Interventi

Postille pedanti a “Il nome della rosa”

Nel commentare la voce “filologo” il Tommaseo-Bellini, il più importante Dizionario della lingua italiana dell’800, così scrive al punto 3: «Più comunemente ha senso di semplice Erudito, e allora non è lode grande». Lusingato da così affettuosa definizione, non posso esimermi dal proporre alcune pedanti osservazioni sulla recente edizione de Il nome della rosa (Milano, La Nave di Teseo, 2020), a quarant’anni dalla sua uscita. Tra i vari meriti del libro, c’è anche quello di aver fatto nascere, come ha rilevato in questo articolo Oliviero Diliberto, il successo del fenomeno del giallo bibliofilico, in seguito sviluppatosi in tutto il mondo. Ma per venire alla mia lettura personale,  fu amore a prima vista appena iniziai a sfogliarlo. Restai subito affascinato dalla sconfinata cultura del suo autore e da come riuscisse a trasmettere il suo bagaglio di conoscenze in un’opera di narrativa, senza renderla pesante o d’ingombro. Mi limito a citare un solo esempio: non so se qualcuno lo abbia nel frattempo notato, ma l’argomentazione sul “riso” dipende in larga parte da E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, e in particolare dall’ Excursus IV,  intitolato per l’appunto Il serio e il faceto nella letteratura medievale.

Con un tocco di genio, Eco trasforma questo capitolo, del quale riprende anche svariate citazioni, facendolo divenire uno snodo narrativo, al punto che il riso può essere considerato come il protagonista occulto di tutta la vicenda. Basta ricordare il dialogo del capitolo «Settimo giorno. Notte» tra Guglielmo di Baskerville e Jorge da Burgos davanti al II libro della Poetica di Aristotele: «Ma cosa ti ha spaventato in questo discorso sul riso? Non elimini il riso eliminando questo libro». «No, certo. Il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne. È il sollazzo per il contadino, la licenza per l’avvinazzato, anche la chiesa nella sua saggezza ha concesso il momento del carnevale, della fiera, questa polluzione diurna che scarica gli umori e trattiene da altri desideri e ambizioni (…). Ma se qualcuno un giorno, agitando le parole del Filosofo, e quindi parlando da filosofo, portasse l’arte del riso a condizione di arma sottile, e se alla retorica della convinzione si sostituisse la retorica dell’irrisione (…) oh quel giorno anche tu e tutta la tua sapienza, Guglielmo, ne sareste travolti! ». Un piccolo ricordo personale: quando nel corso di una presentazione romana degli anni ’80 chiesi a Eco se era fondata questa mia ipotesi, mi rispose che non è compito degli scrittori svelare i propri modelli, ma degli studiosi individuarli.

Per tornare all’edizione appena uscita, essa risulta arricchita, come recita il frontespizio, dei disegni e degli appunti preparatori dell’autore. Questa integrazione va salutata con gioia da tutti gli amanti dell’opera perché aiuta a comprendere il metodo di lavoro di Eco, anche se non avrebbe certamente guastato la presenza di didascalie in calce a ciascuna illustrazione. Ma forse ancora più grave nell’ottica della pedanteria filologica è che il lettore non sappia quale sia il testo che viene proposto in questa edizione. Nel 2012, infatti, Eco ripubblicò il romanzo apportandovi una serie di correzioni e modifiche, puntualmente segnalate da Giuseppe Antonelli (Medioevo da grande schermo, in “Domenica” del “Sole 24 ore”, 8 gennaio 2012), tra le quali «la descrizione della faccia del bibliotecario, dove volevo eliminare un plateale riferimento neogotico, e certe citazioni latine» (Nota all’edizione 2012); operazione ribadita in una intervista con Paolo Di Stefano «Mi davano noia certe espressioni o ripetizioni. Per il lettore ho fatto piccoli aggiustamenti alleggerendo le citazioni latine, anche se avrei potuto fregarmene del lettore visto che il libro ha venduto trenta milioni di copie (ormai dicono, ma forse è la metà). Insomma, a trent’anni di distanza, non avendolo mai toccato mi sono preso il divertimento di fare le pulizie di Pasqua».

Sulla base di queste affermazioni, si può dare per scontato che il testo ora apparso per La Nave di Teseo riprenda quello del 2012. Ma costava molto dirlo? O forse non si voleva rovinare il traino mediatico di una riedizione del “quarantennale”, visto che nel risvolto di copertina si menziona solo la Prima edizione del 1980?