L'arte del tradurre

La nascita dell’arte del tradurre: Laura D’Angelo conversa con Johnny L. Bertolio

Il De interpretatione recta, il primo sistematico saggio sulla traduzione apparso in Occidente, è considerato dalla critica il manifesto intellettuale umanista e un’opera pioneristica della filologia del Quattrocento italiano. Il trattato, redatto da Leonardo Bruni intorno al 1424 in forma di epistola e giunto a noi forse incompleto, è oggetto di un volume monografico pubblicato da Johnny L. Bertolio per l’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo dal titolo Il trattato De interpretatione recta di Leonardo Bruni, in «Fonti per la storia dell’Italia medievale – Antiquitates», n. 52, Roma, 2020.   

Johnny L. Bertolio si è diplomato in Discipline filologiche, linguistiche e storiche classiche alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il Ph.D. alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Ha pubblicato diversi articoli e saggi critici in varie riviste, tra cui «Rinascimento», «Giornale storico della letteratura italiana» e «Lettere italiane». Tra i suoi interessi di ricerca prevalgono i temi ruotanti intorno alla produzione letteraria di Giacomo Leopardi e alla ricezione del classico in letteratura.

Il volume da Lei curato è fondamentale nel panorama degli studi medievali e rinascimentali, in particolare per quanto concerne l’approfondimento critico di un’opera che pone la centralità della traduzione interpretativa e ne codifica gli aspetti teorico-metodologici all’insegna di un vero e proprio genere artistico di dignità letteraria.

In effetti è proprio questo uno degli elementi di maggiore novità del trattato bruniano: rispetto alle versioni precedenti, in genere al servizio della scuola, dei commenti aristotelici o delle discussioni filosofico-teologiche, il De interpretatione recta fa della traduzione un vero e proprio genere letterario, con le sue regole, i suoi modelli di riferimento, ovviamente classici, persino la sua etichetta.

«Storia della tradizione e critica del testo»: l’approccio filologico, per citare una importante opera di Giorgio Pasquali, è fondamentale nel determinare il metodo dello studioso, che è, come direbbe Dionisotti, “storia della tradizione dei testi”. Il processo, interno ed esterno al testo, non può prescindere dalla storia della sua tradizione. Che cosa ci può dire al riguardo per il De interpretatione recta? Quali sono le fasi della sua fortuna o sfortuna nel tempo?

Se dovessimo giudicare il successo del trattato dal numero di manoscritti e di edizioni a stampa, rimarremmo delusi. Una dozzina di codici, alcuni dei quali di epoca moderna, e nessun incunabolo né cinquecentina, forse perché, più che essere incompleta, l’opera non fu mai divulgata dall’autore, che in altri casi dimostrò un sorprendente attivismo promozionale. Questo fu forse dovuto al fatto che l’occasione polemica alla base della riflessione bruniana (ovvero la critica alla sua traduzione dell’Etica nicomachea di Aristotele da parte degli ambienti religiosi) aveva perso di attualità oppure chissà… Quel che è certo è che l’opera fu sfruttata almeno da un altro umanista, Giannozzo Manetti, che se ne appropriò senza nessuno scrupolo per il diritto d’autore. Poi silenzio per secoli, fino alla sua riscoperta alla fine dell’Ottocento.

Ripercorrendo le fasi di assimilazione della cultura greca in ambito latino, la ratio latine vertendi guarda alla produzione greca come a un serbatoio culturale da preservare e da far proprio, cui attingere nella misura dell’oraziano Graecia capta ferum victorem cepit (Epistole, II, 1, 56). In questa accezione, la traduzione latina nell’antichità è intesa come opera artistica e letteraria, il cui scopo è rendere fruibile il testo al lettore: da Livio Andronico traduttore d’Omero alle traduzioni di Terenzio e Plauto delle tragedie di Menandro, l’antichità latina sedimenta la pratica di un approccio al testo e un’interpretazione poco fedele all’originale ma valida come prodotto artistico e contenutistico (oggi parleremmo di plagio d’autore).

