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“Testis unus, testis nullus”. Dante e Primo Levi

«La spinta alla citazione è così forte che alcuni scrittori citano inconsciamente, allo stesso modo come camminano i sonnambuli». Così argomentava Primo Levi in un articolo del 1977 intitolato Sic! Tutta l’opera di Levi, in effetti, attinge a piene mani dalle opere di noti scrittori che egli considera come un grande serbatoio di idee, immagini, espressioni. A lungo si è discusso, sia  in Italia che in ambito anglosassone, sulla presenza – visibile e totalizzante – di riprese della Commedia all’interno di Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati, testi nei quali lo scrittore torinese offre una delle più alte testimonianze della drammatica realtà del Lager di Auschwitz. Immediato è il richiamo all’Inferno dantesco nel mondo concentrazionario rovesciato e incomprensibile, in cui regnano la sottomissione, la violenza, la degradazione dell’essere umano ad uno stadio bestiale e il conseguente appellarsi alla legge del più forte. Levi mutua da Dante termini, espressioni, interi canti (come nel caso di Ulisse) per cercare di spiegare al meglio la traumatica esperienza della propria catabasi infernale. L’esempio più noto, dopo Ulisse, è sicuramente quello legato alla Babele linguistica del campo («Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle»), spiegabile, forse, solo attraverso un rimando dantesco. Ciò accade perché entrambi gli autori si trovano a dover testimoniare un’esperienza tremenda e apocalittica. L’autore torinese ha spesso in mente il poeta fiorentino: per comprendere il peso che Dante e la sua poesia hanno avuto nella formazione e nella scrittura di Levi si veda qualche dato numerico indicativo: all’interno di L’altrui mestiere, si contano ben sedici riferimenti a Dante, altri tre si trovano negli articoli raccolti in Terza pagina della Stampa. Spulciando tra le raccolte di racconti, si possono enumerare ancora sei rimandi danteschi nelle Storie Naturali (1967), quattro in Vizio di forma (1971), otto nel Sistema periodico (1975), tre in Lilìt e altri racconti (1981). Infine, altri quattro richiami danteschi, più o meno diretti, si possono individuare nella Chiave a stella.

Mentre Dante, rappresentando un universo oltremondano e frutto di una visione, pretende  che i lettori credano nella veridicità del suo racconto, Levi – che ne descrive uno fin troppo tragicamente reale – teme, invece, di non essere creduto dai suoi lettori e deve fare i conti con il senso stesso della testimonianza dell’orrore.
Ed ecco che in tutti i testi leviani in cui l’io-narrante si esprime in prima persona, egli – proprio come Dante nella Commedia – non è mai solo. Il protagonista ha sempre qualcuno che lo accompagna, lo guida, lo mette in imbarazzo con gesti e parole che egli non comprende o, ancora, lo aiuta insegnandogli al contempo una qualche lezione di vita. Primo, nelle sue esperienze concentrazionarie e non, ha sempre una spalla, un “due”, sia esso Alberto, Lorenzo, Cesare, Jean o Tino Faussone.
Acclarato il valore testimoniale dell’opera di Levi, allora, è facile comprendere come in ognuno di questi compagni si rispecchi in qualche modo un surrogato virgiliano di dantesca memoria. Il mite e cortese scrittore, dentro e fuori da Auschwitz, ha sempre accanto a sé una guida che lo aiuta a cavarsi fuori da una situazione difficile o sgradevole: ad uscire, insomma, a «a riveder le stelle». Ma Virgilio e Beatrice come Cesare, Lorenzo, Alberto, Pikolo – vivi o morti che siano, – non assolvono unicamente al ruolo di aiutanti in un mondo spaventoso e sconosciuto ma permettono, soprattutto, di superare il vortice giuridico – di origine Medievale e mutuato dal Deuteronomio – per cui «Testis unus, testis nullus»: Un solo testimone non ha alcun valore. In Cerio, racconto inserito nel Sistema periodico, Primo non riesce da solo – nonostante la sua esperienza di chimico – a creare in laboratorio composti commestibili o smerciabili al mercato nero. Sarà Alberto a suggerirgli di rubare e tagliare ferrocerio da vendere come pietrine per accendini: «Non fare difficoltà, mi disse: ci penso io. Tu pensa a rubare il resto». Alberto non sopravvivrà alla furia nazista e, nonostante ciò, la sua vicinanza a Primo funge a più riprese – qui come altrove – non solo da presenza rassicurante ma anche da canale testimoniale dell’atrocità di quanto accaduto. Nel Canto di Ulisse di Se questo è uomo, sarà invece Pikolo – che apparentemente è un discente ma si rivelerà da subito un maestro – a fungere da guida («- Tu es fou de marcher si vite. On a le temps, tu sais – […]. Rallentammo il passo. Pikolo era esperto […]. Jean […] mi suggerisce il termine appropriato per rendere “antica”[…]. Come è buono, Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene») e al contempo da testimone, incontrando Primo a molti anni dall’esperienza concentrazionaria e ricordando con lui l’episodio in diretta televisiva. Ancora un esempio si può ricavare dal Tischler in Lilìt che, in quanto testimone, assiste con Primo ad un acquazzone nel campo tale da interrompere i lavori pesanti e con lui si ripara; come guida, invece, il falegname spiega a Primo la storia della prima moglie di Adamo, a lui ignota: «Se tu avessi letto bene la Bibbia, ricorderesti che la faccenda della creazione della donna è raccontata due volte».
Gli esempi sono innumerevoli e percorrono tutta l’opera di Levi, toccando anche la narrativa non incentrata sull’esperienza concentrazionaria. In La chiave a stella, nel capitolo Il vino e l’acqua, il protagonista, in gita sul Volga con il giovane amico Tino Faussone, incontra un gruppo di russi, guidati dall’operaio Ràsnitsa (Differenza), che Faussone conosce e di cui non si fida. Come un moderno Caronte, questi rimprovera i due per aver pagato il biglietto del battello, prima del suo arrivo. Contrariato, egli afferma che avevano «fatto molto male a prendere i biglietti […] il viaggio […] lo avrebbe offerto lui, era amico del capitano […] e su quella linea il biglietto non lo pagava mai». A questo punto i due protagonisti sono costretti da una «convivialità compulsiva che confinava con la minaccia» a proseguire il viaggio – terrestre e nautico, come già in Dante – con la comitiva appena conosciuta. Faussone assumerà qui, temporaneamente – ovvero solo per lo spazio del viaggio –  il ruolo di guida, mentre il protagonista – che si sentirà smarrito e inerme, in una situazione ignota, che gli desta stupore e meraviglia («Erano due omoni dalle facce patibolari, quali io non ne avevo mai viste da nessuna parte») – si affiderà a lui anche perché  non conosce bene la lingua in cui viene educatamente minacciato. Qui, dunque, un Faussone-Virgilio, nonostante la giovane età, funge – oltre che da testimone della rocambolesca avventura – da guida e maestro al compagno che, al pari di Dante, è in difficoltà e giunge persino a sentirsi, proprio come il poeta nel canto III del Purgatorio, addirittura abbandonato dalla sua improvvisata guida: «Non mostrava alcun segno di disagio; […] fosse distrazione o un deliberato intento di primato, non ha fatto alcun tentativo di venire in mio soccorso».
Assai da vicino, insomma, la condizione di Levi – dentro e fuori dal Lager – ricorda quella di Dante, preoccupato e smarrito nella Selva oscura e nei vari gironi infernali, spaventato all’udire le «Diverse lingue, e  le orribili favelle» dei dannati di cui non comprende i significati, ignaro dei pericoli del mondo che lo circonda e di come aggirarli. Avere un “due”, un compagno che affronti il viaggio con il protagonista – sia esso Dante o Primo – permette, quindi, un duplice vantaggio: da un lato certamente c’è il poter approfittare dell’esperienza o dell’astuzia altrui per orientarsi (e salvarsi) in un ambiente sconosciuto e incomprensibile; dall’altro, però, ci si assicura anche il beneficio di avere una voce altra, che garantisca sulla veridicità di quanto viene narrato a posteriori. Appurato che le narrazioni testimoniali di Levi sono, senza dubbio alcuno, frutto di esperienze reali e che l’autore torinese esprime in più occasioni il proprio intimo bisogno di essere creduto, dietro il suo trovarsi perennemente in compagnia, potrebbe celarsi – insieme alla realtà storica dei fatti – anche un rimando letterario a quel Dante tanto ammirato e ripreso, forse, «inconsciamente, allo stesso modo come camminano i sonnambuli».

