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Tradurre poesia nel segno dell’imitazione

John Keats amava le traduzioni, ricorda Francesco Rognoni introducendo Fammi lezione, Musa (Contatti, 2021) di Francesco Dalessandro, opera che, intitolata dalla ripresa di un prezioso invito alla Musa ispiratrice “Read me a lesson, Muse”, raccoglie le versioni dei sonetti, della ballata La Belle Dame sans Merci e di Tre poesie per Fanny del grande poeta inglese. Le accompagnano chiare presentazioni e una Nota sul leggere e tradurre Keats.  Dalessandro si è dedicato altre volte alla sua poesia con risultati assai felici per consonanza ed eleganza, qualità che qui si rivelano pienamente tra fedeltà e libertà, esattezza e armonia, uso del verso libero e di una “lingua media, d’uso ma non povera” e di “una sintassi lineare, senza troppe torsioni”.  Francesco Dalessandro è poeta e le sue traduzioni non possono che avere il passo e il tono della sua poesia, nell’”inarcatura” in particolare, cifra stilistica del romanzo in versi L’osservatorio.  Ma non solo. Gli incipit, ad esempio, riescono a restituire subito l’emozione del verso inglese, ora con un raddoppiamento (“The poetry of earth is never dead” // “La poesia della terra mai, mai muore”) ora con un vezzeggiativo (“This pleasant tale I like a little copse” // “La gradevole storia è come un boschetto”) ora agendo su aggettivi (“Son of the old moon -mountain African!” // “Figlio d’antichi, lunari monti africani”) o impreziosendo qualche lemma e usando l’enjambement (“It keeps eternal whispering around/Desolates shores, and with its mighty swell / Gluts twice ten thousand Caverns, till the spell / of Hecate leaves them their old shadowy sound” // “D’un murmure immortale avvolge lidi / desolati e il riflusso possente ricolma / grotte a mille finché l’incanto d’Ecate / le lascia al loro antico oscuro suono”).

L’autonomia del tradurre, della quale si parla in un saggio pubblicato sulla rivista OBLIO 42/43 (Autonomia del tradurre in Attilio Bertolucci: Toulet, Keats, Wordsworth e T.S. Eliot), è componente importante della versione poetica, come ben sottolineò un fine poeta traduttore come Pietro Tripodo, che, in uno scritto pubblicato su “Nuovi Argomenti”, luglio-settembre 1995, sulle Imitazioni di Bertolucci, coniugò sensibilità, ascolto musicale e ragioni poetiche perché il testo d’arrivo “sia una creazione a sé, con proprie leggi interne, formali e insieme spirituali analoghe oppure dissimili da quelle della fonte”. D’altra parte è a Bertolucci, unitamente a Leopardi e a Lowell, citati dal poeta parmigiano, che Dalessandro si richiama, riconoscendogli quelle modulazioni e quell’emozione poetica che sono anche sue, come appare dalla nuova raccolta Dediche e imitazioni (Nota al testo di Massimo Morasso, Interno Libri, Latiano 2021).

Le Dediche sono componimenti affettuosi, nati per occasioni e dedicatari diversi, ma subito “affinati”, come l’autore scrive nella Postilla, e divenuti poesia della memoria, d’incontri d’amicizia, o poesia della città, di quella Roma viva e mutevole allo sguardo commosso e ammirato di Dalessandro. Aperte dalla Dedica a Domenico Adriano, poeta sodale, le liriche possono intrecciare il delicato profilo della donna (a Lydia Alfonsi, / indimenticabile “Pisana”, estate 1969) alla colonna sonora del treno del soldato in licenza; il ricordo letterario della Pisana di Ippolito Nievo alla durata di un amore lontano, agli interrogativi gozzaniani sull’illusione e sul ristoro del tempo. O possono divenire Poesie leggere (da W.C. Williams) per Giulia Napoleone, che nei “fiori e fiori / che puoi spezzare come/hai sempre fatto” del componimento rappresentano i punti, quasi universi microscopici, dell’arte di Giulia, un’arte che, in Il respiro delle stelle, è “fiorito pianeta nel respiro / di stelle / durature e distanti”.

Giulia Napoleone
Giulia Napoleone

O, ancora, possono essere versi ispirati ai mesi, al riapparire delle stagioni (Quiete invernale; Tramonto; Finale; Le rose) o legati alla natura, come nell’Anima vegetale, lirica che, intessuta la foglia di “barbagli del sole”, di “sangue che gorgoglia” e di “fuoco”, è dedicata all’artista Enrico Pulsoni, mentre per Maria Clelia Cardona “Bianchi petali fluttuano nell’acqua” della Canzone opaca (maniera cinese), turbati da “neri pensieri”.