È affascinante che all’origine di molte delle letterature occidentali ci sia di fatto una traduzione: a Livio Andronico potremmo aggiungere le varie traduzioni della Bibbia, di Wulfila in gotico, di Cirillo e Metodio in slavo, fino alla versione di Lutero in tedesco, opere che ebbero un impatto politico e sociale oltre che culturale enorme. Soprattutto in ambito sacro, la fedeltà all’originale era il criterio-guida, ma gli umanisti come Bruni avevano una considerazione non inferiore dei testi classici, soprattutto di quelli filosofici, considerati pienamente letterari. Per questo, almeno nel caso di Bruni, bisogna stare attenti a opporre traduzione “letterale” a traduzione “artistica”: nel De interpretatione recta le due operazioni coincidono. L’unica differenza è fra traduzione sbagliata e traduzione corretta, potenzialmente in qualunque scambio linguistico, non solo dal greco al latino. 

Nel De optimo genere oratorum (V, 14) Cicerone evidenzia gli strumenti di una traduzione artistica, conforme all’originale nella misura della comprensibilità del testo, al pari di un orator e non di un interpres: «Converti enim ex Atticis duorum eloquentissimorum nobilissimas orationes inter seque contrarias, Aeschinis et Demosthenis; nec converti ut interpres, sed ut orator» (“Ho infatti tradotto dai due più eloquenti oratori attici due discorsi, notissimi e antitetici, di Eschine e di Demostene;  non ho tradotto da interprete, ma da oratore”). Quanto conta per Leonardo Bruni la conoscenza dell’opera di Cicerone e della tradizione classica nell’approdare alla teoria di una corretta traduzione? 

Credo che Bruni, come Petrarca prima di lui, vedesse in Cicerone quello che noi vediamo nel protagonista di un romanzo coinvolgente: si identificavano totalmente in lui, fino a sentirsene posseduti, in una perenne gara con i predecessori. Bruni arriva a produrre una versione latina delle due orazioni di Demostene ed Eschine (quelle di Cicerone erano e sono perdute) circolante con la “prefazione” di Cicerone. Un’operazione editoriale straordinaria quando ancora non esisteva la stampa! Nel 1421, poi, la scoperta del testo integrale delle opere retoriche di Cicerone arricchì la biblioteca degli umanisti e allargò la loro prospettiva. La ricerca dei manoscritti, infatti, si combinava con una forte consapevolezza culturale, che diventava un’arma contro i bigotti e chi, soprattutto tra gli Ordini religiosi, non vedeva di buon occhio la lettura degli autori pagani.

L’Epistola a Pammachio di Girolamo si sviluppa come un saggio sul metodo che deve seguire il buon traduttore, e può essere considerata un punto di riferimento importante per l’opera dell’Aretino. In quale rapporto si pongono invece Platone e Aristotele, definiti i «duo philosophiae soles»?

Platone e Aristotele erano due punti di riferimento per Bruni sia come autore sia come uomo di Stato, a lungo cancelliere di Firenze come Salutati prima di lui. Gli umanisti, però, al Platone e all’Aristotele morale, sfruttati dalla Scolastica, opponevano il Platone delle Lettere e l’Aristotele della Politica. In realtà, l’esaltazione di Bruni delle qualità oratorie degli scritti aristotelici poggiava su un equivoco: quel che abbiamo dello Stagirita non sono infatti le opere “pubblicate”, già esaltate da Cicerone, ma gli appunti per i corsi al liceo, più lunari che solari dal punto di vista dello stile… Eppure Bruni vedeva negli antichi una fonte di ispirazione così potente da paragonarli, forse con una punta di ironia, agli insegnamenti degli apostoli Pietro e Paolo.

Il precetto del verbum verbo rimanda all’Ars poetica di Orazio, ma diventa fondamentale in questo periodo nell’ambito di una individuazione dei fondamenti della corretta traduzione. Come si pone l’Aretino in riferimento agli autori medievali, primi fra tutti gli esponenti della Scolastica?