teresa.agovino@unimercatorum.it

Postilla bibliografica

  1. P. Levi, Sic!, in Racconti e saggi di Primo Levi, Terza Pagina – La Stampa Torino, 1986.
  2. P. Levi, La chiave a stella, Torino, Einaudi, 1991.
  3. G. Calcagno, Dante dolcissimo padre, in Al di qua del bene e del male. La visione del mondo di Primo Levi. Atti del Convegno internazionale – Torino, 15-16 Dicembre, 1999, a cura di E. Mattioda, Milano, Franco Angeli, 2000.
  4. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di E. Pasquini e A. Quaglio, Milano, Garzanti, 2000.
  5. P. Levi, Tutti i racconti, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 2005.
  6. T. Agovino, O mente che scrivesti ciò ch’io vidi. Influssi danteschi nella prosa di Primo Levi, in La funzione di Dante e i paradigmi della modernità, “Atti del XVI convegno internazionale di studi della MOD”, Roma, Lumsa, 10-13 giugno 2014, a cura di P. Bertini Malgarini, N. Merola, C. Verbaro, Pisa, ETS, 2015.
  7. P. Levi, Il veleno di Auschwitz. Il volto e la voce: testimonianze in TV 1963-1986, Venezia, Marsilio, 2016.

 

L'autore

Teresa Agovino
Teresa Agovino è dottore di ricerca in Letterature Romanze presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale". È cultore della materia in Letteratura Italiana Contemporanea. È professore straordinario a t. d. di Linguistica Generale presso l'Universitas Mercatorum di Roma, e docente a contratto di Lingua e linguistica italiana presso la Scuola Superiore Internazionale di Mediazione Linguistica (SSML) di Benevento; di Linguistica Italiana e Generale presso UniPegaso. Ha pubblicato due volumi: Elementi di linguistica italiana (Sinestesie, 2020) ; Dopo Manzoni. Testo e paratesto nel romanzo storico del Novecento (Sinestesie, 2017). Si occupa di ricerca in Letteratura italiana del Novecento e Duemila. In particolare studia i riferimenti manzoniani contenuti all'interno della prosa contemporanea sino agli anni Duemila (principalmente in Camilleri e De Cataldo) e l'opera di Primo Levi. Di prossima pubblicazione anche la traduzione italiana del romanzo Bones in London di E. Wallace (1921).