Interventi

Bagliori di opposizione: Mario Praz

Il 15 gennaio del 1938 usciva sulla terza pagina del «Corriere della Sera» un articolo dello scrittore Bruno Cicognani dal titolo parlante: Abolizione del “Lei”. L’autore si proponeva infatti «lo sradicamento e l’abolizione di un uso che non solamente urta contro la legge grammaticale e logica, ma è testimonianza […] dei secoli di servitù e d’abiezione. Dare del “lei”: l’uso è così inveterato che la gente non avverte più che cosa codesto significhi, che cosa implichi: non ci ragiona più sopra: è così, sembra naturale che sia così: come potrebb’essere in altro modo? […]. Perché quest’aberrazione grammaticale e sintattica non fu che un portato dell’incortigianamento, dell’artificiosità dei costumi, dei sentimenti, delle idee, delle parole venutaci dalla Spagna di allora». Cicognani ricorda che «Roma repubblicana non aveva conosciuto che il “tu”. La Roma cesàrea poi conobbe il voi». Da lì la proposta di tornare «all’uso di Roma, al “tu” espressione dell’universale romano e cristiano. Sia il “voi” segno di rispetto e riconoscimento di gerarchia».

La tradizione vuole che questo articolo suscitasse l’entusiasmo di Benito Mussolini, il quale non solo convocò Cicognani per complimentarsi con lui, ma incoraggiò anche il passaggio al “voi”, coinvolgendo nell’impresa alcuni linguisti, tra i quali si può annoverare Bruno Migliorini, autore dell’articolo Il Lei in soffitta, apparso nella rubrica Lingua e politica del numero di marzo della rivista quindicinale «Critica fascista» (XVI, 1938, 9, p. 136), diretta da Giuseppe Bottai.

Queste le linee guida espresse da Migliorini: «Come ogni piano regolatore per l’assetto d’un centro urbano comprende demolizioni e ricostruzioni, così le nuove forme di trattamento (o, come dicono i linguisti di “allocuzione”) comprendono una demolizione e una ricostruzione. È abolito il lei; ed è sistemato in modo nuovo l’uso del voi e del tu. La seconda norma è per ora formulata solo nelle linee generalissime: tu = “cameratismo”; voi = “superiorità gerarchica”».

Ma non tutti gli accademici del periodo dovettero pensarla allo stesso modo, a giudicare da una lettera del 20 aprile 1938 inviata da Mario Praz a Michele Barbi. Essa è l’ultima di un ristretto corpus di missive, oggi conservate nel “Fondo Barbi” della Biblioteca della Scuola normale superiore di Pisa, che Praz spedì al grande filologo a partire dal 15 luglio 1932. In queste lettere che spaziano sugli argomenti più vari – dal Cavalcanti di Ezra Pound (poi stroncato su «La Stampa» del 13 agosto 1932 da Praz) a John Dryden, da Alciato ad Andrea Orcagna e così via), egli chiede informazioni all’illustre professore, dandogli sempre del “lei”. All’opposto quella del 1938  si caratterizza per l’uso del “voi”: «Caro Professore, avrei dovuto mandarvi prima di ora la noterella sull’articolo del Foligno; non l’ho fatto perché gravato di troppe occupazioni, che solo per queste vacanze pasquali m’hanno dato un po’ di respiro. Aggiungo in compenso, una nota su un estratto di J. E. Shaw che m’è direttamente pervenuto; ma dubito che di quest’ultimo vogliate occuparvi voi stesso, dacché è soprattutto a vostra intenzione che lo Shaw scrive».
Sembrerebbe a tutti gli effetti che Praz si sia allineato alle posizioni del periodo, ma il finale non lascia margine a dubbi sul fatto che Praz stia ironizzando su questa tendenza: «Scusate il tono un po’ arcaico di questa mia lettera, ma il novellamente ripristinato “voi” mi ci invita».

Un bell’esempio di come il dissenso linguistico si possa trasformare in amara ironia, alla stessa stregua delle burle del regime fascista che Praz realizza con alcune straordinarie parodie dagli Ossi di seppia dell’amico Eugenio Montale. In attesa dell’edizione critica dei componimenti che sto approntando con Antonio Ciaralli, qui di seguito riproduco, a livello esemplificativo, Spesso il bene di vivere ho incontrato, contraffazione di Spesso il male di vivere ho incontrato:

Spesso il bene di vivere ho incontrato
era il nuovo inquadrato che s’orgoglia,
era l’accumularsi di quei fogli
da mille, era il salario assicurato.

Viver non seppi fuori del prodigio
che schiude la divina Obbedienza
era la statua nella sonnolenza
del saluto, impassibile, col braccio alto levato.

 

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo ingorgato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori che il prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

 

Anche l’ironia pungente può essere una valida critica al regime fascista.