Bruni disprezzava quello che noi oggi classifichiamo come latino medievale, lo considerava “barbaro” come i popoli d’oltralpe e d’oltremanica che ne facevano uso. Era però un luogo comune: se confrontiamo le traduzioni bruniane con, ove presenti, quelle medievali (per esempio di Aristotele), scopriamo che l’umanista si è limitato a una ripulitura di facciata, molto meno rivoluzionaria di quanto dichiarato a parole. Bisogna aspettare Marsilio Ficino, nella seconda metà del Quattrocento, per avere integralmente un nuovo Platone.

Nel volume sostiene che «l’esame autoptico della tradizione manoscritta del De interpretatione recta consente di rilevare una dedica esplicita ad Bertum Senensem (peraltro non sviluppata in una prefazione)». Che cosa può dirci in proposito? Chi è il Berto Senese della dedica?

La dedica è stata aggiunta in un secondo momento forse da Bruni stesso sulla sua bella copia, il che farebbe presupporre almeno l’intenzione di inviarla a un destinatario. Il più famoso “Berto di Siena” negli anni Venti del Quattrocento era un collega di Bruni, ovvero il cancelliere senese Berto Ildebrandini. Un uomo coltissimo, al centro di un vivace scambio di manoscritti, che aveva qualche conoscenza del greco antico e che proprio per questo potrebbe aver avuto l’onore della dedica. In una lettera indirizzata al Comune di Siena prima di incontrare Bruni a Firenze, Berto lo definisce “a me per antico più che padre”. Parole emozionanti, con tanto di citazione dantesca, che rivelano una lunga frequentazione, e non solo professionale. Dopo tutto, i litigiosi umanisti erano anche capaci di grandi amicizie.

laura.dangelo86@gmail.com

 

 

 

 

 

 

 

L'autore

Laura D'Angelo

Laura D’Angelo è scrittrice e poetessa. Dopo la laurea con lode in Lettere classiche e Filologia classica, consegue un Dottorato di ricerca in Studi Umanistici. Docente di materie letterarie, pubblica articoli accademici su riviste scientifiche e saggi in volumi collettanei, approfondendo lo studio della letteratura e della poesia contemporanea. Giurata in diversi Premi nazionali di poesia e narrativa, partecipa a convegni internazionali e svolge attività di critica letteraria, curando presentazioni di libri e interviste. Ha scritto per diverse testate giornalistiche ed è autrice di riviste culturali e letterarie. Tra i suoi testi scientifici: Dante o dell’umana fragilità, in «Sinestesieonline», a. X, n. 32, 2020; L’Isottèo di Gabriele D’Annunzio e la poetica della modernità, in Un’operosa stagione. Studi offerti a Gianni Oliva, Carabba, Lanciano, 2018; Gabriele D’Annunzio e le case della memoria, in Memories &Reminiscences; Ricordi, lettere, diari e memorialistica dai Rossetti al Decadentismo europeo, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Chieti-Vasto, 20-21 novembre, 2019, in «Studi medievali e moderni», a. XXIV – n. 1/2020; Music and Soul: Gabriele D’Annunzio and his Abruzzo Homeland, in Bridges Across Cultures, Proceedings, Vasto, 2017; Dante tra web e social network, in «Studi medievali e moderni», a. XXV – n. 1-2/2021; L’etica dell’acqua, in «Gradiva», International Journal of Italian Poetry, n.62/2022,  ed. Olschki, Firenze; La “Prima antologia di poeti dialettali molisani” di Emilio Ambrogio Paterno, in «Letteratura e dialetti», vol. 16, 2023; Da “Cuore” a L’appello” per una scuola dell’inclusione, in «Nuova Secondaria Ricerca», n.8, aprile 2023. Ha pubblicato inoltre il volume di prose poetiche Sua maestà di un amore (Scatole Parlanti, 2021), semifinalista al Concorso di Poesia “Paolo Prestigiacomo” e il volume Poesia dell’assenza (Il Convivio editore, 2023). Sta recentemente approfondendo lo studio della poesia e della letteratura molisana.