere. Nel cinema sovietico, come nella intera cultura russa, Pasolini cerca, scava, rielabora e assimila, ininterrottamente, quella che Dostoevskij chiama “pocva”, la zolla, nella quale l’intellettuale si confronta con la Tradizione e la Giustizia (sociale), per affermare la Bellezza e l’Innocenza dell’esperienza umana, affrancata dall’ideologia dell’accumulo e dalla sua violenza.

francescatuscano@gmail.com

 

L'autore

Francesca Tuscano
Francesca Tuscano
Francesca Tuscano è nata il 7 settembre 1964. Laureata in Lingua e letteratura russa e in Italianistica, addottorata in Letterature Comparate, si occupa soprattutto di storia dei rapporti tra cultura russa e cultura italiana, sui quali ha scritto diversi saggi. Ha tradotto dal russo testi di B. Akunin, R. Jakobson, Ju. Lotman, V. Chlebnikov, M. Kuzmin, A. Blok, A. Achmatova, N. Kaplan, e saggi di letteratura critica su Pasolini e Leonardo da Vinci (quasi tutti ancora inediti in italiano). Ha pubblicato una monografia sulla Russia nella poesia pasoliniana (La Russia nella poesia di Pasolini, Book Time 2010). Ha pubblicato le raccolte di poesie M.Y.T.O. (Era Nuova 2003), alla quale sono seguite La notte di Margot (Hebenon-Mimesis 2007), Gli stagni di Mosca (La Vita Felice 2012) e Thalassa (Hebenon-Mimesis 2015). Ha scritto anche libretti d’opera e testi teatrali (tra i quali Come si usano gli articoli, pubblicato in I diritti dei bambini, Rubbettino 2005). Nel 2016, per il Mittelfest di Cividale del Friuli, è stata messa in scena l’opera lirica Menocchio su suo libretto (musica di Renato Miani).