Enrico Pulsoni
Enrico Pulsoni

Non sempre è sereno il dialogo di Dalessandro con la vita; ombre lo scuriscono per il sentimento del passare del tempo, del transito dei giorni. Ma sempre il tocco dello stile è di grande naturalezza, i temi sono declinati con elegante nitore, appena sfiorato da un pedale più intenso, segnato dalla musica dell’anima malinconica. La stessa naturalezza ed eleganza si ritrova nelle Imitazioni, precedute da una sezione intitolata Dal latino (di Properzio e Tibullo). Sono riscritture dai grandi poeti elegiaci e permettono a Dalessandro di sviluppare i temi dell’amore, della gelosia e dell’abbandono, dell’intensità di un affetto, della giovinezza fuggevole attraverso versi che, pur restando fedeli agli originali, trasferiscono il sentimento degli antichi poeti nel clima emozionale del poeta contemporaneo. Basti, non solo accennare ai titoli già suoi, dati ad alcuni componimenti di Properzio – Amore fanciullo e La fonte del canto – o di Tibullo – Amore e disamore, La giovinezza, Spergiuro, Inganni -, ma osservare l’inserimento del discorso diretto, che anima l’incipit dell’elegia 5 del libro I, sì che “Asper eram et bene discidium me ferre loquebar / At mihi nunc longe gloria fortis abest” diviene “Dicevo fieramente/ «Vuoi lasciarmi? / Fa’ pure!» Ora mi mordo / le labbra né son più così sicuro”, con una contrapposizione assai decisa creata da quel plastico “mi mordo le labbra”. E ancora si noti come, traducendo i versi “Ipse ego velatus filo tunicisque solutis / Vota novem Triviae nocte silente dedi. / Omnia persolvi”, egli crei un quadro di amore duraturo e di vita quotidiana con immagini assai suggestive, che il ritmo fuso delle inarcature sottolinea: “La sognavo diversa / la nostra vita: uniti / nelle gioie domestiche / e nei piccoli guai di tutti i giorni / nel piacere la notte. / Ma poi tutto è cambiato!”. Così procede il nostro poeta nelle altre Imitazioni, da Adriano, da Damaso Alonso, da Wordsworth, da Frost, da Lowell, da Creeley, da Malcolm Lowry e Dylan Thomas; inoltre, scegliendo di comporre “alla maniera” cinese o persiana, rivela e conferma il valore dell’indipendenza poetica. In verità, come scrisse Attilio Bertolucci dedicandomi Imitazioni nell’ormai lontano 1990: “queste che sono, /un po’/ anche mie poesie”, le Imitazioni di Francesco Dalessandro sono sue poesie, sì che egli può dire, con Leopardi dallo Zibaldone, 4373: “Il poeta non è imitatore se non di se stesso”.

gabriella.palli@tiscali.it

 

 

L'autore

Gabriella Palli Baroni
Gabriella Palli Baroni laureata in Lettere Classiche a Pavia, allieva di Lanfranco Caretti, perfezionata a Chicago e a San Diego sul pensiero scientifico rinascimentale e su Machiavelli, vive a Roma. Scrittrice e saggista, è studiosa di letteratura dell’800 e del 900 ed è critica di letteratura contemporanea. Collaboratrice di «Strumenti Critici», «L’Illuminista», «Il Ponte» e di altre riviste italiane e straniere, si è dedicata in particolare ad Attilio Bertolucci, del quale ha curato il Meridiano Mondadori Opere, le prose Ho rubato due versi a Baudelaire, gli scritti sul cinema e sull’arte, e a Vittorio Sereni, del quale ha curato i carteggi con Bertolucci (Una lunga amicizia. Lettere 1938-1983, Garzanti 1993) e con Ungaretti Un filo d’acqua per dissetarsi. Lettere 1949-1969, Archinto, 2013). Ha inoltre pubblicato l’antologia Dagli Scapigliati ai Crepuscolari (Istituto Poligrafico dello Stato 2000) e Tavolozza di Emilio Praga (Nuova SI, 2008). È autrice di saggi sulla poesia di Amelia Rosselli e ha collaborato al Meridiano L’opera poetica, uscito nel 2012 e al numero monografico XV, 2-2013 di «Moderna» (Serra, 2015). Nel 2020 ha pubblicato di Attilio e Ninetta Bertolucci, Il nostro desiderio di diventare rondini. Poesie e lettere (Garzanti).